In Italia il dibattito sul reddito di cittadinanza comincia
ad avviarsi. con fatica, con lentezza, tra mille equivoci e distorsioni, ma
comincia. E, fatto ancor più importante, la richiesta di un reddito sganciato
dal lavoro si appresta a diventare un obiettivo di lotte concrete contro le
forme moderne della precarizzazione del lavoro e della mortificazione della
dignità delle donne e degli uomini. Recentemente tre libri hanno trattato la
questione del reddito di cittadinanza: “Tute bianche:disoccupazione di massa e
reddito di cittadinanza”, a cura di A. Fumagalli e M. Lazzarato, edito da
DeriveApprodi, Roma, marzo 1999, “Il salario sociale” di G. Malabarba, Nuove
edizioni internazionali, maggio 1999 e infine “Profit State, reidstribuzione
dell’accumulazione e Reddito Sociale Minimo”, di R. Martufi e L. Vasapollo,
Ed. La città del Sole, maggio 1999.
Questa prima fase del dibattito (che, per il momento,
incontra forti difficoltà “di cittadinanza” all’interno delle
organizzazioni sindacali confederali e dei partiti di sinistra) si è posta l’obiettivo
di definire gli assi portanti del concetto: che cosa si intende per reddito di
cittadinanza, chi ne avrebbe diritto? Questo proprio per evitare fraintendimenti
ed equivoci, vista anche l’aleatorietà della parola “reddito”. In seconda
battuta, si é cominciato a valutare l’attualità e la praticabilità di una
simile proposta nel contesto postfordista del processo di accumulazione. Infine,
si é messo in luce il ruolo strumentale che può avere l’obiettivo di un
reddito garantito come fattore di ricomposizione sociale delle diverse
soggettività del lavoro oggi divise e frammentate.
Analizziamo brevemente questi tre punti, tenendo presente che
le risposte, ovviamente, non possono essere esaustive e che le questione aperte
sono numerose.
Partiamo dalla definizione. Per reddito di cittadinanza,
nella sua accezione più generale, così come si evince dal testo “Tute
bianche”, si intende l’erogazione di una certa somma monetaria a scadenze
regolari e perpetua in grado di garantire una vita dignitosa, indipendentemente
dalla prestazione lavorativa effettuata; Per tale definizione, questa erogazione
deve avere due caratteristiche fondamentali: deve essere universale e
incondizionata, deve cioè entrare nel novero dei diritti umani.
In altri termini, il reddito di cittadinanza va dato a tutti
gli esseri umani in forma non discriminatoria (di sesso, di razza, di religione,
di reddito). E’ sufficiente, per averne diritto, il solo fatto di esistere.
Non è sottoposto ad alcuna forma di vincolo o condizione (ovvero, non obbliga
ad assumere particolari impegni e/o comportamenti). I due attributi - universale
e incondizionato - sono elementi di differenziazione con altre definizioni, a
cui si rifanno in particolare i testi di R.Martufi e L. Vasapollo da un lato e
G. Malabarba, dall’altro La proposta del "Reddito Sociale Minimo" di
Martufi-Vasapollo ha una caratterizzazione diversa del concetto di "salario
sociale" di Malabarba. Il primo infatti, pone come requisito per accedervi,
il criterio della condizione professionale (iscrizione alla lista di
collocamento da almeno un anno) e quello del reddito (al di sotto di una certa
soglia a seconda del numero dei componenti del nucleo familiare). Il secondo,
invece, più genericamente, prevede come requisito principale il tipo di
condizione professionale (disoccupato e/o precario). In entrambi i casi
comunque, il sostegno decade nel momento in cui il soggetto ricevente ottiene un
contratto di lavoro a tempo pieno. Le due formulazioni di Martufi-Vasapollo e di
Malabarba, pur con alcune differenze, sono però simili nel pensare che il
sostegno al reddito sia funzionale (e temporaneo) in attesa che venga comunque
espletato il costituzionale diritto al lavoro. Si tratta quindi di una forma
salariale, pur se sganciata temporaneamcnte dalla prestazione lavorativa
(Malabarba, in proposito, é estremamente chiaro). Il concetto di reddito
universale di cittadinanza di Fumagalli-Lazzarato è invece assai diverso: si
tratta di reddito e non di salario (non si può parlare al riguardo, come molto
spesso si fa di salario minimo o salario garantito): il salario, in quanto
remunerazione del lavoro, è comunque legato all’organizzazione capitalistica
della produzione. Il concetto di reddito rientra invece esclusivamente
nell’alveo della distribuzione delle risorse, una volta dato il livello di
ricchezza complessiva. Il reddito determina la possibilità di consumo e se il
diritto al consumo è universale anche il diritto al reddito deve esscre
universale e primario (non mediato, quindi, dal diritto al lavoro). Tutte le
proposte di tipo distributivo che fanno riferimento o alla condizione
professionale (stato di disoccupazione e/o di precarietà insufficiente a
garantire un reddito minimo) o all’obbligo di assumere degli impegni di tipo
contrattuale, pur se sganciati dalla prestazione lavorativa, (come il Reddito
minimo di inserimento in Francia), sono discriminanti e non conformi
allo status di “diritto inalienabile ındividuale”. Non è così per il
reddito di cittadinanza. Le differenze concettuali e teoriche sono quindi
profonde ed è importante che il dibattito continui. Tuttavia, esse non sono
tali da non prefigurare un percorso di impegno politico
comune, soprattutto in relazione alla difficoltà quotidiana di mettere al
centro dell’iniziativa e della sovversione politica quotidiana la questione
della ridistibuzione del reddito. Purchè si tenga conto che il terreno del
conflitto non può essere limitato al solo luogo di lavoro (fabbrica e/o
ufficio) - come sembra adombrare Malabarba - bensì all’intero territorio, luogo
composito della produzione materiale e immateriale, dell’immaginario e del
consenso sociale.
L’attualità del reddito di cittadinanza (o più, in
generale, di una distribuzione sociale del reddito non completamente chiusa
nell’ambito dei rapporti di produzione) e la sua praticabilità derivano
dall’analisi delle moderne forme dell’accumulazione dominanti nel mondo
capitalistico occidentale. La ristrutturazione tecnologica, esito della
diffusione di tecnologie di linguaggio che si sostituiscono o sono complementari
alle tradizionali tecnologie meccaniche e ripetitive di stampo taylorista, ha
profondamente modificato le forme di erogazione del lavoro e di origine del
profitto. La nuova organizzazione flessibile del lavoro e della produzione porta
alla ridefinizione del rapporto capitale lavoro, in cui la prestazione
lavorativa è totalmente subordinata e sussunta al capitale sia nella sua
componente materiale che immateriale. Non solo le braccia, ma anche la mente ed
il tempo di vita sono diventati fattori produttivi che danno origine a livelli
crescenti di produttività, che assume caratteri "sociali" e non piu
individuali: una produttività sociale che deriva sempre più dalle esperienze e
dai saperi soggettivi dei singoli individui e che assumono le più disparate
tipologie di "lavoro" (al riguardo il testo di Martufi-Vasapollo è
molto esplicito e approfondito su questo argomento). Ciò porta ad una
ridefinizione della separazione fordista tra lavoro manuale e lavoro
intellettuale, tra produzione materiale e produzione immateriale, tagliando
trasversalmente non solo l’attività di trasformazione industriale e il settore
terziario, ma influenzando pesantemente sui meccanismi di finanziamento e sulla
dinamica dei mercati finanziari. Nel fordismo, il rapporto capitale lavoro si
era sviluppato all`interno di un patto sociale, garantito a livello nazionale,
che da un lato legava incrementi di produzione a incrcmenti dell’occupazione e,
dall’altro, imponeva la distribuzione di parte dei guadagni di produttività al
reddito da lavoro salariato, consentendo una crescita contemporanea di salario e
profitto. Oggi il livello di sfruttamento insito nel rapporto capitale-lavoro
produce incrementi di produttività "sociale" che non vengono
ridistribuiti ma sono ad esclusivo appannaggio della crescita dei profitti e
della rendita finanziaria. La ridefinizione di un nuovo patto sociale
post-fordista, lungi dall’essere quello ipotizzato dalla triade
D’Alema-Ciampi-Cofferati e ora messo in discussione dallo stesso D’Alema nel
campo previdenziale, non puo che partire dall’esigenza di una ridistribuzione
sociale del reddito. Il reddito di cittadinanza (a partire dalla sua versione
ridotta del "reddito sociale minimo") è dunque la forma più moderna
compatibile con l’attuale sistema di accumulazione flessibile, resa possibile da
un intervento redistributivo dei guadagni di produttività immateriale, che oggi
sfuggono alle statistiche ufficiali, ma che producono quella ricchezza, per lo
più utilizzata per la speculazione finanziaria internazionale e che è
all’origine delle più moderne forme di esclusione sociale. In linea generale,
un intervento sui guadagni di produttività (tramite una tassazione sui beni
capitali o sugli investimenti diretti all’estero) e sulle transazioni
finanziarie (ad esempio, tramite l’introduzione di una Tobin Tax) sono dunque i
campi dai quali reperire le risorse per un finanziamento possibile del reddito
di cittadinanza. Su questo punto Martufi e Vasapollo forniscono un’analisi
quanto mai seria e rigorosa.
La proposta di reddito di cittadinanza è, dunque, una
proposta riformista, in quanto, non va a modificare le condizioni strutturali
dello sfruttamento capitalistico (questa é la principale critica di Malabarba).
E’ sicuramente un esempio di riformismo “radicale”, nel senso che si muove
comunque in direzione opposta a quella insita nel perseguimento di politica dei
redditi, di concertazione sindacale e di flessibilizzazione e precarizzazione
del mercato de1 lavoro, compatibili con le esigenze di profittabilità di breve
periodo dellc imprese. Tuttavia viene spesso dimenticato (ed in questo è
ravvisabile un limite nell’analisi di Martufi e di Vasapollo ed in misura
maggiore in Malabarba) che il reddito di cittadinanza apre delle dirompenti
contraddizioni all`interno della gerarchia economia. In primo luogo, rompe il
disciplinamento sociale imposto dal ricatto del bisogno e dalla necessità del
lavoro. E’ diritto all’ozio contro l’etica del lavoro precario, coatto,
alienato. Da questo punto di vista, aumenta il grado di autonomia decisionale e
di libertà dei diversi soggetti del lavoro e del non-lavoro, è forma di
contropotere all’asservimento del lavoro. In secondo luogo, parallelamente,
rompe le gerarchie economiche e sociali imposte dal potere sociale e
discriminatorio dell’uso della moneta. Nei sistemi capitalistici, la
disponibilità di moneta è la manifestazione più evidente della
discriminazione tra lavoro e capitale. Il lavoratore può spendere solo ciò che
guadagna tramite la sua disponibilità al lavoro, L’imprenditore puo accedere
liberamente alla moneta-credito senza vincoli di reddito, in quanto proprietario
dei mezzi di produzione. Fornire moneta - e quindi potere d’acquisto - a chi non
si sottopone alle gerarchie della produzione significa sviluppare forme di
contropotere monetario. Infine, sulla base dei due punti ora ricordati, la
disponibilità di un reddito incondizionato aumenta potenzialmente il grado di
contrattazione individuale degli individui, per lo meno nel contesto
socio-economico. In un mercato del lavoro, caratterizzato sempre più dalla
prevalenza della contrattazione individuale a tutti i livelli (salario e tempo
di lavoro), anche laddove esistono forme di contrattazione collettiva
(lavoratori dipendenti a tempo indeterminato pubblici e privati), la capacità
di sviluppare forme conflittuali per il miglioramento delle proprie condizioni
lavorative e reddituali si scontra con la frammentazione dei soggetti del
lavoro. Lo sviluppo di forme estese di microconflittualità è certamente
condizione necessaria per poter intervenire positivamenè sulla propria
condizione, ma di per sé non è più sufficiente per modificare i rapporti di
forza oggi dominanti a livello sociale. Diventa sempre più necessario definire
livelli di scontro che riguardino aspetti trasversali delle diverse
soggettività del lavoro, indipendentemente dal posto di lavoro. Le questioni
del reddito e del tempo di lavoro vanno incontro a questa esigenza. Per questo,
il reddito di cittadinanza è strumento di intervento sociale (e non un
finalità in sé) per poter favorire quel processo di ricomposizione sociale,
necessario per lo sviluppo di nuove potenzialità conflittuali, per essere più
padroni del nostro destino.