Università neoliberista o democratizzazione dell’educazione superiore?
Alessandra Ciattini
Due modelli a confronto
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1. Le cosiddette riforme e i loro nefasti
risultati
Dopo un periodo di intense proteste, portate avanti soprattutto dagli studenti, dai lavoratori precari e dai ricercatori universitari - con un sostegno puramente formale dei cosiddetti baroni e delle loro associazioni (compresa la CRUI)1 -, la questione università è diventata ormai solo oggetto di dibattito tra gli esperti del settore, alimentata da quelle poche voci, che non si rassegnano al degrado voluto e programmato dell’università e della ricerca pubbliche.
Eppure essa rimane aperta come una ferita sanguinante, che sicuramente il prossimo governo (sia di centro-destra che di centro-sinistra) non si preoccuperà di sanare.
Anzi, sotto gli occhi di chi vuol vedere (naturalmente) stanno squadernati i guasti prodotti dalle cosiddette riforme, che hanno portato alla diffusione del precariato2 anche in questa nicchia prima privilegiata della società, all’impoverimento della conoscenza trasmessa agli studenti, alla macchinosità burocratica della vita universitaria che affligge i docenti; questi ultimi sono oramai costretti a riempire e far riempire questionari, a partecipare a continue riunioni di nuovi ed inutili organismi, profilerati in questi anni per spezzare la compattezza culturale e politica del mondo accademico. D’altra parte, non possono evitarlo, se vogliono ricavare un’indicazione certa dal ginepraio di leggi e regolamenti prodotti dalle varie istanze, se vogliono sapere cosa fare e quali informazioni dare ai cosiddetti utenti. Finiscono così col trascurare la ricerca per dedicarsi - oltre al resto - ad una stressante attività didattica che dovrebbe dare una preparazione professionale un giovane, che nella maggioranza dei casi è destinato alla disoccupazione. Paradossi della società capitalistica!
Non sono i soliti estremisti a fare queste dichiarazioni, giacché lo stesso Prodi ha affermato che oggi un quarto dei giovani (tra cui sono da annoverare anche i trentenni) sono disoccupati, mentre il 50% dei giovani occupati svolge un lavoro precario.
Ma vediamo di fare un bilancio dei risultati prodotti dalle varie riforme che si sono susseguite in questo ultimo decennio, nel quale non solo a mio parere i governi di diverso orientamento politico, avendo accettato nella sostanza il modello di società ridisegnato dal neoliberismo, hanno gareggiato a elaborare i provvedimenti peggiori per la università e per la ricerca pubbliche3.
Cominciamo col vedere quali sono stati gli obiettivi dichiarati di una delle riforme fondamentali, ossia l’introduzione dei due livelli di laurea (triennale e specialistica), il cosiddetto 3 +2, contenuta nel DM 509/1999. Secondo quanto scrive Tortorella (2005: 120) essi consistevano. “1) nel rendere la durata reale degli studi corrispondente alla durata legale per la generalità degli studenti adeguatamente impegnati negli studi; 2) ridurre l’elevato tasso di abbandono, e al contrario aumentare la popolazione universitaria e il numero dei laureati; 3) innovare e diversificare la didattica, delineando un sistema improntato alla più ampia flessibilità; 4) consentire ai laureati di primo livello di accedere al mondo del lavoro, caratterizzando la prosecuzione degli studi di secondo e di terzo livello come una scelta piuttosto che un obbligo”.
Lo stesso Tortorella (ibidem) sottolinea che il processo di attuazione di questa riforma “si è presentato irto di difficoltà”, anche per la mancanza di risorse aggiuntive, non stanziate dal ministero, e per il non adeguamento delle strutture e dei servizi.
Come è noto sempre il DM 509/1999 introduceva i famosi crediti, ossia “la misura del volume di lavoro di apprendimento, compreso lo studio individuale, richiesto a uno studente in possesso di una adeguata preparazione iniziale per l’acquisizione di conoscenze e abilità nelle attività formative previste dagli ordinamenti didattici dei corsi di studio” (art. 1 comma l). Ha stabilito inoltre che ad ogni credito debbano corrispondere 25 ore di studio, di cui almeno la metà deve essere rappresentata dal lavoro, ma non sono fissati criteri per stabilire “la suddivisione del credito tra ore di docenza e ore di studio individuale” (Tortorella, 2005: 121).
Il fatto che nelle università italiane il rapporto tra ore di docenza e credito sia variabile dimostra quanto sia assurda la pretesa di quantificare un’attività, le cui caratteristiche sono legate alla capacità di insegnamento, alla capacità di apprendimento, alle modalità del rapporto educativo, che si stabilisce tra insegnante e studente. Tutte cose difficilmente misurabili e quantificabili, che solo una visione ragionieristica può considerare tali4.
Un’altra difficoltà individuata da Tortorella (2005: 122) sta nel fatto che la riduzione dei corsi universitari (prima di circa 60 ore) a moduli di 24/32 ore ha inevitabilmente comportato la condensazione dei contenuti di discipline vaste e complesse, assai difficile da attuare senza semplificarli ed impoverirli. A tale difficoltà sono state date risposte contraddittorie. Da un lato, il docente ha accettato l’impoverimento del suo insegnamento, dall’altro, ha continuato nonostante l’introduzione dei crediti e dei moduli ad offrire agli studenti programmi, la cui mole era giustificata solo nel vecchio ordinamento (con corsi di circa 60 ore).
Le innovazioni della didattica introdotte dalla Moratti (DM 270/2004) hanno di gran lunga peggiorato la situazione, in particolare distinguendo tra percorsi formativi, che garantiscono l’apprendimento di “metodi e contenuti scientifici generali”, e percorsi che abbiano anche la caratteristica di essere professionalizzanti e di avviare così il giovane al mercato del lavoro5. Coerentemente a questa distinzione, introdotta anche nella scuola secondaria, che implica l’introduzione di un bivio tra studio e lavoro (tra cui il giovane deve precocemente scegliere), il DM 270 spezza il percorso formativo (prima lo studente poteva conseguire in serie la laurea triennale e poi quella specialistica), stabilendo che l’accesso alla laurea definita pomposamente magistrale non presuppone l’aver acquisito il titolo triennale. Tale decreto stabilisce al contempo che spetta alle singole università indicare i requisiti di accesso al secondo livello. Questo è uno dei tanti attacchi al quadro legislativo nazionale, che la Moratti e i suoi consiglieri hanno portato avanti, anche attribuendo alle singole università il compito di stabilire le procedure per i concorsi per diventare ricercatore o professore (Legge 230/2005, art. 1, commi 7 e 8).
Un’altra trasformazione importante della vita universitaria è data dal ricorso sempre più ampio a personale precario da impiegare nella didattica (i professori a contratto ed altre figure), del cui numero - così recita il DM 270 (art. 14) - deve essere tenuto conto, assieme al numero degli ordinari, degli associati e degli aggregati, nel caso in cui si vogliano inserire nuovi corsi di studio nell’offerta formativa.
Il precariato, che ha sempre caratterizzato il funzionamento delle università e a cui il DPR 382/1980 offrì una soluzione momentanea, è stato alimentato dal definanziamento del Sistema nazionale universitario - oltre che degli enti nazionali di ricerca -, dai blocchi delle assunzioni decisi nelle finanziarie dei vari governi, dall’ideologia neoliberista, secondo cui “flessibile - parola meno brutta per dire precario - è bello”.
Dopo aver tracciato questo breve quadro, vediamo quali sono oggi i risultati di tali radicali cambiamenti, che avevano lo scopo reale di adeguare il Sistema universitario italiano all’attuale fase neoliberista, di scaricare i costi dei servizi (diventati merci) sulle famiglie, di legare più strettamente ricerca-insegnamento-società capitalistica. Tale legame significa nel sistema socioeconomico attualmente in vigore subordinare la ricerca e l’insegnamento alle necessità dettate dal mercato, intrecciando legami con imprese e società private, sviluppando programmi di ricerca e corsi di studi a loro utili6. Tutto con in linea con la politica della Banca Mondiale e il cosiddetto Bologna process, il cui scopo dichiarato era la costituzione di uno spazio europeo dell’istruzione superiore7 (cfr. Ciattini, 2004).
Da una ricerca fatta sui laureati italiani nel 2004 dal Consorzio interuniversitario Alma Laurea si ricava che: “...il tentativo di accorciare la carriera universitaria degli studenti italiani, perseguito dall’allora governo di centrosinistra e riproposto dall’attuale ministra di centrodestra Letizia Moratti, attraverso l’invenzione di un bivio tra il lavoro e lo studio all’altezza dei 21-22 anni, non funziona. La ricerca, condotta su 140.000 studenti di 35 atenei italiani, rispecchia l’esistenza di una realtà diffusissima: per trovare un lavoro bisogna avere la laurea specialistica, poi il master, magari una scuola di specializzazione. Risultato l’età per conseguire la (prima) laurea si accorcia (da 28 a 27,6 anni), ma aumenta il tempo per arrivare ad una occupazione stabile..., mentre aumentano i costi di formazione a carico delle famiglie” (Ciccarelli, il Manifesto 15/3/2006).
Si è così ottenuto che un numero maggiore di giovani si iscrivano all’università (in effetti c’è stato un aumento delle iscrizioni), ma per stare lì parcheggiati e prendere una laurea spacciata per professionalizzante, che tuttavia non garantisce un impiego.
Inoltre, dalla ricerca si ricava anche che i laureati di vari settori (umanistico, giuridico, psicologico e geo-biologico) ritengono che il vecchio ordinamento fosse sicuramente migliore perché dava una formazione più ampia e completa (ibidem).
La su menzionata ricerca ci fa conoscere anche che gli studenti-lavoratori sono aumentati dal 1999 al 2004 e costituiscono il 68,2 degli iscritti. Generalmente essi svolgono lavori in nero, sono sottopagati e precari, oltre che costretti a seguire tirocini e stage senza remunerazione (ibidem). Questo è il nuovo modo di coniugare studio e lavoro!
Vale la pena di ricordare un ultimo aspetto indicato dalla ricerca relativo al tema importantissimo dell’internazionalizzazione. Gli studenti italiani vanno poco a studiare all’estero soprattutto per i ritmi incalzanti, cui si debbono sottomettere per acquisire i crediti necessari, per raggiungere il traguardo della laurea. D’altra parte le nostre università non sono molto frequentate dagli studenti stranieri. Ricordo solo un dato: nel 2001-2002 la Germania ha ospitato 10.000 studenti cinesi e la Francia 5.000, mentre l’Italia ne ha avuti solo 124 (ibidem).
Del resto, che il processo di riforma dell’università - completato recentemente dalla riforma già menzionata dello stato giuridico dei docenti universitari e del reclutamento fatta dalla Moratti (Legge 230/2005) - avrebbe prodotto questi risultati, noi lo abbiamo sempre detto e scritto, anche quando i giornali trascuravano quasi completamente tale argomento oggi diventato per tutti di massima importanza, giacché l’università dovrebbe diventare il motore dell’innovazione e della modernizzazione economica e sociale del nostra paese.
A quel tempo non sapevamo che la riforma degli ordinamenti didattici (DM 599) fu di fatto imposta da Berlinguer, che si servì dall’abilità di Luciano Guerzoni, il quale riuscì a convincere i parlamentari ad accettare qualcosa che in molti non avevano compreso e che sicuramente non avevano dibattuto. Infatti, come dichiara Roberto Moscati, membro della Commissione Martinotti, uno dei responsabili dell’elaborazione ed estensione del decreto, essa non fu mai discussa in parlamento, ma inserita “di soppiatto” nella finanziaria del 1998 (Roggero, Il Manifesto 15/3/2006).
Nello stesso articolo si legge che gli accordi della Sorbona, firmati da Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia sono stati utilizzati da Berlinguer per giustificare una riforma, che noi siamo stati i primi a fare (ibidem). Gli altri firmatari degli accordi non ci hanno seguito con lo stesso entusiasmo.
Dunque, nella sostanza, ci hanno fatto credere che dovevamo riformare l’università per stare al passo con l’Europa, mentre in realtà i nostri partners europei sono stati in molti casi restii a stravolgere le loro istituzioni e tradizioni universitarie per costruire un sistema universitario unico, auspicato dai fautori della costituzione di uno spazio europeo dell’istruzione superiore a vantaggio anche delle imprese, che si sono organizzate per vendere la formazione superiore e per occupare gli spazi educativi abbandonati dalle istituzioni pubbliche a causa in primo luogo del definanziamento statale.
2. L’universalizzazione dell’educazione
superiore a Cuba
Mentre il nostro sistema educativo nazionale subisce tali attacchi, a causa dei quali è entrato in una grave crisi, dalla quale non potrà uscire tanto facilmente, la tanto disprezzata Cuba sta rinnovando la sua politica universitaria, come abbiamo potuto ricavare dal recente Congreso Internacional de Educación Superior (il quinto), tenutosi all’Avana nello scorso febbraio, cui hanno partecipato docenti e studenti di circa 80 paesi.
Nel corso del Congresso (Universidad 2006) si sono dibattuti problemi specifici relativi all’educazione superiore, alla necessità di adeguarla alle profonde trasformazioni sociali, realizzatesi in questi ultimi anni, ma ci si è anche soffermati sulla filosofia, che deve orientare i cambiamenti e gli adeguamenti.
Prima di descrivere in maniera più dettagliata il processo di universalizzazione e quindi di democratizzazione dell’educazione superiore, avviato dal Sistema universitario cubano e adottato anche dal Venezuela, vorrei sottolineare un primo elemento, che ci consente di contrapporre l’università neoliberista o impresariale (per i suoi stretti legami con l’impresa) e l’università universalizzata e ovviamente gratuita come tutte le fasi del processo educativo8.
Giustamente i docenti cubani non parlano di istruzione, o meglio la considerano solo una parte, un aspetto della formazione superiore, che costituisce l’insieme delle conoscenze relative all’oggetto di studio, scelto dallo studente, e delle abilità da acquisire per interagire in maniera adeguata con esso. Come scrive Horruitiner Silva (2006: 21-22), che riveste una carica direttiva nel Ministero della Educazione superiore cubano, il processo di formazione non si esaurisce con l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità necessarie a svolgere una determinata professione. L’altro aspetto della formazione è costituito dall’educazione, processo mediante il quale il giovane sviluppa la sua personalità acquisendo quei valori, che gli consentono di essere membro effettivo della comunità.
Ciò non si risolve - giustamente osserva Horruitiner (2006: 23; trad. mia) - impartendo corsi di etica, che possono anche essere fatti. Tuttavia, a suo parere, “Incorporare l’etica alla personalità richiede altre attività di carattere educativo, le quali si fondano sul fatto che la stessa vita universitaria debba esser pervasa da un clima etico e che gli insegnanti seguano comportamenti etici”9.
Conosco già l’obiezione a questa impostazione fatta da coloro che ritengono corretto che la formazione riguardi solo l’istruzione (abbiamo infatti in Italia il Ministero dell’Istruzione non più pubblica) poiché considerano pericoloso che lo Stato si metta a dispensare valori, giacché per loro i valori sarebbero solo frutto di una scelta individuale.
Altrettanto ovvia è la contro obiezione a tale asserto: lo Stato che non fornisce valori, in realtà li suggerisce, ed in particolare suggerisce l’individualismo asociale come valore assoluto, il quale consiste poi di fatto nell’imposizione di valori da parte di coloro che hanno il potere di gestire la cultura e l’informazione.
Questa parte dell’articolo dedicata all’università cubana tratta in primo luogo rapidamente la filosofia, secondo la quale l’educazione superiore è strutturata; in secondo luogo mi soffermerò sul processo di universalizzazione, che è inimmaginabile e irrealizzabile senza tale filosofia.
Abbiamo già visto come uno dei capisaldi della formazione superiore sia rappresentato dal binomio inscindibile istruzione-educazione, che rimanda al modello europeo originario di università10, per molti superato, secondo il quale questa ha lo scopo primario di formare cittadini consapevoli e capaci di operare nella vita sociale e politica.
Sempre secondo Horruitiner (2006: 26) la seconda idea rectora, che si cerca di realizzare nell’università cubana, sta nello stretto vincolo tra studio e lavoro, che però assume tratti assai diversi da quelli individuati nell’università berlingueriana e morattiana. Secondo questa seconda idea fondamentale la dimensione istruttiva e quella educativa, che caratterizzano la preparazione dello studente cubano, debbono stare in relazione con la dimensione lavorativa. Ciò significa che i corsi universitari debbono garantire agli studenti il dominio dei modi di mettere in pratica le conoscenze acquisite, debbono formare un professionista adeguato al suo ruolo nella vita sociale.
Per spiegare concretamente come è inteso il vincolo studio-lavoro nell’università cubana, facciamo un esempio. Prendiamo uno studente di pedagogia che, nel primo anno del corso universitario, studia in maniera intensiva in una delle diverse sedi centrali delle università del paese. In questo periodo riceve la formazione necessaria per poter poi lavorare in una scuola primaria o secondaria, e insegnare ai suoi alunni sotto la guida di un tutore della scuola, dove egli continuerà i suoi studi fino alla laurea. Egli diventa così un maestro in formazione e le scuole interessate, dove operano i laureandi, si trasformano in microuniversità (Horruitiner, 2006: 29). La differenza tra il lavoro dello studente universitario cubano e quello dei nostri tirocinanti o stagisti sta nel fatto che il primo studia e lavora in ambiente, che al termine dei suoi studi lo accoglierà definitivamente. Infatti, l’università cubana, proprio perché è orientata a rispondere alle esigenze sociali generali, non spreca le sue risorse materiali e umane, preparando lavoratori destinati alla disoccupazione o ad un’attività precaria.
Un altro punto della filosofia, sulla base della quale si struttura l’università cubana, sta nel modello pedagogico da esso proposto, definito perfil amplio.
Giustamente Horruitiner (2006: 30-31) osserva che si individuano due posizioni nel dibattito internazionale sul modello pedagogico universitario. Alcuni pensano che sia necessario dotare gli studenti degli strumenti principali richiesti dal mercato del lavoro e di formarlo rapidamente sempre per soddisfare il mercato (come si cerca di fare con le nostre lauree triennali professionalizzanti). Altri optano per una formazione universitaria basata sui temi più generali della professione, i quali consentono al laureato di dominare complessivamente tutti gli aspetti di quest’ultima.
L’università cubana ha scelto di strutturare la formazione tenendo conto della relazione dialettica tra il dominio dei fondamenti della professione e la conoscenza del come metterli in pratica. Il profilo amplio, modello pedagogico scaturito da decenni di riflessione e di lavoro, risponde a tale esigenza. Seguendo questo modello è stato attivato nelle università cubane circa un centinaio di corsi, i quali rispondono alle diverse esigenze sociali. Le esigenze lavorative più specifiche trovano risposta nei corsi post laurea, per garantire allo studente la formazione basica, che acquisisce nel primo livello di studi universitari e che non può essere sostituita ma integrata da quella specialistica.
I corsi di posgrado sono stati incrementati per grarantire una migliore preparazione agli 800.000 laureati del paese (Horruitiner, 2006: 32).
Per comprendere le più recenti trasformazioni introdotte nelle istituzioni universitarie cubane, è necessario ripercorrere brevemente la loro storia a partire dal 1959, anno del Triunfo de la Revolución.
Allora esistevano a Cuba solo tre università, quella dell’Avana (Real Pontificia Universidad), fondata nel 1728, quella di Santiago de Cuba, istituita nel 1947, infine quella di Santa Clara (Universidad Central de Las Villas), creata nel 1952. Oggi esistono 65 università11 e il numero dei laureati costituisce il 7% della popolazione.
Ovviamente la Rivoluzione cubana eredita una concezione elitista dell’università, a cui avevano avuto accesso fino a quel momento solo le classi alte della popolazione. La politica educativa della Rivoluzione abbandona questo modello educativo elitista ed affronta in primo luogo il grave problema dello sradicamento dell’anafalbetismo, organizzando nel 1961 una campagna di alfabetizzazione, che comprese anche le località più isolate ed emarginate del paese. Come vedremo la universalizzazione dell’università costituisce uno sviluppo di questa politica educativa iniziale, la quale aveva lo scopo di diffondere universalmente e gratuitamente le conoscenze per contribuire ad abbattere le barriere economiche e sociali, che impedivano l’affermarsi della piena uguaglianza tra i cittadini.
Questa prospettiva ugualitaria e il forte legame con gli altri paesi del Terzo Mondo si sono concretati nell’apertura delle università cubane a giovani provenienti dall’Africa, dall’America Latina e dal Caribe. Infatti, negli ultimi 40 anni si sono laureati a Cuba a spese dello Stato circa 18.000 giovani provenienti da quelle regioni del mondo.
Sempre nel 1961 si aboliscono le istituzioni educative private e l’educazione diventa compito esclusivo dello Stato12. Nel 1962 si realizza la Riforma universitaria, la quale ribadisce la necessità di stabilire un rapporto continuo e serrato tra università e società (AA.VV., 2006: 3-4). Naturalmente il legame società-università assume caratteristiche diverse a seconda del sistema sociale, con cui le istituzioni universitarie si trovano ad interagire. Abbiamo già visto, come nel caso della Riforma Moratti esso finisca col produrre la subordinazione dell’università agli interessi dei privati e delle imprese, impedendo a questa ultima di svolgere il suo ruolo istituzionale, che è quello di rispondere, con la ricerca scientifica e con l’insegnamento, alle richieste culturali, morali e materiali, che provengono da tutta la società.
Negli anni settanta a Cuba la richiesta di educazione superiore aumenta sensibilmente sia tra giovani che tra gli adulti. In questo periodo si indica il numero degli studenti che possono frequentare le università e si regolamenta anche l’accesso ai corsi universitari a tempo pieno. Possono iscriversi alle università gli studenti, che hanno ottenuto buoni risultati nella scuola media superiore. Nel caso dei corsi a tempo definito, organizzati per i lavoratori, viene presa in considerazione anche l’affinità tra il lavoro dello studente e il corso universitario da lui scelto.
Nell’anno accademico 1979-1980 viene istituita l’educazione a distanza, la quale non prevede un limite al numero degli studenti e neppure un limite temporale per concludere il corso di studio. Attualmente la televisione cubana dispone di due canali educativi di buona qualità, nei quali insegnano professori universitari in vari momenti della giornata, per consentire a chiunque di partecipare.
Negli anni ottanta i criteri di accesso ai corsi universitari a tempo pieno vennero modificati. Si teneva conto dei risultati ottenuti nella scuola preuniversitaria e si introdusse un esame di ingresso, il quale concerneva tre materie scelte a seconda del corso, cui lo studente intendeva iscriversi13.
Nel 2000 l’esame di Storia diventa obbligatorio per tutti, mentre si riducono a quattro le materie su cui si viene esaminati. Gli studenti, che vogliono iscriversi a corsi di carattere pedagogico, non fanno esami, si tiene conto della loro carriera scolastica e degli esiti di un colloquio tenuto con gli insegnanti (AA.VV., 2006: 4-6).
Come si vede il Sistema educativo cubano è dinamico ed è costantemente perfezionato, giacché i suoi dirigenti prendono in considerazione le sue ricadute sociali e vagliano se queste ultime non siano per caso in contraddizione con le sue premesse democratiche ed ugualitarie.
Proprio il costante monitoraggio del sistema ha mostrato che l’accesso all’educazione superiore è in realtà il prodotto di un processo che inizia nell’infanzia, quando l’appartenenza a gruppi sociali sfavoriti per circostanze storiche e sociali non facilmente sradicabili segna profondamente l’individuo, non dotandolo di quegli elementi grazie ai quali potrebbe in seguito accumulare meriti scolastici.
La stessa Unesco osserva che si deve facilitare l’accesso all’educazione superiore di gruppi sfavoriti come i popoli indigeni, le minoranze etniche e linguistiche, individui disabili etc.
Tenendo presenti queste osservazioni i dirigenti cubani hanno capito che l’accesso all’educazione superiore non può essere esclusivamente determinato dai meriti scolastici, perché essi non consentono la realizzazione della uguaglianza delle opportunità, giacché la preparazione scolastica dei gruppi emarginati è qualitativamente inferiore a quella di coloro, che godono di maggiori risorse economiche e si sono formati in una ambiente familiare più ricco dal punto di vista culturale. Secondo questa prospettiva tali gruppi non favoriti, proprio per la loro condizione, non possono acquisire meriti scolastici e per questo, per non essere esclusi dall’educazione superiore, debbono essere sostenuti nella fase iniziale della vita. Infatti, per rompere il circolo vizioso padri poveri - figli poveri, bisogna intervenire nel momento in cui si generano le risorse cognitive, ossia nella prima infanzia. Sono disponibili evidenze del fatto che l’educazione formale non ha il potere di cancellare le disuguaglianze formatesi in precedenza (AA.VV., 2006: 6-9). Fatto che i nostri fautori della meritocrazia, tra i quali si distinguono i DS e coloro che scrivono sul “Riformista”, non vedono o molto più probabilmente fingono di non vedere, sempre perché non accettano che il figlio dell’operaio possa diventare un professionista.
Dalla constatazione, che il merito scolastico non è un criterio equo e che abbiamo oggi strumenti che ci permettono di garantire teoricamente a tutti l’acquisizione delle conoscenze disponibili per essere cittadini del mondo, nasce la cosiddetta universalizzazione dell’educazione superiore. Indubbiamente essa è collegata anche alla “battaglia delle idee”, ossia a quel processo lanciato dallo stesso Fidel Castro14, il quale consiste nel rintuzzare con la critica e con idee alternative, mostrando anche le sue contraddizioni interne, la concezione neoliberistica del mondo, le cui terribili conseguenze sono la strategia terroristica della “guerra preventiva”15. D’altra parte, l’universalizzazione risponde anche all’esigenza di inserire pienamente nella società cubana quei giovani e quegli adulti, che per una serie di ragioni, nonostante tutto, sono rimasti ai margini.
Come scrive Horruitiner (2006: 101; trad. mia): “Universalizzare la conoscenza significa facilitare senza limiti lo studio di tutti gli individui durante tutta la vita, con lo scopo di favorire l’impiego personale di essa, anche durante il tempo libero, che così viene dedicato alla cultura”.
Dopo una fase difficile dovuta al periodo especial (negli anni novanta), che vide la diminuzione degli studenti universitari, nel 2000 furono varati due nuovi programmi, il cui obiettivo era la formazione dei maestri della scuola primaria16, sotto il controllo delle università pedagogiche, e dei lavoratori sociali, ossia di coloro che operano nelle comunità individuando i vari problemi sociali, che toccano gli individui, allo scopo di dar loro una soluzione.
Anche la scuola secondaria fu trasformata e in particolare si decise di dar vita a un nuovo corso universitario che preparasse il Profesor General Integral, il quale educa non più di 15 alunni in tutte le materie (con l’esclusione dell’Inglese e della Educazione Fisica). Tale nuova figura permette lo sviluppo di un legame più stretto tra insegnante, alunno, la sua famiglia e la comunità. In questi condizioni dovrebbe essere più facile affrontare e risolvere le difficoltà individuali (Gómez Gutiéerrez, 2006: 12).
3. Universalizzazione dell’educazione
superiore
I risultati di questi programmi dettero impulso alla universalizzazione dell’educazione superiore, la quale si basa su questi presupposti:
Creare sedi universitarie in tutti i municipi per consentire al maggior numero di studenti l’accesso all’educazione superiore;
Conquistare allo studio il giovane;
Delineare un modello pedagogico, che stimoli il progresso e nel quale non vi siano l’insuccesso e la demotivazione (Horruitiner, 2006: 104-106).
L’universalizzazione trasforma l’università cubana, che diventa la universidad en el territorio, il cui obiettivo è educazione per tutti durante tutta la vita. Vengono create le SUM, ossia le sedi universitarie municipali collegate alle università centrali; attualmente esse sono 169 e sono collocate in edifici pubblici, che abbiamo le caratteristiche appropriate (come le scuole che sono tutte dotate di computer e televisione). Inoltre, esse debbono poter esser utilizzate nel pomeriggio e nella sera, perché durante il giorno sono sede di altre attività (come le biblioteche, i consultori medici, ospedali, uffici municipali).
Per spiegare come funzionano le SUM bisogna ricordare che in esse insegnano coloro che nel municipio hanno incarichi importanti, come il direttore dell’ospedale, i direttori dei complessi industriali, gli ingenieri, il medico della comunità, i professionisti lì residenti. In esse gli studenti studiano scienze pedagogiche, scienze umanistiche, economiche, tecniche, agrarie, salute e cultura fisica.
Inoltre, in esse sono stati inseriti quei giovani, che avevano fatto il Curso de Superacion Integral para Jóvenes, i quali non avevano avuto la possibilità di seguire gli studi superiori e in molti casi erano disoccupati (Horruitiner, 2006: 106-107).
Così all’università, cui si accede mediante esame di ingresso, si affianca un’altra università a cui si può accedere secondo criteri diversi ma non discriminatori, che si sposta là dove vivono i probabili studenti e che intende garantire i settori meno favoriti della popolazione. I dati recenti mostrano il successo di questa nuova strategia educativa (AA.VV., 2006: 11).
Le SUM hanno adottato un modello pedagogico, le cui caratteristiche riassumerò brevemente. Si tratta di un modello flessibile, che si adatta dunque alle diverse situazioni lavorative degli studenti, al loro ritmo di apprendimento e alle caratteristiche ambientali del municipio e alle sue peculiarità. Inoltre, esso è strutturato per favorire l’organizzazione e lo sviluppo del processo di apprendimento fino al termine degli studi secondo il ritmo normale previsto per ogni corso.
Un altro aspetto del modello pedagogico sta nel fatto che esso è centrato sullo studente per renderlo responsabile del suo stesso processo di formazione. Tratto questo necessario, giacché la presenza dei docenti è minore rispetto a quanto normalmente accade nelle università centrali. Naturalmente lo studente non è abbandonato a se stesso, giacché oltre allo studio indipendente sono previsti momenti di didattica frontale, il tutoraggio, incontri con il professore, attività pratiche e seminari di informatica. A tutto ciò bisogna aggiungere i servizi di informazione scientifico-tecnica e docente, i quali si basano sulla bibliografia disponibile, su strumenti audiovisivi utilizzabili mediante il computer e la televisione.
Infine, allo studente, che non riesce a seguire i ritmi del suo corso, è offerto un sostegno personalizzato, che tiene conto delle difficoltà e degli aspetti personali e lavorativi. Bisogna aggiungere che nelle SUM insegnano anche docenti delle università centrali, aiutati dalle loro facoltà e dipartimenti, che intervengono nella scelta degli insegnanti a tempo definito, nell’elaborazione dei metodi valutativi degli studenti e controllano un campione delle qualifiche attribuite (AA.VV., 2006:14-15). Naturalmente il collegamento con le università centrali costituisce una garanzia della qualità dell’insegnamento impartito nelle SUM.
Gli stessi organizzatori del processo di universalizzazione si rendono conto che la diffusione massiva della educazione superiore può produrre un abbassamento qualitativo dei suoi contenuti e, per questa ragione, tengono costantemente sotto osservazione tale processo e i suoi risultati. Non possiamo negare che questo pericolo effettivamente esiste, ma siamo anche consapevoli che, se si vuole democratizzare l’accesso ai saperi ed alle conoscenze, non possiamo evitare questo rischio, se non monitorando costantemente il sistema ed introducendo le trasformazioni necessarie al mantenimento e all’incremento della qualità.
Bibliografia
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Gómez Gutiérrez L. I. (Ministro de Educación), La universalización de la Educación Superior Pedagógica, L’Avana 2006.
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Note
* Docente Univ. “La Sapienza”, Roma.
1 Si può sicuramente affermare che la CRUI si è schierata contro la Moratti, nonostante la sua visione dell’università non fosse poi così distante da quella propria del governo Berlusconi, per guadagnarsi un ruolo centrale di rappresentanza ai danni del CUN (Consiglio universitario nazionale), cui tale ruolo spetterebbe per la sua stessa costituzione.
2 Dal referendum organizzato dai precari dell’Università di Pisa (non dalle autorità accademiche, come sarebbe doveroso) emerge che in essa operano 17 tipologie di ricercatori e docenti atipici e/o a tempo determinato. Si tratta di “centinaia di lavoratori che da un anno all’altro passano di contratto in contratto, accomunati dalla condizione di estrema precarietà e dalla mancanza di prospettive, vista la perdurante assenza di un’effettiva programmazione e di una seria politica di investimento da parte dell’ateneo” (Documento dei precari dell’Università di Pisa).
3 La condivisione del modello di società e quindi di università da parte del centro-destra e del centro-sinistra è messa in evidenza da un articolo apparso su “Europa”, quotidiano della Margherita, l’8 marzo 2006. In esso Gilberto Capano, uno dei professori ciecamente “riformisti” del centro-sinistra, scrive a proposito della Moratti: “Dal ministro manager ci saremmo aspettati molto, molto di più...Ovvero ci si aspettava quelle riforme “vere” incisive coraggiose che solo un grande politico sa fare...Niente, solo maquillage. Nulla che ricordi la coraggiosa lungimiranza di coraggiosi riformatori veri dell’università in altri paesi (pensiamo alla Gran Bretagna della Thatcher e a Tony Blair..)”.
4 A questo proposto vorrei citare Dal Lago, il quale così commenta l’introduzione dei crediti: “ E non parliamo di insensatezze - frutto evidente di pedagogismi velleitari - come il calcolo del tempo di studio degli studenti o la quantificazione burocratica delle varie attività” (2006).
5 In questo modo si evita il grave pericolo, indicato da Berlusconi durante la campagna elettorale, di far sì che il figlio di un operaio diventi indistinguibile dal figlio di un professionista. Come ho già ricordato in un’altra occasione anche il grande Adam Smith nutriva preoccupazioni simili e per questo suggeriva le caratteristiche che debbono avere le scuole per i poveri (Ciattini, 2004).
6 Come ho già detto, tale visione accomuna governo e opposizione. Nel programma dell’Unione, nella parte dedicata a università e ricerca, si può leggere che bisogna “...promuovere azioni a favore della ricerca industriale, sostenendo con provvedimenti opportuni l’occupazione di personale ad alta qualificazione, incentivando progetti di ricerca congiunti e confinanziati, prevedendo forme di deducibilità fiscale delle spese di ricerca ..., incentivando la nascita di nuove imprese attraverso strumenti fiscali, logistici e finanziari”. Ovviamente non siamo contro la ricerca industriale, vogliamo solo evidenziare che, nel contesto capitalistico, lo stretto vincolo università-impresa limita fortemente l’autonomia culturale e scientifica degli atenei.
7 Gli scopi effettivi di tale processo sono quelli di creare un sistema universitario a due livelli, che possa fornire così i lavoratori che eseguono e dirigenti, sancendo già nel momento dello studio il diverso ruolo sociale degli individui. Inoltre, le caratteristiche del sistema e l’utilizzazione dei crediti rendono possibile la comparazione tra la preparazione di lavoratori provenienti dai diversi paesi europei, facilitando la mobilità dei primi e le scelte compiute dalle imprese, le quali hanno così la possibilità di assumere il lavoratore più adatto ai loro obiettivi.
8 Vorrei ricordare che, in occasione di una recente riunione della CRUI all’Auditorium di Roma, cui è intervenuta anche la Moratti, gli studenti presenti gridavano questo slogan, ovviamente non recepito dai rettori né dalla ministra: “Se una riforma volete farla davvero, fateci studiare a costo zero!”.
9 Naturalmente questa affermazione ci spinge a fare un comparazione con il clima tanto diverso delle nostre università.
10 Che si richiama in particolare agli scritti di J.J. Rousseau e all’opera anche politica di W. Von Humboltd.
11 In Italia le università sono una settantina, un numero assai basso rispetto a Cuba, se si tiene conto del fatto che l’isola caraibica ha solo 11 milioni di abitanti.
12 Ciò non ha impedito, per esempio, alle varie istituzioni religiose, presenti a Cuba, di organizzare al loro interno corsi di educazione religiosa.
13 In tutti i casi era obbligatorio l’esame di Matematica; nel caso di corsi a carattere pedagogico era obbligatorio anche lo Spagnolo.
14 La Batalla de ideas non si può fare senza intraprendere la diffusione universale del sapere, i cui caratteri sono indicati dalle parole dello stesso Fidel:”Oggi vogliamo un sistema educativo, che si basi sempre più sull’eguaglianza, sulla giustizia piena e che sviluppi l’autostima, rispondendo alle esigenze morali e sociali dei cittadini” (in Gómez Gutiérrez, 2006: 10; trad. mia).
15 Ahimé nulla di nuovo sotto il sole. L’amministrazione statunitense parlava di guerra preventiva anche quando scatenò la guerra contro la Corea del nord negli anni cinquanta.
16 La necessità di aumentare il numero dei maestri della scuola primaria è determinata dalla decisione che ogni maestro deve seguire non più di venti alunni.