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SOCIETA’ E PROCESSI IMMATERIALI

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Alvaro Bianchi
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Progresso e barbarie.
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Progresso e barbarie.

Alvaro Bianchi

Le trappole della scienza nella contemporaneità

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1. Introduzione

Sintesi: i monumenti del progresso sono anche i monumenti della barbarie. Non abbiamo più motivo di credere, ingenuamente, nelle capacità redentrici del progresso. Di qualsiasi forma di progresso e, principalmente, di quello scientifico. Nel XIX secolo si credeva che lo sviluppo scientifico avrebbe portato ad un graduale controllo sulla natura e all’emancipazione umana. Contemporaneamente, però, al fatto che la trasformazione della scienza in forza produttiva sembrava liberare gli uomini e le donne dal lavoro pesante, diventava tecnica di dominazione, trasformando coloro che non erano stati annullati dalla scienza in un prolungamento della macchina. Come forza produttiva del capitale, la scienza si è convertita in forza distruttiva del lavoro. La conoscenza scientifica che avrebbe dovuto emancipare ha reso schiavi e invece che al progresso ci avviciniamo alla barbarie. È possibile riscattare il potenziale emancipatore della scienza, o essa porterà sempre dominazione e distruzione?

“Nel significato più ampio di progresso del pensiero, la conoscenza ha sempre perseguito l’obiettivo di liberare gli uomini dalla paura e investirli del titolo di signori. Ma la terra completamente rischiarata risplende sotto il segno di una calamità trionfale”. (Theodor Adorno e Max Horkheimer.)2

Cos’è la barbarie? “The horror! The horror!”, direbbe il colonnello Kurz in Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, “during that supreme moment of complete knowledge”. La risposta, sebbene causa di turbamento, non offre nient’altro che una reazione alla forma per mezzo della quale questa barbarie si manifesta. Ripeto la domanda scrivendola in un’altra forma: cos’è la barbarie? Cioè, cosa costituisce l’essenza della barbarie. In un saggio del 1994, Eric Hobsbawm si dedicò a questo concetto e alle forme che essa assume nel mondo contemporaneo, cercando di rispondere a una questione simile. La risposta di Hobsbawm, però, non è soddisfacente. Secondo questo autore la barbarie è un fenomeno storicamente determinato. Lui afferma che dopo 150 anni di declino “la barbarie è cresciuta durante quasi tutto il XX secolo”.3 Il susseguirsi di un ciclo di declino ad uno di crescita indica la sua presenza qui nella contemporaneità. Continua, se la barbarie è storicamente determinata come può, allora, trovarsi aldiquà e aldilà del presente? Per risolvere la questione l’autore costruisce un concetto che si presenta in un primo momento nella sua forma astratta e, in seguito, nella sua forma concreta. Nella sua forma astratta il concetto di barbarie farebbe riferimento alla “rottura e al collasso dei sistemi di regole e di comportamenti morali attraverso i quali tutte le società controllano le relazioni tra i loro membri e, in misura minore, tra i loro membri e quelli di altre società”.4 Nella sua forma concreta, la barbarie contemporanea troverebbe espressione nel ritorno di quello che potremmo chiamare il progetto dell’Illumunismo del XVIII secolo, ovvero, la fondazione di un sistema universale di tali regole e norme del comportamento morale, che prende corpo nelle istituzioni degli Stati e che si dedica al progresso razionale dell’umanità”.5 La barbarie sarebbe, quindi, la revisione di un progetto illuminista o la realizzazione dei suoi potenziali distruttivi contenuti nel “progresso razionale dell’umanità”? Hobsbawm vede la barbarie come un periodo di declino contrapposto ad un periodo di progresso, una reale deviazione della storia. La barbarie si affermerebbe, così, come qualcosa di extraquotidiano. Da qui deriva l’enfasi data nella descrizione alle due guerre mondiali, momenti di extraordinario orrore. La scelta di questi avvenimenti storici nei racconti di Hobsbawn è arbitraria. Per sostenere la scelta, commette errori imperdonabili per uno storico del movimento operaio e accetta in modo completamente acritico l’ideologia della “guerra civilizzata”, diretta “contro coloro che combattono e non contro coloro che non combattono” come il paradigma bellico del XIX secolo.6 È stato “civilizzato” l’attacco ai quartieri popolari di Parigi nel giugno del 1848, comandato dal leader dei democratici-repubblicani, il generale Cavaignac? E il massacro dei comunardi nella stessa Parigi, nel 1871, guidato da Louis Adolphe Thiers, un raffinato storico che si presentava come difensore dei valori della civilizzazione contro i barbari operai? Oppure questi episodi fanno parte delle “moderate ingiustizie del XIX secolo” alle quali Hobsbawm fa riferimento? Il naturalismo meccanico alla base della concezione dello storico inglese si ripercuote sulla visione idillica dell’Illuminismo. In questa concezione la barbarie non è che una patologia storica che interromperebbe il normale sviluppo di una Storia naturalizzata. Nella sua analisi, le contraddizioni del progetto Illuminista stesso non trovano spazio, esse sono espulse dall’interno della totalità. Esternalizzate le contraddizioni, la dialettica materialista cede il posto ad un gioco di opposizioni meccaniche, quando non ad un semplice manicheismo che riduce tutto al confronto tra il bene ed il male. Continua, in questo secolo che inizia e in quello che lo ha preceduto, i monumenti del progresso del capitale sono stati anche monumenti della barbarie. Non abbiamo più ragioni per credere, ingenuamente, come Hobsbawn, nella capacità redentrice del progresso. Di qualsiasi forma di progresso e, principalmente, di quello scientifico.

2. Grande industria e barbarie quotidiana

Il XIX secolo si è dimostrato essere il secolo della fiducia. Nella mitologia positivista erede dell’Illuminismo, era arrivato il momento per il pensiero scientifico di annunciare la sua vittoria definitiva sulla metafisica. In alcuni dei campi, è vero, la scienza sembrava aver fatto più progressi che in altri. È risaputo che Lord Kelvin annunciò che i fisici avevano risolto i loro problemi più importanti e lasciato da parte sciocchezze che nel momento in cui avessero avuto tempo sarebbero state definitivamente superate.7 Alla fine, avere poca fiducia è una stupidaggine. A fianco dei fisici, i chimici e i biologi condividevano questo stesso spirito. Le scienze naturali avevano dimostrato una tale forza negli ultimi secoli che nulla sembrava resistere al loro avanzamento. Se la natura sembrava rivelarsi alla ragione e piegarsi di fronte alla sua forza, la società umana presentava ancora le sue resistenze. Per il filosofo Auguste Comte, nello studio dei fenomeni astronomici, fisici e chimici il pensiero scientifico aveva già fatto grandi passi avanti. Anche in buona parte dello studio dei fenomeni fisiologici si evidenziavano i progressi della filosofia positiva. Si aveva, intanto, una lacuna fondamentale in questi ultimi, i fenomeni sociali, che avrebbero bisogno di una teoria distinta vista la loro complessità, e il cui studio si perfezionava in modo più lento rispetto agli altri campi.8 Infastidito da questo lento procedere della scienza della società, Auguste Comte protestava e reclamava sforzi maggiori: “Qui sta la grande, ma evidentemente, unica lacuna che si tratta di colmare per poter costituire la filosofia positiva. Già ora che lo spirito umano ha fondato la fisica celeste; la fisica terrestre, sia meccanica che chimica; la fisica organica, sia vegetale che animale, per terminare il sistema delle scienze dell’osservazione gli rimane solo fondare la fisica sociale. Tale è oggi, in varie direzioni principali, la maggiore e più urgente necessità della nostra intelligenza.”9 Era necessario, infine, spiegare tutto scientificamente per poter controllare tutto. Nella visione positivista, tutti i fenomeni sarebbero soggetti a leggi naturali invariabili che, senza investigare le cause prime o finali, analizzano con esattezza le circostanze in cui vengono prodotti, vincolandoli gli uni agli altri attraverso relazioni di sequenza e somiglianza.10 Stabilite le connessioni esistenti tra i differenti fenomeni naturali e sociali, si aprirebbe il cammino per la previsione e l’intervento su essi stessi. Il fatto che le forze naturali siano soggette alla ragione aumenterebbe non solo la capacità di controllo umano sul proprio contesto ma creerebbe anche la possibilità, fino ad allora nemmeno immaginata, di trasformarlo. “In sintesi, scienza e quindi previsione; previsione e quindi azione “, protestava Comte.11 Già dal Novum Organum di Francis Bacon scienza e potere erano passati a coincidere.12 La concezione di scienza presente in Bacon, però, è passiva. La natura dovrebbe essere obbedita e agli uomini non spetterebbe nient’altro che avvicinare e allontanare i corpi: “il resto lo realizza la natura stessa, da sola”13 La concezione della scienza, propria del positivismo e del XIX secolo, va oltre questa prima trasformazione, nella misura in cui la conoscenza assume un ruolo attivo trasformando e ricreando il proprio contesto. Il positivismo annunciava in questo modo un programma volontario di controllo della natura e della società in direzione del progresso.14 Un borghese conscio delle opportunità che si aprivano alla sua azione è stato il soggetto di questo progresso. Passato il tempestoso vento rivoluzionario del 1848, la bonaccia ha accelerato l’espansione degli affari alimentando in questo soggetto sociale un profondo sentimento di fiducia in se stesso. Fiducia nel progresso, fiducia e progresso, queste sembravano essere le parole chiave. Spaventato a tiri di cannone e colpi di baionetta lo spettro del comunismo, l’Europa restaurava l’ordine attraverso l’alleanza della borghesia con le antiche classi dominanti. La vecchia e la nuova società si univano per evitare il cambiamento. Si creavano, così, le condizioni politiche per il progresso. Era la realizzazione del dogma positivista: “amore per l’ordine e per il progresso”. Il “sistema di regole e comportamento morale”, la cui dissoluzione è lamentata da Hobsbawm, non era che l’espressione di questo ordine, il modo di realizzazione di un’egemonia ristretta che si proteggeva nell’apparato coercitivo dello Stato. Non cessa di essere paradossale che il progresso abbia come riparo l’ordine. I loro tempi hanno ritmi differenti. Mentre il progresso appare come rivoluzionario, presupponendo un tempo accelerato, nel quale la scoperta scientifica si trasforma rapidamente in tecnica che modifica radicalmente il presente, l’ordine appare, nella migliore delle ipotesi, come riformista, presupponendo un tempo lento nel quale l’innovazione istituzionale si trasforma in tecnica che permette di dominare in misura maggiore e in modo più efficace, preservando il presente. I tempi del progresso e dell’ordine non sono contraddittori. Seppur sfasati, non sono discordanti. Entrambi hanno la stessa direzione. Solo il progresso si mostra sotto forma di rivoluzione - industriale e tecnologica - perché sa che l’ordine viene subito dopo, impedendo la Rivoluzione sociale, l’unica che merita la “R” maiuscola. L’ordine si manifesta solo come conservazione - politica e sociale -, perché sa che il progresso gli si trova di fronte, attribuendogli il dinamismo necessario per il suo permanente aggiornamento. Il tempo rapido del progresso e il tempo lento dell’ordine sono le due temporalità del capitale. Queste temporalità sfasate si uniformano all’interno della fabbrica. La grande industria e la divisione tecnica del lavoro che in essa impera non sono, è bene ricordare, un prodotto della scienza. Risultato del processo secolare di trasformazione del lavoro artigianale, la fabbrica moderna è nata più dall’osservazione e dall’appropriazione del sapere dell’artigiano che dall’incorporazione delle conoscenze scientifiche nella produzione delle merci. Solo con il consolidamento del sistema della grande industria i principi della Fisica e della Chimica iniziano ad essere applicati nelle loro forme tecnologiche permettendo l’incremento accelerato della produttività del lavoro e l’aumento considerevole del surplus di cui si appropria il capitalista.15 La scienza ha penetrato gradualmente l’ambiente della grande industria collocandosi direttamente a servizio del capitale e convertendosi in forza produttiva. La tecnica è in questo modo l’essenza di una conoscenza scientifica che si autogiustifica solo per la sua applicazione.16 La trasformazione della scienza in forza produttiva manteneva una promessa: alleviare il pesante carico di lavoro di uomini e donne e aumentare il loro tempo libero. Trasformate in diritto, la pigrizia e l’ozio, potevano liberare energie creative, fino ad allora represse, in un nuovo rinascimento scientifico e culturale. Non furono pochi i socialisti che puntarono le loro speranze sulla capacità redentrice del progresso tecnico. Tale scommessa non fece a meno di produrre come conseguenza un morfinismo sociale. L’esperienza del progresso è, anche, un’attesa calma. Nel frattempo come forza produttiva del capitale, la scienza promette ma non mantiene e la speranza non conduce ad una nuova vita. Invece di emancipare i lavoratori, essa affermò la superfluità di uomini e donne sostituendo una parte di essi con il sistema delle macchine e convertendo i restanti in una parte di essa. Già nel XIX secolo, molto tempo prima, quindi, che i robot dislocassero il lavoro umano, Marx affermava: “L’opposizione tra capitale e lavoro salariato si sviluppa così, fino alla sua completa contraddizione. È al suo interno che il capitale appare come strumento non solo della svalutazione della capacità viva del lavoro, ma anche come mezzo per renderla superflua. In determinati momenti questo avviene in modo completo; in altri, questa riduzione si effettua fino a quando si raggiunge il minor numero possibile all’interno dell’insieme della produzione. Il lavoro necessario si colloca, allora immediatamente come popolazione superflua, come eccedente di popolazione - quella massa incapace di generare lavoro.”17 Applicata al processo produttivo, la scienza ha riportato gli uomini e le donne nella loro antica posizione. Quando questi uomini e donne utilizzavano strumenti, arnesi e macchine rudimentali, questi erano i mezzi che permettevano loro di agire creativamente sulle materie prime dando loro nuove forme. Ma il potere impersonale di un automa che sembra avere vita propria li ha soggiogati, divorati e dopo averli digeriti ha trasformato le loro braccia e le loro gambe in prolungamenti del meccanismo principale. È la macchina colei che sembra dirigere il ritmo di lavoro, controllando il tempo e, quindi, imponendo i suoi imperativi allo spazio della fabbrica. Quello che prima era destrezza e abilità di un uomo-soggetto-della-produzione, qualità di un lavoro che come attività non era trasferibile, è passato ad essere “destrezza e abilità” della macchina, che si presenta all’uomo come un organismo vivo. Questa sembra imporgli il suo ritmo, subordinando il lavoro vivo (l’operaio) al lavoro morto (la macchina). Questa subordinazione avviene a costo di un’enorme distruzione della capacità del lavoro. Secondo l’opinione di molti si tratta della semplice espulsione dalla sfera produttiva attraverso la disoccupazione. L’esigenza da parte dell’accumulazione del capitale di un esercito industriale di riserva definisce come presupposto del capitalismo la distruzione permanentemente rinnovata della forza produttiva del lavoro. Secondo altri, i dipendenti, si tratta della distruzione della loro capacità di lavoro nel processo produttivo stesso. In modo tale che “l’accumulazione di miseria è la condizione necessaria corrispondente all’accumulazione di ricchezza. Accumulazione di ricchezza in un polo è, quindi, allo stesso tempo, accumulazione di miseria, di tormento del lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale nel polo opposto, cioè, dal lato della classe che produce il suo stesso prodotto come capitale”.18 È questo il contenuto della barbarie contemporanea: la distruzione massiccia delle forze produttive del lavoro, e non il ritorno di un progetto illuminista idealizzato, come pretende Hobsbawm. La barbarie quotidiana si realizza in quello che è il simbolo del progresso, la grande industria capitalista. Il taylorismo, con la sua rivendicazione di scientificità, ha portato questa distruzione a livelli paradossali nell’ergere un “gorilla ammaestrato” come l’operaio ideale. La razionalizzazione del lavoro, il controllo dei tempi e dei movimenti dell’operaio ha portato ad una diminuzione del tempo libero e dell’autocontrollo del lavoratore sul suo stesso corpo. Le tecnologie della microelettronica della fine del XX secolo e dell’inizio del XXI, invece di restituire al lavoro i suoi diritti al tempo, al proprio corpo e ad una attività creativa, li hanno ridotti praticamente a zero. La monotonia ripetitiva del taylorismo non è stata superata, è diventata solo più frenetica. La grande industria, come monumento del progresso del capitale è anche monumento di una barbarie che si manifesta in modo particolare nel quotidiano del lavoratore. Il ritmo stancante nelle industrie high tech del Giappone le ha trasformate in fabbriche di disperazione. Gli ultimi avanzamenti della scienza applicati all’industria convivono con lavoratori estenuati che muoiono sui posti di lavoro. Nella fabbrica, così come in guerra, la vita diventa superflua. La centralità del lavoro vivo è trasferita, la sua superfluità è affermata e il suo posto è occupato dalla macchina che produce o uccide, fa lo stesso, perché in ogni caso distrugge. Si tratta, pertanto, di una superfluità relativa e mai assoluta. Contraddittoriamente, lo stesso capitale che scarta il lavoro degli uomini e delle donne insiste nel misurare la ricchezza in termini di questo stesso tempo di lavoro. La crisi del capitale è, anche, una crisi della misura del valore. Da qui deriva l’affermazione di Marx secondo la quale il capitale è “la contraddizione in atto”: “Lo stesso capitale è la contraddizione in atto, [per il fatto] che tende a ridurre ad un minimo il tempo di lavoro, mentre, dall’altra parte, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte di ricchezza, diminuisce, perciò, il tempo di lavoro nella forma di tempo di lavoro necessario per renderlo lavoro eccedente; colloca, quindi, in maniera crescente, il lavoro eccedente come condizione - questione di vie et de mort - del necessario. Da un lato, riporta in vita tutti i poteri della scienza e della natura, così come della cooperazione e degli interscambi sociali, per far sì che la creazione della ricchezza sia (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro propone di misurare con il tempo di lavoro queste gigantesche forze sociali create in questo modo e ridurle ai limiti necessari affinché il valore creato si conservi come valore”.19 Le forze produttive e le relazioni sociali si presentano al capitale solo come mezzo per la produzione di merci. Ma la contraddizione immanente a queste forze produttive e alle relazioni sociali le rende la condizione materiale necessaria per “far saltare” in aria il modo di produzione fondato sul capitale. Se è vero che la supremazia del lavoro eccedente rispetto a quello necessario è questione di vita o morte per il capitale, lo è anche il fatto che questa supremazia non si afferma in modo naturale. Essa è espressione del carattere antagonistico del processo di produzione e riproduzione ampliata del capitale e come tale è anche il risultato della lotta di classe. Cioè, la relazione tra il lavoro eccedente e il lavoro necessario è determinata dalla capacità borghese di subordinare politicamente e socialmente la classe lavoratrice. La soluzione della contraddizione propria del capitale può avvenire, quindi, solo per mezzo di una inversione della relazione di forze nella società capace di liberare le forze produttive del lavoro attraverso il superamento violento di questa contraddizione.20 3. Il futurismo russo e la critica alle forze produttive del capitale La fiducia nell’onnipotenza della scienza e della tecnologia, nel bene e nel male, spegneva le reali manifestazioni sociali di questa. La distopia di un mondo dominato da macchine che si autoriproducono e dominano l’umanità nasconde queste manifestazioni allo stesso modo di quanto avviene con l’utopia di una società informatica capace di eliminare il lavoro umano nella produzione e nei servizi e, contemporaneamente, di produrre spontaneamente una società dell’abbondanza accessibile a tutti. Attribuendo alla tecnica una vita propria che essa non ha, tale convinzione trasforma le relazioni sociali in relazioni tra le cose prodotte dall’uomo, reificandole. Nella misura in cui la produzione di merci avviene per mezzo di queste cose, cioè, avendo esse come intermediarie, queste appaiono come onnipotenti, come le reali portatrici delle relazioni sociali, personificate. Il capitale, nonostante prenda forma nelle cose in quanto strumenti e materia della produzione, da loro un carattere sociale specifico, non è una cosa, ma piuttosto “una determinata relazione sociale di produzione corrispondente a una determinata formazione storica”.21 Questo è uno dei punti centrali della critica dei futuristi russi a Marinetti e al futurismo italiano. Il programma del futurismo italiano è nella sua origine un programma rivoluzionario di trasformazione dell’arte e della società stessa. Antonio Gramsci descrive la sorpresa con cui fu accolta in Italia l’affermazione di Lunacharsky nel 2° Congresso Internazionale Comunista qualificando il leader dei futuristi italiani, Filippo Tommaso Marinetti, come “un intellettuale rivoluzionario”, nonostante i suoi noti legami con il fascismo.22 Era alla forza distruttiva del futurismo, all’attacco che questo movimento ha mosso ai canoni della letteratura che Lunacharsky faceva riferimento. Si deve però evidenziare che per Marinetti la rivoluzione dovrebbe prepararsi all’interno dello stesso ordine, distruggendo in modo violento, se necessario, gli ostacoli che impedivano l’unione della contemporaneità italiana con la modernità del capitalismo mondiale. L’apologia della velocità, della macchina e della guerra, presente fin dal manifesto del 1909 sono rivolti in questa direzione: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità”, affermava il primo manifesto del futurismo italiano.23 Per Marinetti era lo spettacolo del progresso che si manifestava in tutto il suo splendore. Uno splendore che doveva essere esaltato nella misura in cui la velocità delle sue immagini non era prodotta da un movimento caotico e informe, ma piuttosto da un ordine rigoroso che disciplinava ciò che le stava intorno. La macchina, con il suo ritmo febbrile, ma cadenzato, soggiogava in questo modo la massa informe: “Le grandi collettività umane, maree di visi e braccia urlanti, possono darci alle volte una leggera emozione. A esse, noi preferiamo la grande solidarietà dei motori assorti, zelanti e ordinati. Non c’è niente di più bello di una grande centrale elettrica strepitante, che contiene la pressione idraulica di una catena di montaggio e la forza elettrica di un vasto orizzonte, sintetizzate nei quadri di marmo di distribuzione, irti di registri, di tastiere e di interruttori luminosi”.24 La fornace del progresso, alimentata dal combustibile della scienza, spingeva il mondo in avanti, investendo indifferente chi gli impedisse il passaggio. Per Marinetti la guerra offriva l’opportunità per accelerare la rimozione di questi ostacoli. Violenza scientificamente organizzata, la guerra permetterebbe la purificazione del pianeta, eliminando tutto quello che si contrapponesse al progresso e ritardasse l’incontro del presente con il futuro. In un misto di nazionalismo bellicoso e misoginia, il futurista italiano proclamava: “Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”.25 Rivoluzionario, ma amante dell’ordine, il futurismo italiano, Marinetti in testa, si alleò all’inizio degli anni 20 con l’unico partito che era capace di realizzarlo, quello fascista di Mussolini. Li univa un programma di modernizzazione capitalista dell’Italia, che non mirava all’emancipazione dell’uomo e della donna, ma prima alla loro subordinazione alle forze del progresso del capitale. Navigando nelle acque del progresso scientifico e tecnico entrambi, il futurismo e il fascismo italiano, spezzavano lance in favore dei venti della Storia. L’orizzonte di questo programma si rivelava alla portata di questi naviganti esclusivamente perché si collocava prossimo allo sguardo e non perché il soggetto di questo sguardo si muovesse in direzione del futuro. Già in una fase di decadenza del movimento futurista, Marinetti esplicitava questa opzione: “Si! Gli artisti al potere! Il vasto proletariato delle menti geniali deve governare. [...] il proletariato dei geni, collaborando con lo sviluppo delle macchine industriali, raggiungerà il massimo salariale e il minimo di lavoro manuale che, senza diminuire la produzione, potrà offrire a tutte le intelligenze la libertà di pensare, creare e godere artisticamente. La rivoluzione futurista, che condurrà gli artisti al potere, non promette paradisi terrestri. Non potrà di certo sopprimere il tormento umano che è la forza ascensionale della razza. Gli artisti, instancabili incitatori di questo lavoro febbrile, riusciranno ad attenuare il dolore. Loro risolveranno il problema del benessere nell’unico modo nel quale può essere risolto, cioè, spiritualmente”.26 Il futurismo come oppio del popolo. La sensazione di benessere al posto del benessere materiale. Poiché era solo questa sensazione che la tarda modernità poteva produrre. Lo sviluppo accelerato delle forze produttive del capitale attraverso la pianificazione scientifica dell’economia in un contesto caratterizzato dalla forte concorrenza con gli Stati Uniti e le potenze europee, lungi dal tradursi in pratica, creava uno stato di attesa e speranza per alcuni settori della società italiana.27 Dal 1913 il futurismo russo si era allontanato da Marinetti e dagli alleati italiani: le ragioni della rottura sono anche di ordine politico e diventarono ancora più esplicite con l’inizio della Prima Guerra Mondiale. Mentre Marinetti e molti dei futuristi italiani la consideravano l’espressione della violenza scientificamente organizzata che avrebbe potuto rigenerare il mondo, e da qui il loro avvicinamento a Mussolini, la maggior parte dei futuristi russi manifestano opposizione al conflitto, vincolandosi al movimento rivoluzionario del proprio paese e, attraverso Maiakovski, al segmento bolscevico del Partito Operaio Social-Democratico Russo. Come ribellione estetica il movimento futurista russo era anche una rivolta contro le condizioni sociali della società russa. I futuristi russi, però, non potevano organizzare la rivolta all’interno dell’ordine. La rivoluzione del 1917 li cacciò immediatamente fuori da questo ordine. Come compagnons de route del comunismo, questi futuristi si inserirono attivamente nel vasto movimento di avanguardia artistica russa che promosse un profondo rinnovamento nelle arti e nella cultura, ricevendo appoggio esplicito dal commissario per l’Istruzione del governo sovietico, Anatol Lunacharsky. In un suo prezioso studio sul movimento futurista, Leon Trotsky analizza questo processo: “la Rivoluzione proletaria ha colto il futurismo in una certa tappa della sua crescita e lo ha spinto in avanti. I futuristi divennero comunisti”. 28 È questo allontanamento dall’ordine che porterà i futuristi russi ad assumere un atteggiamento critico di fronte alla scienza, alla tecnica e all’industria moderna. Questi sono anche temi presenti nelle loro opere, ma non sono gli attori principali. Il popolo, quello che aveva fatto la rivoluzione è il protagonista di “150.000.000”, il poema che Maiakovski scrisse per raccontare l’epopea di una rivoluzione impersonale portata a termine da una massa di Ivan. Si ristabiliva in questo modo una dimensione storica che era stata spenta dalla reificazione della scienza e della tecnica conclusa dal futurismo italiano. Non si tratta, perciò, di commemorare la trasformazione dell’uomo in un’appendice della macchina, ma di celebrare le vittorie dell’uomo sulla natura.29 Vittoria questa che presuppone un soggetto storico attivo nel quale la presa di coscienza gli permette di possedere quello che prima di allora poteva solo sognare.30 È sotto questa lente che acquista nitidezza la critica di Maiakovski alla modernità newyorkese: “New York non è organizzata: è un accumulo gigantesco di oggetti creati da bambini e non un risultato prezioso del lavoro di uomini maturi che comprendono i loro propri desideri e lavorano secondo un progetto come artisti”.31 Quello che manca alla metropoli statunitense è, quindi, l’azione cosciente dei suoi creatori: “New York è un equivoco e non un prodotto dell’arte industriale. Questa città è stata creata in modo anarchico, e non come risultato dell’azione unitaria dei nuovi pensatori, ingegneri, artisti e operai”.32 All’americanismo Maiakovski oppone l’azione cosciente delle masse: “il nostro industrialismo, in Russia, sarà l’opera d’arte delle masse”.33 Non c’è qui un’attitudine ingenua nei confronti del meccanicismo. Questa nuova società in costruzione ha come presupposto nuove relazioni di produzione nelle quali la macchina passa ad essere l’oggetto e l’operaio recupera la sua condizione di soggetto del processo di produzione: “Siamo i padroni della macchina e non la temiamo”, affermava il poeta russo.34 Nelle pagine della rivista Levi Front Iskuvst (Fronte di Sinistra delle Arti-LEF), fondata nel 1923, per servire da portavoce a questo movimento, la scienza e la tecnica non hanno autonomia di fronte alle relazioni sociali: “Tutta l’industria del mondo contemporaneo, dal punto di vista degli stessi proprietari, è stata rubata (nel significato che gli usi e i costumi dei proprietari danno alla parola) al primo inventore come hanno fatto con Gauss”.35 L’espropriazione del sapere dell’artigiano, fondamentale nel processi di costituzione della moderna industria capitalista, è una rapina, così come l’appropriazione da parte del capitale delle conoscenze dello scienziato. Come unione delle forze produttive del capitale - la scienza e la tecnica tra le altre - questa industria manifesta la sua vocazione per la produzione di merci e l’appropriazione del pluslavoro. La critica dei futuristi alla mercantilizzazione delle relazioni sociali e allo sfruttamento del lavoro ha come bersaglio anche la grande industria capitalista. Gli esperimenti SUPREMATISTAS di Malevitch che concepisce un mondo senza oggetti, proprio di una società nella quale la proprietà delle cose e delle nozioni smette di avere un posto e il costruttivismo di Tatlin che propone un’arte capace di fabbricare oggetti per il popolo invece che oggetti di lusso per i ricchi, si inseriscono in questo movimento critico. Nel LEF, Ossip Brik proponeva di drenare il pantano dell’arte, eliminando il passato che ancora la infestava. Ma quel passato non impregnava solo l’arte, si faceva sentire anche nella scienza e nella tecnica. Le relazioni sociali capitaliste dovrebbero rendere possibili nuove relazioni sociali e le forze produttive del capitale dovrebbero dare spazio alle forze produttive del lavoro. A questo fine era necessario un nuovo attivismo e una presa di partito che collocasse gli artisti dal lato del popolo. La parola d’ordine futurista, fusione dell’arte e della vita, si dirige in questa direzione. “La borghesia ha trasformato tutta la carne in spirito. Ha ridotto la materia allo stato gassoso. Al posto di corpi solidi, emanazioni ideologiche. Il proletariato ha ristabilito i diritti della carne, della materia e dei corpi solidi. Per il proletariato l’idea non è nulla se non si trova incarnata o in via d’essere [...] è indispensabile che tutti gli artisti in questo momento, senza perdere un solo minuto, si sveglino dal loro sonno ideologico, si sfreghino gli occhi e si aggrappino ad un lavoro realmente creatore. Le fabbriche, le officine e gli atelier aspettano che gli artisti vadano lì e diano loro i modelli di cose nuove, mai viste. Gli operai sono stanchi di fabbricare oggetti saturi di spirito borghese. Vogliono il nuovo”.36 “Oggetti saturi di spirito borghese”. Non sarebbe forse il progresso, saturato anche di questo spirito? E la scienza, che docilmente ha accettato la sua trasformazione in forza produttiva del capitale? Riconquistare la scienza e trasformarla in forza produttiva del lavoro, facendo in modo che mantenga le sue promesse. Ma per questo è necessario drenare il pantano nel quale si trova e trasformarla in arma della critica. All’inizio del XXI secolo, un museo della scienza dovrebbe riservare uno spazio per registrare(?) il suo contributo alla barbarie quotidiana e extra-quotidiana.

(Traduzione di Elisa Spampinato)

Note

* Professore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’ Università Statale di Campinas (Unicamp) -Brasile.

1 Questo testo è stato presentato durante la conferenza per gli organizzatori della Escola Parque da Ciência de Santo André (San Paolo).

2 Theodor Adorno e Max Horkheimer. Dialética do esclarecimento. Rio de Janeiro: Jorge Zahar, 1985, p. 21.

3 Eric Hobsbawm. Barbárie: manual do usuário. In: Sobre história. São Paulo: Companhia das Letras, 1998, p. 268.

4 Idem, p. 268-269.

5 Idem, p. 269.

6 Idem, p. 270.

7 Eric J. Hobsbawm. A era do capital. 1848-1875. Rio de Janeiro: Paz e Terra, 1996, p. 351.

8 Auguste Comte. Curso de filosofia positiva. São Paulo: Nova cultural, 1988, p. 9. (Col. Os Pensadores)

9 Idem.

10 Idem, p. 7.

11 Idem, p. 23.

12 Francis Bacon. Novum organum, ou, Verdadeiras indicações acerca da interpretação da natureza. São Paulo: Abril Cultural, 1973, p. 19. (Col. Os pensadores.)

13 Idem.

14 Rispetto al tema del positivismo come un’ideologia del controllo sociale, vedi Lelita Oliveira Benoit. Sociologia comteana. Gênese e devir. São Paulo: Fapsp/Discurso, 1999.

15 “Quello che permette alla macchina di eseguire lo stesso lavoro che prima era effettuato dall’operaio è l’analisi e l’applicazione che deriva direttamente dalla scienza delle leggi meccaniche e chimiche. Lo sviluppo della macchina, quindi, si verifica solo quando la grande industria ha raggiunto un livello superiore e il capitale ha sottomesso e collocato al proprio servizio tutte le scienze; dall’altro lato, la stessa meccanizzazione esistente assorbe già grandi risorse. Le invenzioni si convertono allora in un settore dell’attività economica e l’applicazione della scienza alla stessa produzione immediata diventa un criterio che determina e incrementa la stessa (Karl Marx. Elementos fundamentales para la crítica de la economia política (Grundrisse): 1857-1858. México D.F.: Siglo XXI, 1972, v. 2, p. 226-227).

16 Cf. Theodor Adorno e Max Horkheimer. Dialética do esclarecimento. Rio de Janeiro: Jorge Zahar, 1985, p. 20.

17 Karl Marx. Maquinaria e trabalho vivo. (Os efeitos da mecanização sobre o trabalhador). Crítica Marxista, São Paulo, n. 1, p. 106.

18 Karl Marx. Capital. Londres: Penguin, 1990, v. I, p. 799.

19 Karl Marx. Elementos fundamentales para la crítica de la economia política (Grundrisse): Op. cit., p. 229.

20 Idem. Cf. tb. O comentário a respeito de André Tosel. Centralidad y no centralidad Del trabajo o la pasión de los hombres superfluos. Herramienta, n. 14, 2000-2001, p. 73-77.

21 Karl Marx. Capital. Londres: Penguin, 1990, v. III, p. 953.

22 Antonio Gramsci. Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922. Turim: Giulio Einaudi, 1966, p. 21. Il giudizio di Gramsci su Marinetti appare in modo negativo nella sua lettera a Trotsky sulla questione: Antonio Gramsci. Uma carta do camarada Gramsci sobre o futurismo italiano. In: Leon Trotsky. Literatura e revolução. Rio de Janeiro: Zahar, 1980, p. 139-141.

23 F. A Marinetti. Fundação e manifesto do futurismo. 20 fev. 1909. In: Aurora Fornoni Bernardini. O futurismo italiano. São Paulo: Perspectiva, 1980, p. 34.

24 F. A. Marinetti. O esplendor geométrico e mecânico e a sensibilidade numérica. Manifesto futurista 15 mar. 1914. In: Aurora Fornoni Bernardini. Op. cit., p. 148.

25 F. A. Marinetti. Fundação e manifesto do futurismo. 20 fev. 1909. In: Aurora Fornoni Bernardini. Op. cit., p. 34.

26 F. A. Marinetti. Para além do comunismo. In: Aurora Fornoni Bernardini. Op. cit., p. 245.

27 Cf. Antonio Gramsci. Quaderni del carcere. Edizioni critica a cura di Valentino Gerratana. Turim, Einaudi, 1975, p. 1228-1229.

28 Leon Trotsky. Literatura e revolução. Rio de Janeiro: Zahar, 1980, p. 126.

29 A questo riguardo vedi G.M. Hyde. O futurismo russo. In: Malcolm Bradbury e James McFarlane. Modernismo: Guia geral - 1890-1930. São Paulo: Companhia das Letras, 1989, p. 213.

30 Cf. Marx a Ruge (set. 1843). Escritos de juventud. México D.F.: Fondo de Cultura Económica, 1982, p. 460. (Obras Fundamentales de Marx y Engels: v. 1).

31 Vladimir Maiakóvski. De uma entrevista com o escrito norte-americano Michael Gold. In: Boris Schnaiderman. A poética de Maiakovski. São Paulo: perspectiva, 1971, p. 132.

32 Idem.

33 Idem, p. 133.

34 Idem.

35 V. Khlebnikov. A trompete dos marcianos. AAVV. Os futuristas russos. Porto Arcádia, 1973, p. 32.

36 Ossip Brik. Drenagem da arte. AAVV. Op. cit., p. 45.