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IL CAPITALISMO ITALIANO:RIFLESSIONI E CONTRADDIZIONI

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Joseph Halevi
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Joseph Halevi è docente di economia all’Università di Sydney in Australia e, periodicamente, insegna in Francia alle università di Grenoble (Pierre Mendès France) e di Nizza

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Il keynesismo impossibile.

Joseph Halevi

Le illusioni degli economisti di una certa sinistra radicale italiana

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1. La crisi italiana e il minimalismo del keynesismo di rimessa

Ritorniamo a parlare della crisi italiana. I sindacati e le forze politiche del centrosinistra si sono incontrati su un’interpretazione minimalista della crisi, in funzione puramente politica contro il governo uscente. In sostanza tali forze sostengono che la crisi è solo italiana, mentre il resto del mondo sta ‘correndo’, per cui la responsabilità non può che essere del governo uscente, appunto. Nel calderone delle critiche del centro sinistra alla gestione economica da parte del centrodestra vi è una posizione che trasformata in politica economica - come auspicato dal Fondo Monetario Internazionale dalla nuova Banca d’Italia - sarà foriera di lacrime e ancora lacrime. Il governo del centrodestra ha sforato ogni tetto formalmente postosi al deficit pubblico e quindi, potenzialmente, aumentando il debito interno in rapporto al Pil, violando ulteriormente quindi i sacri parametri di Maastricht. Il Pil appare sempre di più come un dato estremamente fuorviante, una specie di factotum usato per nascondere le vere questioni sociali e strutturali. Ma ovunque nel mondo capitalista le discussioni di politica economica si imperniano ormai principalmente su questo dato, artefatto se avulso dal contesto sociale e strutturale. Comunque sia, il centrodestra è accusato di aver portato il defcit pubblico oltre il 4% del Pil contro il 3,8% pattuito con Bruxelles. La critica sta nel dato in sè e non nel fatto che il centrodestra ha fatto correre il deficit ma non in favore della spesa sociale e delle infrastrutture essenziali. Ne consegue che il centrosinistra, stando alle dichiarazioni ufficiali, si impegnarà a far rientrare una parte di tale deficit. Il nuovo governo applicherà cioè una contabilità Visco bis che è stata la causa principale dello sfaldamento infrastrutturale del Paese. Le conseguenze saranno le stesse se non peggiori. Infatti la contabilità del primo Visco venne applicata quando al Pil italiano si imputava una crescita assai più elevata di quella attuale. Pertanto l’eventuale manovra restrittiva del governo entrante avrà degli effetti assai più dolorosi sui servizi sociali, sui pensionati e sui redditi del lavoro dipendente. Che un eventuale governo di centrosinistra si sarebbe apprestato a rimettersi sul sentiero gelato dei patti di stabilità, indipendentemente dalle sollecitazioni del Fondo Monetario, ne erano consapevoli parecchie persone. Così negli ultimi due anni è nato un gruppo di pressione, tipo think tank2, gravitante sul Partito della Rifondazione Comunista che sta, molto moderatmente, perorando la causa del deficit pubblico ponendo come obiettivo di politica economica la stabilizzazione del rapporto tra debito e prodotto interno lordo. Èovvio infatti che se si adotta l’obiettivo della stabilizzazione del debito rispetto al Pil, la spesa pubblica può essere condotta con un deficit più elevato rispetto al livello richiesto per ridurre il rapporto debito-Pil. Stranamente questo keynesismo di rimessa è tanto minimalista quanto l’analisi che fa della crisi italiana un caso particolare in un mondo che invece ‘ corre’.

2. Un quadro diverso

Il mondo invece non corre, anzi la stragrande maggioranza dei paesi a capitalismo maturo non corre affatto. La crescita mondiale è imperniata prevalentemente sugli USA e la Cina con l’India che cerca di inserirsi in quello che per ora si può definire la globalizzazione in un paese solo (Cina). La crescita statunitense dipende dalla spesa pubblica militare, con parziale eccezione di una parte degli anni Novanta quando l’economia USA era avvolta nella bolla speculativa delle dotcom, le cosiddette tecnologiche, nonchè dall’indebitamento delle famiglie. La corsa cinese si collega a quella statunitense e la crescita cinese sta ora trainando il Giappone e la Corea meridionale. E qui finisce la faccenda della crescita ad eccezione di alcune fiammate all’est europeo e della persistente tenuta della crescita spagnola cui corrisponde un deficit estero pari a 85 miliardi di dollari nel 2005, secondo, sebbene di molte lunghezze, solo a quello statunitense che è di oltre 800 miliardi di dollari. Secondo i dati dell’ idolatrato PIL elaborati dall’OCSE la dinamica cumulativa dell’Eurozona per il periodo 2001-2005 è stata dell’1,38% annuo. All’interno di questo dato quella tedesca era dello 0,7% annuo e quella italiana dello 0,74% annuo. Allora come la mettiamo? L’economia strutturalmente più forte d’Europa avrebbe navigato alla stessa velocità del vascello di legno italiano. Vengono tirati in ballo elementi spuri come il fatto che mentre la Germania sta mostrando un attivo nella bilancia dei pagamenti, l’Italia è in rosso. Ma lo stato della bilancia dei pagamenti con l’estero è solo un indicatore di quanto le imprese localizzate in un paese riescano ad accumulare sul piano mondiale. Considerando che da tempo la Germania contiene le principali multinazionali ed i principali settori portanti dell’economia mondiale e che il commercio globale gravita vieppiù sulle multinazionali, non dovrebbe sorprendere il fatto che al crollare del suo tasso di crescita causato dalla stgnazione o piuttosto dall’effettivo declino della domanda interna tedesca, aumentino le esportazioni rispetto alle importazioni. È stata recentemente anche avanzata l’idea che la crisi italiana risiede nella perdita dei settori portanti ed avanzati per cui l’Italia investirebbe più della media europea ma crescerebbe di meno per una sorta di regressione strutturale. Questi ragionamenti sono già stati fatti da molti anni in maniera più ricca ed articolata non in rapporto alla politica del presente ma in rapporto alle caratteristiche storiche del capitalismo italiano e puntano non su presunta inefficienza degli investimenti bensì su una loro crisi pluridecennale, su un vero svuotamento del processo stesso di investimento per lo sviluppo3. In ogni caso tutte queste cose vanno bene come contributo ad un dibattito che dovrebbe specificare la crisi italiana come componente della crisi di accumulazione del capitalismo mondiale, alleviata ma non risolta dalla Cina, ed della stagnazione europea in particolare. Invece se tali discorsi vengono svolti per dire che l’Italia va particolarmente male mentre andrebbe meglio se avesse la Siemens o Microsoft o la BMW si crea solo confusione mentale. Secondo l’Ocse nel lungo periodo (1984-2003) la Germania e l’Italia hanno avuto grosso modo lo stesso tasso di espansione dello stock di capitale (apparato produttivo), il 2,95 per la Germania e 2,85 per l’Italia. Nell’ultimo decennio si è formato un notevole divario tra Italia e Germania, con una maggior espansine dello stock di capitale in Italia, perchè la crescita della domanda interna tedesca si è annullata. Dal 1994 al 2003 la domanda interna tedesca è cresciuta dell’1,15% all’anno mentre quella italiana è cresciuta ad una media annua dell’1,99%. Negli ultimi due anni la divergenza si è accentuata sebbene ambo i paesi abbiano subito un calo complessivo sia nella crescita totale della domanda che nella formazione dello stock di capitale. Per il triennio 2003-2005 la media annua dell’espansione della domanda interna tedesca è stata dello 0,3 mentre quella italiana si è aggirata intorno all’1% ed è ovvio che in queste circostanze, quando la dinamica della domanda dei due paesi sta in un rapporto da uno a tre i rispettivi tassi di formazione di capitale siano assai diversi. Tuttavia nel caso italiano un regime di moneta unica funziona come nel caso dei cambi fissi dello SME. L’apparato produttivo italiano, essendo strutturalmente meno coerente di quello tedesco, è più esposto alle importazioni. Per cui l’espansione della domanda interna italiana crea un bisogno di importazioni maggiore che nel caso tedesco e dato che la Germania, sul piano interno non cresce per niente, esplodono le esportazioni a scapito delle importazioni e gli investimenti si concentrano nei settori esportatori e di sostegno alle multinazionali tedesche operanti all’estero. Sarebbe tuttavia errato concludere che la situazione in Germania sia peggiore di quella italiana. Si tratta semplicemente di due articolazioni di una medesima crisi capitalistica.

3. Quale keynesismo?

Molte delle persone che a sinistra sottolineano l’unicità della crisi italiana sostengono l’esigenza di un keynesismo, sebbene moderato, per uscirne. Anche se la loro lettura della crisi italiana fosse giusta, e magari qualche ragione ce l’hanno ed io, lo dico sinceramente, non la sto cogliendo dovutamente, non ne consegue che quella keynesiana sia una ricetta applicabile. Con Riccardo Bellofiore abbiamo sviluppato una tesi critica in tal senso proprio nel citato volume appena pubblicato dalla “manifestolibri”. Già nel 1972 in una celeberrima conferenza alla riunione annuale della American Economic Association, Joan Robinson sottolineò che il keynesismo si era manifestato in una forma perversa, quella della spesa pubblica militare statunitense. Perchè? A tagliare la testa al toro alla questione fu proprio Business Week, la principale rivista finanziaria staunitense che così giustificò nel 1949 - prima della grande spesa bellica di Corea che risolleverà il Giappone dalle sue rovine e darà la stura al keynesismo militare USA senza il quale l’Europa del MEC non si sarebbe costituita con successo - la razionalità della spesa pubblica militare. Vi è un’ enorme differenza sociale ed economica nell’alimentare la spesa per il welfare e nell’ alimentare la spesa militare... La spesa militare non altera la struttura dell’economia. Viaggia attraverso i canali regolari. Per quel che concerne un uomo d’affari un ordinativo di munizioni dal governo è come un ordinativo da parte di un cliente privato Invece la spesa per il welfare, sosteneva Business Week, “crea nuovi canali autonomi. Crea nuove istituzioni, ridistribuisce il reddito, sposta la domanda da un’industria ad un’altra. Cambia l’intera intelaiatura economica”. Il ragionamento è ineccepibile e per cui il keynesismo applicato su larga scala deve essere concentrato sull’accumulazione e sulla creazione di profitti per le società. Su larga scala la cosa è possibile solo agli USA i quali riescono tanto a mantenere ed espandere le spese belliche quanto ad imporre al resto del mondo. Africa inclusa, il finanziamento del loro deficit estero, perchè è li che finisce il surplus estero tedesco piuttosto che in un riciclaggio volto a sostenere la domanda europea. Comunque Keynes stesso si convinse che spazio per un’applicazione civile delle sue teorie non ci sarebbe stato. Nel 1940 scrisse: “[è]politicamente impossibile per una democrazia capitalista organizzare la spesa su una scala tale da comprovare la mia tesi - ad eccezione di situazioni di guerra4”. Dalla guerra di Corea in poi l’evoluzione poltica sembra aver convalidato l’osservazione di Keynes e reso caduche le ricette dei keynesiani.

Note

1 Department of Political Economy, University of Sydney. La ricerca di cui questo articolo fa parte è condotta presso l’Università di Sydney e e l’Université Pierre Mendès France de Grenoble (Francia).

2 Queste posizioni, sono reperibili in un certo numero dei saggi pubblicati nel volume Rive Gauche, critica della politica economica a cura di Sergio Cesaratto, Riccardo Realfonzo con la collaborazione d Anna Maria Bruni, Roma, manifestolibri, 2006.

3 Marcello De Cecco L’economia di Lucignolo : opportunità e vincoli dello sviluppo italiano, Roma: Donzelli, 2000.

4 Le citazioni da Business Week e di Keynes sono tratte dal classico studio di Robert M. Collins, The Business Response to Keynes, 1929-1964, New York: Columbia University Press, 1981, p. 199 per il pezzo di Buisness Week e p.12 per Keynes.