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IL CAPITALISMO ITALIANO:RIFLESSIONI E CONTRADDIZIONI

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Il capitale logora chi non ce l’ha.

BIAGIO BORRETTI

Quando la Fiat si libera dei “ferri vecchi”

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«La comprensione dell’esistenza di una classe proletaria “in sé”, disgregata ma presente, indica una base oggettiva al progetto di emancipazione» H. Wilno

«Da un lato la pensione te la vogliono dare a sessantacinque anni, da un altro lato la Fiat a cinquant’anni ti vuole cacciare perché va trovando i giovani per farli lavorare di più. E noi tra i cinquanta e i sessantacinque c’amma fa’?» Operaio della Selca (ex-operaio Fiat)

1. Crisi di sovrapproduzione e ristrutturazione capitalistica I processi di “fordizzazione” e “taylorizzazione” tipici dell’industria novecentesca (e soprattutto di quella automobilistica) entrano in crisi negli anni ’60 e ’70 a causa di una pluralità di fattori: sovrapproduzione mondiale di merci (quindi non valorizzabili); crisi di governabilità, di organizzazione e di legittimità di un modello fortemente gerarchico-burocratico nonché autoritario, che persegue la costante dequalificazione del lavoro operaio; sviluppo di lotte di classe diffuse su larga scala dentro e fuori le fabbriche, con la ribellione organizzata dei lavoratori anche in forme nuove, estranee ai sindacati burocratizzati, ecc. Sorge il problema, per il capitale, di elaborare nuove strategie organizzative per rimodulare la fabbrica in modo tale che, in un contesto di sovrapproduzione, di diffuse pratiche di classe conflittuali, sia ancora possibile pensare di scomporre la classe lavoratrice e garantire la realizzazione del profitto. La risposta (e la sfida!) arriva da Oriente, ed in principio viene sottovalutata, snobbata, criticata. Il “nuovo” modello organizzativo, definito “giapponese”1, in realtà operava e si sviluppava nelle industrie nipponiche già da decenni: il suo fine è quello di garantire la realizzazione di profitti, anche in mercati ristretti o con crescita tendente a zero2, grazie ad una organizzazione flessibile delle macchine, del lavoro e dei salari. Qui ci è impossibile anche solo accennare all’organizzazione scientifica del lavoro giapponese3. Tuttavia ci preme sottolineare, in questa sede, almeno le seguenti caratteristiche: a) la rivalutazione che il management giapponese fa del lavoro vivo4, che viene posto al centro della organizzazione imprenditoriale come unico fattore di creazione di pluslavoro e, quindi, (unica) fonte di ricchezza (certo, gli ingegneri del capitale non utilizzano tali categorie ma, in termini diversi, sostengono le stesse cose); b) la “snellezza” tipica della fabbrica giapponese. Il principio della lean production è il fondamento di un processo di “liofilizzazione” (Antunes) e frammentazione della vecchia, grande, concentrata fabbrica fordista, che si concretizza nella “cellularizzazione” della forza-lavoro e della stessa organizzazione aziendale. Detta cellularizzazione può essere perseguita sia in modo estensivo che intensivo (Fiocco (2001: 48-ss.)). La prima comporta una “dispersione spaziale” (esplosione sul territorio) e una “separazione giuridica” della forza-lavoro in unità lavorative più o meno piccole anche se integrate tra di esse (l’esempio più chiaro sono le filiere di fornitura). La seconda è caratterizzata dallo smembramento della forza-lavoro ricollocata all’interno di più stabilimenti della stessa fabbrica, e la riorganizzazione della classe lavoratrice in cellule lavorative costituite dai gruppi di lavoro, messi in concorrenza tra loro5. La classe lavoratrice viene “individualizzata” anche grazie ad un particolare sistema di premi che fa sì che quasi ogni lavoratore abbia un salario suo specifico, “costruito su misura”, diverso dagli altri. Una delle forme principali assunte dalla cellularizzazione estensiva è l’esternalizzazione (outsourcing)6. Essa comporta l’esportazione di intere fasi produttive o di alcuni rami di queste ultime, al di fuori della fabbrica, a favore di imprese che danno vita al fenomeno della fornitura e della subfornitura. Mentre i primi livelli di fornitura di una grossa società sono per lo più occupati da grandi imprese (spesso multinazionali), la subfornitura è popolata da una miriade di PMI che lottano concorrenzialmente tra di loro, per la sopravvivenza7. Una pluralità di imprese, pertanto, realizza prodotti o presta servizi precedentemente interni all’azienda che esternalizza. Le cosiddette “reti”8 di fornitura e subfornitura, anche se appaiono strutturate in modo orizzontale, hanno sempre una società-madre che detiene il potere/comando economico, finanziario, di commissione9. Spesso le PMI sono “monocommissionarie”, cioè lavorano per un solo committente, dipendendo così economicamente, ma anche finanziariamente (e spesso anche organizzativamente) dalla impresa-madre, per cui si instaurano rapporti di tipo asimmetrico tra i diversi soggetti imprenditoriali dislocati lungo la catena produttiva. I benefici derivanti, alla core firm, da tale organizzazione reticolare-asimmetrica sono molteplici: l’impresa-madre scarica all’esterno i rischi d’impresa, quelli gestionali, organizzativi (risk shifting: sono problemi che deve risolvere il subfornitore); elimina ogni tipo di contatto con la forza-lavoro che ora dipende da un altro soggetto giuridico, economico, imprenditoriale. Viene operata (perseguita!) una vera e propria scomposizione della classe lavoratrice, non più concentrata in grandi stabilimenti, accomunata dall’appartenenza alla stessa azienda, legata dagli stessi interessi immediati (tutto ciò provoca effetti devastanti sulle pratiche conflittuali di classe). I lavoratori sono divisi in piccole o medie unità lavorative, hanno spesso trattamenti contrattuali diversi, pur svolgendo le stesse mansioni, sviluppano, insieme ai sindacati, sistemi di relazioni sindacali più deboli, meno pervasivi, data la loro minore forza contrattuale e conflittuale; è il comando stesso del capitale sul lavoro a beneficiare di questa condizione dei lavoratori, dal momento che il ricatto padronale, le sue efficacia e consequenzialità sono più pressanti e diretti10. La produzione snella e l’attuale ristrutturazione aziendale quindi non è comprensibile senza il processo complementare di terziarizzazione avanzata e, in alcuni casi, di modularizzazione (Magnabosco (1999)) (che è una forma di terziarizzazione “integrante”). L’esternalizzazione è un vero e proprio strumento di razionalizzazione del processo lavorativo funzionale al processo di valorizzazione; è cioè fondata e “guidata” nella/dalla legge del valore (Donato, Pala (19991)). La grande impresa fordista che entra in crisi “impone”, alla forza-lavoro ma anche ai capitali minori, la propria ristrutturazione. La rete (gerarchica) di imprese è finalizzata a che l’impresa-madre riesca, tramite scambi ineguali e asimmetrici11, ad appropriarsi di parte del plusvalore creato dal lavoro vivo erogato nelle imprese collegate subordinatamente ad essa. La rete costituisce una vera e propria “catena del valore” (che sempre più si struttura su scala mondiale) ove il beneficiario ultimo di parte del plusvalore creato lungo la catena e sottratto alle imprese subordinate è l’impresa-madre12.

2. Dalla F.I.A.T. alla S.EL.CA.

La Fiat è sicuramente stata uno dei polmoni principali (se non il cuore per antonomasia) dell’industria privata italiana. Essa, nel tempo, ha goduto dell’appoggio interessato di governi che le hanno garantito politiche protezionistiche e di relazioni industriali favorevoli nonché di uno storico e abbondante esercito industriale di riserva (si pensi ai meridionali che salivano a Torino) tali da garantire un costo della forza-lavoro, in tutto il periodo post-bellico, tra i più bassi dell’occidente industrializzato. Alla crisi plurale, di cui abbiamo accennato in precedenza, la Fiat risponde con una strategia variegata e complessa, che interessa l’organizzazione dell’intera azienda (e quindi della stessa forza-lavoro) e si sviluppa su più fronti. Come le grandi società monopolistiche ed oligopolistiche in preda alla crisi di valorizzazione (provocata dalla crisi di sovrapproduzione), la società torinese si apre al mondo della finanza e sposta consistenti fette del proprio capitale in settori precedentemente poco sperimentati. Ma per quanto riguarda la strategia di ristrutturazione13 del comparto automobile essa si muove, durante gli anni ’70 e ’80, lungo tre direttrici: a) decentramento produttivo; b) automazione14; c) riorganizzazione del lavoro in “isole di montaggio”. Mentre la seconda e la terza “via” sono state, almeno nelle loro versioni più estreme (b) o originarie (c), abbandonate o rielaborate (sono servite come base di partenza di nuovi avanzatissimi progetti organizzativi: si pensi alla Sata di Melfi), la prima direttiva, pur ripensata in forme diverse e sempre più aggiornate, sembra strutturare tutta la nuova organizzazione aziendale della Fiat, un vero e proprio principio generale al quale informare tutte le politiche imprenditoriali (si pensi alla passaggio “storico”, ma già in nuce, dalla Fabbrica Integrata alla Fabbrica Modulare, Magnabosco: 1999). Dagli anni ’70 in poi la Fiat promuove una notevole “meridionalizzazione” del proprio arcipelago produttivo. Il dislocamento15 scaturisce da una molteplicità di esigenze: dalla necessità di smembrare la forza-lavoro, in precedenza concentrata nel Nord Italia e soprattutto a Mirafiori; la ricerca di una forza-lavoro più “malleabile”, con meno tradizioni operaie e meno sindacalizzata/bile (greenfield), nonché più flessibile e con meno pretese contrattuali, date le condizioni di estrema precarietà e diffusa disoccupazione; rileva inoltre l’opportunità di percepire considerevoli aiuti statali per investimenti nel Mezzogiorno (SVIMEZ: 1993). Oltre al processo di delocalizzazione dei propri impianti produttivi, la Fiat promuove un intenso processo di esternalizzazione, che comporta la progressiva cessione di rami interi di produzione o fasi di essi, ad imprese terze (terzizzazione). All’interno di questo quadro rientra anche la ristrutturazione della Fiat di Pomigliano: la direzione aziendale ha necessità di “snellire” lo stabilimento campano. Nel 1996 decide di cedere l’intero ramo cablaggi a due società: una è la Cavis Srl16, l’altra è la neocostituita ad hoc Selca Srl del gruppo Cablelettra di Robbio (Varese). Il ramo aziendale era composto da 800 lavoratori che vengono ripartiti in maniera eguale tra le due società17. La Selca, che è sita in Castello di Cisterna (NA), ha un solo committente, la Fiat di Pomigliano, che le garantisce una commessa pluriennale. Gli “ottocento” sono accomunati da una caratteristica: sono stati tutti/e logorati fisicamente da anni spesi alla catena di montaggio. Tutti più o meno soffrono di acciacchi vari, hanno subito infortuni sul luogo di lavoro. Un lavoratore dice: «Siamo entrati alla Fiat sani. Siamo andati a lavorare e poi man mano abbiamo avuto [incidenti]... ci siamo fatti [male]...”. Il cablaggio è un reparto dove vengono “confinati” i lavoratori che, avendo subito infortuni, non possono sopportare sforzi fisici eccessivi18. I lavoratori, nel corso di decenni, sono stati letteralmente logorati, al punto che non sono più stati ritenuti “produttivi” dal capitale; per esso sono dei “pesi morti”, dei “ferri vecchi” di cui sbarazzarsi. Sono degli “handicappati” che, una volta strizzati, torchiati fino a causare ripercussioni fisiche anche permanenti, vanno sostituiti. La Fiat da questa operazione non solo ottiene tutti i vantaggi tipici dell’esternalizzazione ma se ne garantisce uno ulteriore: quello di liberarsi di lavoratori non altamente produttivi perché essa stessa li ha resi tali: il capitale non ha mai smesso di essere “socio-darwinista”! I lavoratori vivono traumaticamente il passaggio. Vanno via da una fabbrica nella quale, comunque, grazie a lotte precedenti, hanno ottenuto tutta una serie di diritti e nella quale si sono garantiti uno status quo di agibilità anche sindacale non sottovalutabile. E sono diretti in un nuovo ambiente lavorativo di più piccole dimensioni, dove il rapporto con la controparte è essenzialmente differente, dove il sindacato rischia di perdere il proprio potere contrattuale19. Le organizzazioni sindacali (oo.ss.) riescono comunque a stringere un accordo con le parti in causa in base al quale la direzione aziendale si impegna a mantenere la Selca in attività per almeno 5 anni, potendo contare anche sulle promesse commesse della Fiat. I lavoratori però giustamente si chiedono: «Se la Fiat ci ha cacciati perché non riusciva più a sostenerci, come può farlo adesso una società più piccola, con meno finanziamenti, appena nata?”. Un lavoratore a tal proposito utilizza una chiara metafora: «Io non penso che se mi devo comprare una macchina la compro con il motore fuso. [...] Qual è l’incentivo che l’ha spinto a prendere noi? Ci deve essere qualcosa che... Allora probabilmente la Fiat gliel’avrà imposto: “Tu se vuoi lavorare con me devi fare così” e... penso. Non lo so”. Una nuova impresa ha bisogno di forza-lavoro attiva, giovane o quanto meno non “menomata” nella propria produttività20. Tant’è. Con la cessione del ramo d’azienda naturalmente21 i lavoratori conservano tutti i propri livelli contrattuali e qualcuno ottiene anche la promozione. Alla Selca il lavoro però è più pressato, controllato, i ritmi sono più elevati, spesso impossibili, la direzione è con il fiato sul collo: l’imperativo, come al solito, è la produttività, anche se si è acciaccati, infortunati. Viene richiesta la presenza anche quando si è assolutamente indisponibili (la situazione è tale che molti sono costretti a ricorrere, anche frequentemente, alla “cassa mutua”, si “mettono in malattia”; ciò genera una spirale perversa per cui più si è malati e più la direzione chiede di tenere alta la produttività a chi è sul posto di lavoro e più lamenta l’assenteismo diffuso, che non è altro che una forma di autodifesa contro le esigenze distruttive e mortali del capitale22). Alla Selca il livello di sindacalizzazione è elevato. Quasi tutti hanno la tessera di uno o di un altro sindacato. Questi ultimi possono essere suddivisi in due categorie principali: quelli “conflittuali” (Fiom, ma i primi anni ci sono anche i Cobas) e quelli più “concertativi”, collaborativi, accomodanti, gli operai li definiscono “filoaziendali” (“stanno appiccicati, loro e la direzione”)23. Il management sostiene, come al solito, politiche di avvicinamento delle oo.ss. più disponibili, cercando di ostracizzare quelle più conflittuali. Soltanto nella fase del conflitto aperto (v. dopo) i dirigenti troncheranno tutti i rapporti con le varie oo.ss.24. Dall’intervista di un lavoratore (tecnologo, il solo rimasto ad occuparsi dell’Ufficio tecnico) traspare una forte disillusione nei confronti di tutte le oo.ss.. Racconta che spesso si sviluppano conflitti intersindacali finalizzati alla sola gestione di quel poco di potere che viene concesso dalla direzione. C’è l’impossibilità di costruire un “fronte unitario” di tutti/e gli/le operai/e, e l’interesse di bottega, alimentato dalle burocrazie sindacali, ha sempre prevalso. Un iscritto (“da sempre”) alla Fiom25 lamenta che «i sindacati minacciano la protesta solo quando subiscono una scortesia». La situazione sindacale alla Selca può essere un valido esempio di come sia ancora più difficile “fare sindacato” in piccoli contesti aziendali. Laddove l’agibilità sindacale è minore, ed il contatto con la parte padronale non è conflittuale, le burocrazie tendono a crearsi spazi di micropotere che sfuggono completamente al controllo dei lavoratori che, divisi, demoralizzati, non coscienti della propria forza, spesso si adattano allo status quo, non hanno la forza per reagire e subiscono non solo il comando padronale, ma anche l’illusione dispensata dal “proprio” sindacato, sul quale in realtà non hanno nessun potere decisionale, e al quale spesso si chiede un “semplice piacere personale”, che proprio in quanto individualizzato e scollegato dagli interessi dell’intera forza-lavoro aziendale può spesso entrare in contrasto con questi.

3. I primi “scricchiolii” e... la chiusura. La lotta Dopo i primissimi anni di attività cominciano le prime “agevolazioni in uscita” da parte della direzione. Gli incentivi all’inizio sono anche sostanziosi. C’è la visibile volontà di liberarsi di una forza-lavoro indesiderata, che si può sfruttare non in maniera integrale, perché ha già dato (troppo) negli anni precedenti, e che nonostante tutto lavora, produce, “fa quello che deve fare”26. Il management sostiene quindi una politica di “spopolamento”, di “liberazione” dei luoghi di lavoro dai lavoratori stessi (e questo è solo il preludio a quella sorta di “soluzione finale” che verrà praticata con forza negli anni successivi). Grazie al ricorso al prepensionamento, agli incentivi in uscita, alla mobilità (corta e lunga), i processi di ristrutturazione (in questo caso di vero e proprio downsizing) comportano una lenta ma continua erosione dei posti di lavoro interni alla Selca (processo che influisce anche sul volume dell’output: diminuendo il personale viene ridimensionata anche la produzione generale, nonostante la Fiat continui a garantire la commessa, pari al 3% del proprio fabbisogno). I sindacati in questa fase agiscono da vere e proprie “ramificazioni aziendali”, interpretando il volere padronale e facendosi suoi intermediari (necessari ed efficaci) presso i lavoratori, ai quali si consiglia di andare: «Il sindacato era più interessato a farcene andare che a farci rimanere. A chi aveva i requisiti hanno fatto pressione per farli andare via: “Ti conviene...”» (se proprio devono bere la cicuta, questi operai, che siano i propri “tutori” a versarla!). Si fa largo ricorso al prepensionamento, si agevolano i percorsi di uscita dal mondo del lavoro o quanto meno dall’azienda. La burocrazia sindacale, stando a quanto affermato da un operaio, è tutta protesa ad ottenere favori personali e al massimo per i propri iscritti con uno spirito di “bottega” degno delle lobby27. Nel periodo in cui viene sottoscritto l’accordo Fiat- General Motors, si paventa l’ipotesi che la Selca possa essere sostituita da un’altra impresa fornitrice, statunitense, che però opera in Corea, con tutto ciò che consegue in materia di costi produttivi e quindi di concorrenza al ribasso. Questo episodio si inserisce in un clima che comincia ad essere sempre più rovente. Infatti, allo scadere dell’accordo (2001), la Selca comincia una massiccia operazione di ridimensionamento del proprio personale lavorativo. Ciò che i lavoratori temevano nel 1996 si concretizza ora. A qualcuno sembra più che plausibile, perché confermata dai fatti, l’ipotesi che si sia trattato di un vero e proprio “dislocamento fittizio”, temporaneo, della forza-lavoro, destinata comunque ad essere “eliminata”, in un modo o nell’altro. Le oo.ss., che soltanto in questa fase cominciano a sperimentare momenti unitari, avviano un lungo percorso di trattative con i vertici della Selca e del gruppo Cablelettra (nonostante il suo presidente non si sia mai presentato ad un solo incontro), con gli enti locali, con la Provincia, la Regione28, la prefettura, sottoscrivendo anche una serie di accordi che però, la maggior parte delle volte, sono stati disattesi unilateralmente dal management della Selca. Nel frattempo la direzione aziendale comincia ad esternare avvisaglie di crisi, si accusa la bassa produttività dello stabilimento, l’alto assenteismo dei lavoratori e si preannuncia sempre più forte una crisi aziendale che verrà ufficializzata il 26 settembre 2004 in un incontro presso l’Unione degli Industriali della provincia di Napoli, ed in seguito sarà formalmente “consacrata” quando saranno consegnati i registri contabili in tribunale per avviare la procedura fallimentare29. A questo punto le “imperative esigenze economiche” e l’antieconomicità strutturale e non transitoria (elemento fondamentale per avviare una procedura fallimentare) rendono “definitivamente esuberanti alle esigenze produttive dell’azienda” i lavoratori. I “superstiti” sono 46 unità lavorative30 allorquando, in data 23 settembre 2004, è avviata la procedura di licenziamento collettivo e messa in mobilità. Alle decisioni di parte padronale i lavoratori rispondono con una serie di proteste. A metà settembre comincia l’esperienza dell’occupazione della fabbrica. I lavoratori continuano a lavorare e consegnano i prodotti fino all’esaurimento delle scorte presenti in magazzino, pur mantenendo la propria forma di lotta31. L’occupazione è gestita direttamente dai lavoratori con i sindacati. Ci sono assemblee continue all’interno della quali la Fiom è il sindacato più attivo, ma un loro iscritto schiettamente confessa che: «Se ne strafottono pure loro, non è che... cioè un sindacato che non è stato nemmeno capace di avere i soldi in tempo. Non prima. A tempo! Io dopo quattro mesi che dovevo prendere i soldi... li ho presi dopo sette mesi. Ci hanno anticipato i soldi della nostra liquidazione. Con il risultato che è finita anche tutta la liquidazione». Il 6 ottobre bloccano l’autostrada A16 in entrambi i sensi di marcia, all’altezza dello svincolo di Pomigliano d’Arco. Nella riunione (una delle tante) presso la sede dell’Unione degli Industriali di Napoli dell’11 novembre le oo.ss. “si oppongono formalmente e fermamente ai licenziamenti su indicati e chiedono alla Direzione aziendale di aggiornare l’incontro [...] per ricercare tutte le soluzioni per evitare i licenziamenti” (v. il verbale). Ma nella stessa sede i rappresentanti della Selca confermano la “necessità di dar corso alla procedura di riduzione di personale per cessazione di attività con conseguente licenziamento e messa in mobilità” dei quarantasei lavoratori rimasti. La battaglia operaia dalla sede della Selca si sposta fuori i cancelli della Fiat di Pomigliano d’Arco. Cercano di instaurare un dialogo con la direzione locale della Fiat, pensano (sanno) che la chiusura della Selca sia la conseguenza di una strategia ben precisa studiata a tavolino già da qualche anno ed organizzata insieme con la Fiat. Gli operai della società di Castello di Cisterna si ritrovano isolati, non riscontrano alcun tipo di solidarietà di classe. Buona parte della loro lotta la conducono da soli (con l’appoggio delle sole oo.ss. aziendali): senza il sostegno degli altri lavoratori del gruppo Cablelettra, né della Fiat o di altre fabbriche. Questa esperienza può ben fungere da “caso studio” della frammentazione fisica del proletariato che si chiude in compartimenti stagno (anche mentali) della dimensione di un’azienda. È un esempio di come le strategie capitalistiche di scomposizione della classe lavoratrice abbiano operato in profondità. Un operaio Selca si lamenta della solitudine in cui versano: «Quando siamo andati fuori la Fiat siamo rimasti da soli. Perché gli operai della Fiat non sono usciti?». Quando si trovano a picchettare lo stabilimento Fiat di Pomigliano nessun lavoratore esprime solidarietà, addirittura molti sindacalisti si adoperano affinché, in un modo o nell’altro, riescano a fare entrare gli operai Fiat nello stabilimento: «I sindacalisti stessi venivano a raccomandare per fare entrare la gente» (alcuni se li nascondevano nelle auto!)32. In seguito all’ingresso avventuroso di due portavoce dei “47” all’interno dello stabilimento Fiat, i sorveglianti vengono minacciati, dalla direzione, di venire licenziati qualora permettano nuove “incursioni”. Spesso capita che, in seguito a tentativi di ingresso, da parte dei delegati Selca, vengono chiusi tutti i cancelli della Fiat, così nessuno può uscire né entrare (... quando il capitale si arrocca su se stesso...). In una delle veglie al varco di ingresso merci di Acerra gli operai Selca vengono anche minacciati da malavitosi che li costringono a far passare i loro camion. I “piqueteros” vengono tenuti sotto controllo quotidiano dalla Digos, e pure la loro età media è di cinquanta anni e, durante le trattative, chiedono: «Quando ci dovete caricare, ditecelo. Noi ci facciamo vedere un po’ e poi ci allontaniamo, perché qua altrimenti appena ci toccate c’ rumpimm’». Nonostante le precarie condizioni fisiche degli operai Selca (cosa risaputa dalla polizia), nella notte del 2 dicembre 2004 i lavoratori, alle 3:30 ca, vengono caricati dalle forze dell’ordine (capitaliste), dopo essere stati persuasi ad aprire i cancelli da una squadra di pompieri che fingono di avere bisogno d’acqua per spegnere un incendio nelle vicinanze. Lasciati passare, sbloccati i cancelli, i pompieri vengono immediatamente seguiti dai manganelli della polizia, dei carabinieri e dei finanzieri (in tutto circa 150) che cominciano la mattanza (due lavoratori in ospedale di cui uno in prognosi di tre giorni, per gravi difficoltà respiratorie), prendendo gli operai alle spalle. Alcuni di loro hanno così testimoniato: «Ci umiliavano, ci chiamavano operai come fosse un’offesa; a una delle nostre compagne ripetevano vattene a casa a fare la calza» (Pollice, A. (2004)). Il giorno dopo la Questura, in una nota, sostiene che la riapertura dei cancelli è avvenuta pacificamente: oltre alla violenza anche la beffa! Soltanto in seguito alla carica della polizia gli operai Selca incassano la solidarietà delle varie strutture sindacali e anche delle organizzazioni interne alla Fiat di Pomigliano. Il giorno dopo il loro presidio è pieno di sindacalisti e delegati. Amaramente un operaio così commenta: «Quando è successo questo fatto [il pestaggio], fuori i cancelli sono venuti solo i delegati. Un numero esagerato e sufficiente per bloccare tutto. Bastavano solo loro che ci davano una mano...». E comunque non c’è la mobilitazione degli altri lavoratori, bensì soltanto quella del “ceto burocratico” che deve difendere le proprie prerogative, che deve legittimare la propria agibilità contro l’invadenza padronale33. Nel gennaio 2005 parte la CIGS34 che scadrà il 2 gennaio 2006. Nel frattempo gli operai in rivolta passano da 47 a 30, poi a 24. Tra questi ultimi alcuni sono lontanissimi dal raggiungimento dei requisiti pensionistici anche minimi e soltanto sei, a detta della Selca, saranno occupati presso un’altra società del gruppo Cablelettra35. I restanti dovranno attraversare un periodo di mobilità di sei mesi, dopo di che, liquidata e cessata la Selca, e costituita una nuova società del gruppo Cablelettra (società finalmente “ripulita” di tutta quella forza-lavoro eccedente, vecchia ed usurata dal capitale), che dovrebbe comunque occuparsi del cablaggio36, essi, stando alle parole di alcuni rappresentanti della Selca, saranno riassunti: ed in quanto soggetti in mobilità, l’impresa che li assume otterrà vantaggi fiscali considerevoli. Le strategie del capitale... sono infinite. Intanto... scripta non manent, verba volant. Dal momento che ogni accordo è stato disatteso dalla controparte padronale è più che legittimo che gli operai nutrano seri dubbi sul proprio futuro: ultracinquantenni, con problemi fisici più o meno gravi ed in un mercato del lavoro che è sempre più un far west37. L’esperienza (non ancora conclusa) degli operai della Selca deve, può, servire da riflessione su alcuni punti caratterizzanti l’attuale fase capitalistica: a) il capitale ha sempre più strumenti giuridici per sostenere le proprie scelte guidate dalla legge del valore; b) le strategie di outsourcing sono dei veri e propri attacchi del capitale contro il lavoro per disgregare la sua organizzazione, il suo potere contrattuale e conflittuale, per deprimere quindi la quota dei salari nei propri bilanci, aumentare il tasso di plusvalore assoluto e relativo tramite la riorganizzazione delle aziende e quindi della forza-lavoro; c) i lavoratori hanno bisogno di nuove organizzazioni rappresentative dei propri interessi realmente democratiche, conflittuali (perché conflittuale è lo stesso rapporto salariale) e gestite e costantemente controllate dai propri iscritti38; che siano, queste organizzazioni, concretamente, e non solo negli statuti, dei lavoratori; d) il potere del capitale di disgregare materialmente la classe lavoratrice è deleterio dal punto di vista della coscienza di classe (che viene sempre più vista, dai sindacati burocratico-concertativi, come il “peccato originale” da espiare). È il momento di porsi seri problemi di ricomposizione soggettiva, autonoma, della classe lavoratrice attorno ai propri interessi materiali e “spirituali”39. Nonostante i propri acciacchi, una vita in fabbrica buona parte della quale passata alla logorante catena di montaggio, nonostante la scarsa solidarietà degli altri lavoratori, gli operai della Selca hanno difeso strenuamente, come hanno potuto, i propri interessi con grande caparbietà, dovuta anche alla loro situazione disperata, ed hanno dato battaglia al capitale. È una scintilla di lotta di classe (non è la prateria in fiamme), ma sono le scintille, si sa, ad originare gli incendi. Ed in caso d’incendio... che fare? Lasciar bruciare!

Note

* Ricercatore, Osservatorio Meridionale di CESTES-Proteo b.borretti@tiscali.it

1 Oppure toyotista, ovvero ancora ohnista, dai nomi, rispettivamente, della società dove per primo è stato sperimentato, la Toyota, e dell’ingegnere che l’ha forgiato, Taiichi Ohno.

2 Condizioni per molti versi molto simili, nella sostanza e non nelle forme né nelle cause originanti, al panorama industriale occidentale, ove la “restrizione” del mercato scaturisce dalla sovrapproduzione.

3 Per un approfondimento si rimanda ai testi oramai “classici” quali Ohno (1993), Coriat (1993), Womack, Jones, Roos (1991); per un’interpretazione critica di tale modello cfr. Dohse, Jürgens, Malsch (1988) e Filosa, Pala (1992).

4 Il pluslavoro (assoluto e relativo) è incrementato grazie alla disposizione flessibile delle macchine e della forza-lavoro, alla sua riorganizzazione in gruppi di lavoro dove la “tensione produttiva” schizza alle stelle, stimolata sia dalla cooperazione (eterodiretta) che dalla competizione con gli altri teamwork, da un sistema di controlli diffusi e vari, e dalla sussunzione del lavoro non solo materiale ma soprattutto mentale (v. problem solving) alle logiche capitalistico-aziendali.

5 Le relazioni che sviluppano sono di tipo mercantile.

6 Il fenomeno è ben più grande e coinvolge settori estranei all’attività industriale. Il principio dell’outsourcing è diffuso anche nella Pubblica Amministrazione (PA), laddove esso prende la forma delle privatizzazioni (ma lo stesso sistema delle consulenze esterne risponde a tali criteri). La PA commissiona o concede, tramite appalti o procedure simili, ad imprese private, tutta una serie di servizi che precedentemente erogava essa stessa garantendo la “sostenibilità” economica degli stessi. Oggi invece si limita a stabilire i “parametri generali” entro cui l’azione privata può agire, rendendo profittevoli tutti quei settori economici prima sottratti al mercato. Ciò tra l’altro ha favorito uno spostamento strategico delle più grandi famiglie italiane dai settori industriali-produttivi e sottoposti alla concorrenza internazionale a quelli dei servizi di pubblica utilità (dalla telefonia alle autostrade, dal metano agli Autogrill, dall’elettricità all’acqua) che garantiscono posizioni oligopolistiche se non monopolistiche e, soprattutto, essendo servizi essenziali, delle “entrate” fisse non suscettibili più di tanto alle crisi congiunturali (cfr. Giacché (2003) e Martufi, Vasapollo (2003)). Qualcuno a tal proposito ha parlato di “capitalismo delle bollette”. La strategia di privatizzazione può essere letta come un tassello della più generale “teoria conservatrice della crisi” di cui parlava Claus Offe a fine anni ’70: e cioè un processo globale di “ristrutturazione” dell’intera società capitalistica post-keynesista che comprende la liberalizzazione del mercato, la deflazione delle funzioni statali, il ripristino dei rischi occupazionali direttamente in capo ai soggetti colpiti (in fondo il Workfare, nella sostanza, non mira a questo?), restituzione ai privati di attività produttive.

7 Un operaio da noi intervistato, a proposito dimostra di avere idee molto chiare: “Spesso queste aziende [quelle committenti] tengono i lavoratori solo per assemblare. Fanno fare pezzi a ditte più piccole, piccole fabbriche che lavorano a nero”.

8 Il concetto di rete, che rimanda all’idea di una struttura orizzontale, si riduce ad essere, anche nei casi degli “orizzontali” e “paritari” distretti industriali, una “finzione” sociologico-economica che oblitera la struttura e le relazioni gerarchiche delle filiere di produzione, di fornitura. Insomma, ogni ragnatela ha bisogno del suo ragno che la costruisce e la “controlla”.

9 Tony Smith (2000: 97-ss.) chiarisce come, tra i network imprenditoriali, si sviluppino “relazioni di potere” ove chi detiene la posizione dominante è l’impresa che dispone: a) del controllo della produzione; b) dei flussi informativi; c) della capacità (forza) di influenzare (se non di decidere ed imporre) i prezzi e i profitti. La produzione può quindi anche essere decentrata (ed anzi il decongestionamento produttivo è funzionale alla grande impresa capitalistica), ma il potere, la finanza ed il controllo rimangono saldamente concentrati nelle mani dei manager, ed in ultima istanza dei proprietari, della core firm (l’impresa madre).

10 È anche più facile fare leva su tutta una serie di “sentimenti” quali la “familiarità” dell’azienda piccola, la solidarietà necessaria tra capi ed esecutori, il fare squadra, pena il fallimento dell’esperienza imprenditoriale (i c.d. “ricatti morali”, che si fondano su ben più concrete paure di perdere il posto di lavoro). È più facile quindi instaurare un clima di tipo “paternalistico” (che nasconde sempre un tono forte di autoritarismo) che illude i lavoratori sulla vera natura diseguale dell’organizzazione d’impresa. Inoltre la pressione del committente sul fornitore tende a legittimare l’esercizio “del controllo sul lavoro da parte dei manager delle imprese di fornitura, in quanto il loro agire si presenta come una mera necessità di far fronte ai vincoli di consegna imposti dal committente” (Pulignano (2001: 175)). L’imperativo di produzione sembra incombere, come fattore esterno e “neutrale”, anche in capo al management dell’impresa fornitrice. Le esigenze produttive del committente vanno rispettate, e non è colpa di una direzione di impresa insensibile se i lavoratori sono torchiati: il problema è esogeno all’impresa. È chiaro il dispositivo all’opera in questa relazione committente/fornitore. Il potere manageriale e il comando sul lavoro scompaiono nella razionale e neutra “esigenza produttiva” del committente.

11 Avendo il potere contrattuale di commissionare oppure no, a che condizioni farlo (costi, tempi, qualità, quantità), disponendo quindi anche dell’esistenza stessa delle imprese subappaltatrici, soprattutto quando esse sono “monocommissionarie”.

12 A proposito della Fabbrica Modulare, realizzata a Melfi, che si avvale dei processi di terziarizzazione avanzata, Sivini (1999: 15) sostiene che: “La strategia di accumulazione che si profila è quella di un dominio di capitali forti su quelli deboli attraverso il loro incorporamento nei processi produttivi modularizzati, e nel contempo, della disarticolazione spaziale (nel greenfield), giuridica (nella molteplicità d’imprese), e organizzativa (nei teamwork) della forza lavoro”.

13 Che è un processo composito di destrutturazione e riorganizzazione.

14 La Fabbrica ad Alta Automazione (FAA) sperimentata a Cassino è stato il tentativo, perseguito negli anni ’80, di realizzare il “sogno” del management Fiat di costruire una fabbrica con pochissima forza-lavoro e soprattutto con una forza-lavoro impotente davanti alla “geometrica potenza” delle macchine capitalistiche. L’esperimento è però fallito in pochi anni e gli stessi manager che avevano sostenuto strenuamente quel progetto si sono dovuti ricredere: la fabbrica senza lavoro vivo non funzionava: soprattutto, senza lavoro vivo mentale. Si riscopriva la centralità del lavoro vivo, ma soprattutto ci si rendeva conto della necessità di una sua ulteriore sussunzione al capitale. Da tali presupposti, uniti alle esperienze delle prime UTE torinesi, all’organizzazione della cellular manufactoring ed ai principi del management giapponese, nasce la Fabbrica Integrata di Melfi.

15 Contro la tendenziale omogeneizzazione del lavoro, che comporta l’omogeneizzazione degli interessi della classe lavoratrice, che può comportare la diffusione della coscienza di classe, si oppone il capitale in vari modi. Riportiamo a tal proposito un bel brano di Cleaver (2000: 113): “... l’unico modo per il capitale di soddisfare il proprio bisogno di una omogeneità controllabile del lavoro astratto è, paradossalmente, attraverso l’imposizione della eterogeneità, attraverso la divisione dei lavoratori. È solo dividendo e mettendo un gruppo di lavoro contro un altro, che il capitale può prevenire la loro pericolosa unità e mantenere la classe in una condizione di debolezza sufficiente ad essere controllata. La contraddizione tra gli sforzi capitalistici di unificare la classe come forza- lavoro attraverso la divisione e i tentativi dei lavoratori di superare queste divisioni per unirsi contro il capitale è una delle più fondamentali e importanti caratteristiche della lotta di classe” [T.d.A.].

16 La Cavis, sita in Castelnuovo (NA), è una società che appartiene al Gruppo francese Sylea e svolge prevalentemente attività di produzione e commercializzazione di cavi, cablaggi e centraline per applicazioni industriali. Essa è interamente controllata dalla società di diritto francese Sylea Sa, a capo del Gruppo omonimo. Mentre la Fiat Auto svolge, a questa data, in autoproduzione l’attività di progettazione e sviluppo dei cablaggi per le proprie autovetture (Fiat, Lancia-Autobianchi e Alfa Romeo) attraverso il Ramo di azienda oggetto di acquisizione ed un altro stabilimento, facendo fronte in tal modo ad appena il 6% del proprio fabbisogno totale, essa ricorre invece all’acquisto per la quasi totalità del proprio fabbisogno di cablaggi e in misura prevalente alle forniture del Gruppo Sylea per il 46%, di Cablelettra per il 27%, di Yazaki per l’11% e di Delphi Automotive System per il 10%. In Italia il Gruppo Sylea detiene attraverso Cavis una quota del mercato pari a circa il 47%. In seguito a tale operazione la Cavis arriverà a soddisfare il 51% circa del fabbisogno Fiat Auto (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (1996)).

17 A parte qualche lavoratore più giovane che resta nei ranghi Fiat, i lavoratori che sono ceduti hanno in media tra i 45 e 50 anni.

18 Un operaio così ci spiega: “Al cablaggio come ci si arriva. Lavorando sulla catena [...] vieni condizionato [fisicamente], io con l’ernia al disco, e quindi sono stato spostato al cablaggio a fare un lavoro non sulla catena ma a fermo. E quindi sono state spostate, tutte queste persone non idonee alla linea, al cablaggio”.

19 “Avevamo acquistato dei diritti e quindi non volevamo perderli”.

20 Così riflette un operaio: “Noi eravamo di peso alla Fiat. Perché eravamo tutti quanti acciaccati, non rendevamo al 100%... Alla fine si è venuto ad accumulare un buco di ottocento persone [tutte spostate al cablaggio]... non facevamo la produzione perché eravamo... chi infortunato, chi infartuato, chi allergico, e quindi ad un certo punto eravamo diventati di peso”. Ma si chiede: “Un industriale sano come fa a prendere quattrocento persone condizionate, che la Fiat non regge più, e la Fiat è immensa e grossa; non li riesce a reggere a Pomigliano. Come può un altro imprenditore più piccolino a prenderseli e a sopportarli? [...] Se la Fiat non ce la fa a mantenerci, come ce la può fare una ditta più piccirella? O era tutto un programma a... ad un certo punto la Fiat non ci poteva licenziare... ed ha trovato il sotterfugio per toglierci di mezzo”. Questa è una convinzione pressoché unanime tra gli operai della Selca.

21 Dato l’elevato livello di destrutturazione a cui è sottoposto il diritto del lavoro negli ultimi anni, e la tendenza a depotenziarlo, a farlo rifluire, ci troviamo in una condizione in cui diritti che fino a qualche tempo fa ci sembravano “naturali”, “acquisiti per sempre”, oggi vengono pienamente e prepotentemente messi in discussione.

22 Un lavoratore racconta che un suo collega è stato costretto a recarsi spesso a lavoro con la bombola dell’ossigeno sulle spalle, pur di non assentarsi: “Eravamo morti più che altro. Più morti che vivi”.

23 “Spesso è capitato che qualcuno che ha fatto la domanda e non era figlio del delegato non è stato assunto. [...] Sono tutti corrotti oramai, tutti collusi... chi il figlio, chi il nipote, chi l’amico”.

24 A quella data comunque, stando a testimonianze operaie, molti dirigenti sindacali hanno già ottenuto trattamenti di favore e buone uscite di tutto rispetto.

25 “Sono tesserato alla Fiom da quando ho cominciato a lavorare, nel ’78, all’Alfa Romeo. [...] Non ho speranza nei sindacati. Però... io penso una cosa: io devo essere iscritto per poter criticare. Se mi cancello, dopo non ho nemmeno più il diritto di criticarli, per dire: “Sono stato tanti anni appresso a te e questa è la fine che mi hai fatto fare. Me l’hai fatta fare tu, mica io. Non mi hai tutelato come si deve, secondo me”.

26 ”Noi abbiamo sempre fatto tutto quello che dovevamo. Il lavoro lo facevamo bene. L’ultimo anno alla Fiat siamo anche stati premiati come migliore reparto. Qualitativamente eravamo i migliori solo che non potevamo rendere [quantitativamente] al 100%”.

27 “I sindacalisti erano moto amici dell’amministratore delegato, quindi, voglio dire... tant’è vero che si mormora che quelli che se ne sono andati hanno avuto qualcosa in più proprio perché hanno aiutato l’azienda a fare in modo che parecchi se ne andassero”.

28 Riescono anche ad ottenere un incontro con il Kaiser campano, Bassolino, che, da buon dirigente diessino, si occupa, perché costretto, della questione, ascolta gli operai, promette un intervento, e poi scompare nelle sue stanze del potere, pensando magari a come privatizzare meglio l’acqua in Campania, a come organizzare il suo clientelarismo, a come gestire ed affinare la sua macchina del potere.

29 Gli operai sono convinti che i registri non dicano tutta la verità sulle condizioni economico-finanziarie della Selca, e che sia stato fatto tutto per aggravare tale situazione. “Ha fatto delle finte innovazioni spendendo un sacco di soldi, che poi erano sciocchezze, molto probabilmente gonfiate”; “Prima hanno detto che il capannone era loro, poi invece hanno detto di no”. È pur vero che la Selca già nasce (volutamente?) con dei presupposti fragili. D’altronde molte perplessità e supposizioni, che sembrano essere qualcosa di più sostanzioso e concreto di semplice dietrologia, sono confermate dal quasi identico e parallelo processo di dismissione della Cavis Srl, che però ha avuto un finale più spedito: gli altri 400 lavoratori dell’originario Ramo cablaggi Fiat, quelli assunti nel 1996 dalla Cavis, hanno vissuto la stessa esperienza: espulsione, crisi, fallimento.

30 Alle quali successivamente se ne aggiunge un’altra per reintegrazione giudiziale.

31 “Tutto il materiale che c’era a disposizione l’abbiamo consumato tutto. Poi senza materiale non abbiamo più lavorato. Anzi noi per dimostrare la buona volontà gli abbiamo anche dato i cablaggi fatti. Quelli che avevamo a terra, finiti. E poi ad un certo punto non abbiamo più avuto lavoro perché non arrivava il materiale. Però tutto quello che abbiamo trovato gliel’abbiamo dato. Proprio per dimostrare che noi avevamo la volontà di rimanere a lavorare”.

32 Una volta queste tecniche venivano utilizzate per scappare dalla Germania dell’Est, per oltrepassare il muro. Oggi, per entrare in fabbrica!

33 A ciò si aggiunga che la Fiat ha addebitato circa 500 ml _ di danni ai lavoratori Selca a causa del loro picchettaggio.

34 Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria. A titolo indicativo si riporta il seguente esempio: un lavoratore di quinto livello, con ventisette anni di anzianità, con moglie e quattro figli a carico, percepisce 750 euro al mese, ogni quattro mesi. Ancora, nonostante l’accordo e la “quadrimestralizzazione” gli assegni sono sempre stati versati con ritardi di parecchi mesi (anche sei o sette)!

35 “Ci hanno detto [agli altri operai che non rientrano nei “sei”] che non ci vogliono nel modo più assoluto, nemmeno uno, nelle altre aziende del gruppo. Perché se entriamo in altre aziende, con le buste paga che prendiamo noi, questi qua [operai più giovani, assunti con contratti atipici o con salari più bassi] nun’ fatican’ chiù [non lavorano più]”.

36 Attualmente è la Cablelettra che fornisce i cablaggi alla Fiat, avendo sostituito la Selca in liquidazione. “In sostanza il lavoro ce l’abbiamo. La Fiat ci ha garantito il 3% del proprio fabbisogno” commenta un operaio.

37 “Logicamente ci sta poca fiducia, perché ora siamo ventiquattro persone. Non abbiamo più alcuna forza, quindi la nostra preoccupazione è che questi non mantengano più gli impegni. [...] Non hanno rispettato gli accordi finora, temiamo che non lo faranno in futuro. E con una [nostra] forza minore...”.

38 Ci piace citare una importante e attuale riflessione di uno dei massimi esponenti del c.d. “comunismo di sinistra”, dei consigli, Anton Pannekoek (1936), che in Italia, a parte le rivolte degli anni ’70, non ha mai riscosso enorme successo: “Battersi per la libertà non significa lasciare che i tuoi capi pensino per te e decidano, e quindi seguirli obbedientemente, o sgridarli di tanto in tanto. Lottare per la libertà significa partecipare con il massimo delle proprie capacità, pensare e decidere per se stessi, assumersi tutte le responsabilità in quanto soggetto fiducioso di sé in mezzo a compagni uguali. È vero che pensare da soli, riflettere su cosa sia vero e giusto, con la testa intorpidita dalla fatica, è l’obiettivo più duro e difficile da raggiungere; è molto più duro del pagare [si riferisce alle quote di iscrizione ai sindacati] e obbedire. Ma è l’unica strada verso la libertà. Essere liberati da altri, il cui comando è la parte essenziale della liberazione, significa sostituire i vecchi padroni con nuovi” [T.d.A.]. La classe lavoratrice mondiale oggi ha bisogno di riscoprire, ancora una volta, nella loro integrità, e riconoscendone anche tutti i limiti, marxisti rivoluzionari come Rosa Luxemburg, Korsch, Mattick ecc.: chi ha teorizzato e praticato l’autorganizzazione dei lavoratori per riprendere ad affermare reali pratiche di classe conflittuali invece di inspirare il “fumo” di chi straparla di “moltitudini” e di fine del lavoro e del conflitto capitale-lavoro, in un’epoca dove le differenze di classe sono accentuatissime, dove la classe lavoratrice è la più numerosa di sempre, ove più che mai le contraddizioni interimperialistiche portano a livelli elevatissimi (anche se non ne consegne ovunque una coscienza proletaria di classe adeguata) la lotta di classe condotta dal capitale contro il lavoro vivo.

39 È chiaro e duro il monito di un operaio. Egli è convinto che a difendere meglio gli interessi degli operai non siano le oo.ss. ma “i lavoratori stessi, se si organizzano; però purtroppo... i lavoratori vengono sempre pilotati. I sindacati tendono a dire sempre “Non ti preoccupare, me lo vedo io””. Lo stesso operaio poi riconosce però anche dei grandi limiti della stessa classe lavoratrice: “Pure se facciamo fuori il sindacato, la mentalità di quello che appartiene da sempre ad un’organizzazione sindacale è sempre la stessa, e vuol [è abituato a] fare quello che dice l’organizzazione sindacale, in sostanza”.