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Argentina: come viene organizzata la produzione e come vengono prese le decisioni nelle fabbriche autogestite dai lavoratori?

MAURIZIO ATZENI , PABLO GHIGLIANI

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Sommario In Argentina, a cavallo della crisi economica del 2001, circa 200 fabbriche sono state occupate dai lavoratori e rimesse in produzione. Questo articolo si occupa del processo di riorganizzazione del lavoro che ha fatto seguito all’occupazione della fabbrica, cercando di discuterne le conseguenze teoriche attraverso un lavoro di ricerca condotto di recente in quattro fabbriche autogestite dai lavoratori. L’atto di occupare una fabbrica, dà spazio al controllo della produzione da parte dei lavoratori e ad un sistema di decisioni più democratico e collettivo. Ma la necessità dei lavoratori di competere in un mercato tende a ridurre la sfera della decisione collettiva, portando ad una centralizzazione del potere e ad una divisione tra lavoratori addetti alla produzione ed alla direzione/amministrazione dell’impresa. Tutto ciò rende più difficile per i lavoratori la possibilità di un lavoro maggiormente arricchente, meno intenso e logorante.

1. Introduzione

“L’autogestione avrà successo? ‘Dalla risposta a questa domanda ... dipende il futuro dei lavoratori. Se fosse positiva, si aprirebbe un nuovo mondo per tutta l’umanità; se fosse negativa, il proletario può assumerlo come un dato di fatto ...non ci sarà speranza per lui in questo mondo ineguale’.”

Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Citato da Guerin in L’Anarchisme

Il tema dell’autogestione da parte dei lavoratori ha una lunga storia nell’ambito del pensiero sociale. Già nel XIX secolo, numerosi pensatori, sia riformisti che radicali, avevano promosso l’autogestione come la forma di organizzazione, espressione di tutto il potenziale del lavoratore come collettivo, che permetteva di produrre senza padroni. Per esempio, in Inghilterra sulla scia delle idee utopiche e del filantropismo di Robert Owen, dalla fine della decade del 1820 in avanti, si svilupparono associazioni produttive di lavoratori (Thompson 1963; Rule 1990). Pierre-Joseph Proudhon ritenne che l’elemento rivoluzionario del 1848 in Francia stesse nel proliferare di casi di autogestione (Guerin 1965; Sewell 1992). A sua volta, Marx, nel discorso inaugurale della prima internazionale nel 1864, presentò il movimento cooperativo come un trionfo dei principi dell’economia politica della classe lavoratrice (Marx 1864; Lebowitz 2003). Nel XX secolo, la diffusione dei consigli dei lavoratori durante le sommosse in Russia nel 1905 e ancor di più dopo la Rivoluzione del 1917 e il movimento di occupazioni delle fabbriche in Italia nel 1920, avrebbero dato vita ai cosidetti comunisti dei consigli, che teorizzarono l’auto-gestione da parte dei lavoratori come la condizione essenziale per superare il capitalismo (van der Linden 2004). Ulteriori impulsi teorici sono poi venuti come risultato delle esperienze di autogestione portate avanti in Yugoslavia dagli anni 50 fino alla fine degli anni 70 (Lebowitz 2006, Mandel 1970, Petras & Veltmeyer 2002). Dalla fine degli anni 60 e durante il decennio successivo, nel Regno Unito, simili discussioni hanno tenuto banco nel mondo accademico e politico, in particolare attraverso il lavoro dell’Institute for Workers Control (Coates & Topham 1970; Hyman 1974; Tomlinson 1980; Wajcman 1983). In Argentina, il recente movimento di occupazione delle fabbriche, che ha avuto origine in un contesto di recessione economica, elevati tassi di disoccupazione ed in presenza di una rivitalizzazione della mobilitazione sociale, ha richiamato l’attenzione di attivisti politici, giornalisti ed accademici (Ghigliani 2003; Lucita 2002; Magnani 2003; Martínez 2002; Martínez & Vocos 2002; Rebón 2004a, 2004b). Il problema che maggiormente viene menzionato quale ostacolo allo sviluppo delle recenti esperienze argentine (e non) di autogestione è quello della necessità di confrontarsi con un mercato. I lavoratori sono si stati capaci di liberarsi del padrone sia nella direzione e nel controllo della produzione che per quanto riguarda la proprietà dei prodotti del loro lavoro. Essi restano comunque obbligati a competere con altre imprese, ad adottare una logica di mercato, a vendere i propri prodotti ed a comprare le materie prime necessarie alla produzione in un ambito, quello del mercato capitalistico, che và al di fuori della loro capacità di controllo. Con maggior profondità teorica potremmo dire che se da un lato l’autogestione produce a livello della produzione l’eliminazione del capitale (personificato dal padrone) come mediatore tra il lavoratore e la sua forza di lavoro, dall’altro lato non riesce a liberarsi dal capitale come mediatore nel momento della circolazione. Riteniamo che per capire a fondo quanto l’esistenza di un mercato condizioni il processo di produzione e di decisione nelle fabbriche autogestite, sia necessario avere sempre presenti i due momenti che costituiscono la dinamica dell’economia capitalistica: produzione e circolazione. Pertanto in questo lavoro abbiamo sempre cercato di ricondurre i cambiamenti nel processo di lavoro e nella nuova organizzazione adottata dai lavoratori nelle fabbriche in autogestione innanzitutto all’esistenza di specifiche conditioni strutturali (la competizione con altre imprese, il livello tecnologico delle fabbriche, etc.) piuttosto che a fattori di natura soggettiva (es. una coscienza politica dei lavoratori). Sulla base di queste premesse, due sono le aree che maggiormente hanno attratto la nostra attenzione: come, quando, da chi e perché vengono prese le decisioni più importanti e come i lavoratori hanno riorganizzato la produzione una volta liberatisi del padrone? Prima di affrontare questi due temi nel dettaglio faremo una breve introduzione del contesto socio-politico dal quale sono emerse queste esperienze di auto-gestione.

2. Il contesto socio-economico

Non c’é un accordo diffuso sul numero attuale delle fabbriche auto-gestite. Diverse fonti danno diversi dati con il numero delle fabbriche oscillante tra le 161 (website www.lavaca.org, 2004) e 180 (Fajn 2004). Queste variazioni possono essere spiegate dal fatto che si possano essere aggiunte nuove occupazioni e dall’uso di criteri di selezione diversi tra loro. Le fabbriche occupano all’incirca 10000 lavoratori e sono concentrate geograficamente nelle principali aree industriali del paese, la maggioranza nella Grande Buenos Aires, ma comunque con casi distribuiti in tutto il paese. Quasi tutte queste fabbriche aderiscono a due organizzazioni politiche, che a loro volta riflettono due diverse visioni e approci all’auto-gestione: il Movimiento Nacional de Empresas Recuperadas (MNER) ed il Movimiento Nacional de Fábricas Recuperadas (MNFR). Un terzo gruppo di fabbriche fà parte di una associazione creata recentemente e che aderisce alla Central de Trabajadores Argentinos (CTA), la confederazione sindacale nazionale più progressista del paese. L’atteggiamento dello Stato ha oscillato tra la repressione e la tolleranza, a seconda dell’influenza politica esercitata degli ex proprietari e della forza delle alleanze politiche e sociali costruite dai lavoratori. Come conseguenza di questo, la situazione legale di molte fabbriche autogestite è ancora incerta. Comunque la maggior parte ha accettato di adottare la forma legale della cooperativa, dal momento che questa rappresentava l’unica maniera per poter legalmente operare come entità commerciale, anche se solo in via temporanea. Bisogna però ricordare che le fabbriche in questione non possono essere associate con le cooperative commerciali che tradizionalmente conosciamo e questo perché i lavoratori che ne fanno parte hanno fortemente radicata una cultura operaista e sono convinti assertori dell’autogestione. Resta comunque aperta la possibilità che un domani anche queste esperienze possano essere assimilate alle tradizionali forme di capitale cooperativo. Il processo di occupazione delle fabbriche non ha mai rappresentato una alternativa allo status quo, sia per la sua scarsa rilevanza economica che per essere contingente a momenti di crisi economiche. Infatti ha avuto origine da una azione difensiva contro la minaccia di una perdita del lavoro in un contesto di disoccupazione cavalcante. Comunque l’importanza del movimento trascende il semplice dato numerico. Non ci troviamo solo in presenza di un fenomeno potenzialmente ricco di dati utili per approfondire la conoscenza sull’organizzazione del lavoro e la democrazia nelle fabbriche, ma è anche il riflesso di uno dei diversi modi utilizzati dai lavoratori per mobilizzarsi contro le politiche neo-liberali adottate in Argentina durante gli anni 90 e per reagire alla crisi economica del 2001, esplosa con la ribellione del Dicembre 2001. Quando si verificò la maggior parte di queste occupazioni, sulla spinta della mobilizzazione sociale che fece seguito al Dicembre 2001, ai lavoratori erano rimaste poche alternative. Da un lato l’assenza di prospettive di lavoro e dall’altro lo stato di insolvenza e la fuga degli ex proprietari, forzarono i lavoratori ad occupare le loro fabbriche nell’estremo tentativo di evitare la povertà , e ciò facendo uso di quello che loro meglio sapevano fare: lavorare. La decisione improvvisa e spesso inattesa di occupare la fabbrica, le difficoltà quotidiane (dal bisogno di riavviare contatti con fornitori e clienti al compito di occuparsi della parte puramente amministrativa dell’impresa) ed il fine ultimo di invertire una relazione di subordinazione con una di responsabilità collettiva, hanno reso queste esperienze estremamente arricchenti per tutti coloro che ne sono stati partecipi. Questa ricerca, in particolare, è basata sull’esperienza di autogestione in 4 fabbriche della Provincia di Buenos Aires: Unión Papelera Platense (UPP, produzione di carta), Gráfica Patricios (Patricios, grafica), Cooperativa Unidos por el Calzado (CUC, calzature), Unión Solidaria de Trabajadores (UST, costruzione). Le fabbriche occupano rispettivamente 55, 30, 110 e 65 lavoratori. In ogni caso, il numero dei lavoratori è quasi raddoppiato dal momento in cui la produzione è ricominciata. In tutti i casi, tranne quello di Patricios, abbiamo comunque a che fare con situazioni di ritardo tecnologico, con macchine logore ed installazioni precarie. Le quattro fabbriche hanno adottato lo status della cooperativa come forma legale della proprietà . Questa è stata la condizione essenziale imposta alle fabbriche occupate per poter operare nel mercato, dal momento che una proposta alternativa, quella della nazionalizzazione con controllo operaio, sostenuta inizialmente da un gruppo di fabbriche, non ha avuto il sostegno politico da parte del governo. Ogni cooperativa ha un suo proprio statuto che stabilisce alcune regole fondamentali di convivenza e regola i diritti e le responsabilità dei singoli membri. L’assemblea generale ed un consiglio direttivo sono gli organi che normalmente e da un punto di vista formale prendono le decisioni. Nei primi tre casi l’occupazione è stata la conseguenza dello stato di insolvenza e della crisi economica dell’impresa, una situazione della quale i lavoratori erano le prime vittime, vantando crediti per migliaia di pesos ed il mancato pagamento dei contributi sociali. Comunque è necessario far presente che in tutte le fabbriche i lavoratori sono passati attraverso momenti di forte conflitto con gli ex proprietari, decisioni giudiziali sfavorevoli ed i tentativi di sgombero da parte della polizia. Queste circostanze hanno rafforzato la coesione interna di coloro che hanno partecipato al conflitto creando le condizioni per stabilire relazioni di solidarietà con la comunità circostante e con i lavoratori di altre fabbriche occupate. Tutte queste cooperative si trovano oggi, dopo la svalutazione della moneta nazionale, in una posizione favorevole sia perché l’economia ha ripreso a crescere che per l’espansione del mercato interno. 3. Come vengono prese le decisioni nelle fabbriche autogestite dai lavoratori?

In relazione al processo decisionale, le fabbriche studiate non si differenziano dal resto. L’assemblea è considerata come l’organo principale nel quale vengono prese le decisioni e l’istanza in cui ogni lavoratore può esprimere liberamente le proprie opinioni. Il consiglio direttivo, eletto dall’assemblea, è incaricato dell’amministrazione ordinaria, della rappresentanza legale e di compiti di natura più spiccatamente esecutiva. Durante le assemblee generali la discussione segue una lista di priorità che viene normalmente preparata da membri del consiglio direttivo e/o sulla base di suggerimenti e richieste presentate da singoli o da gruppi di lavoratori. In uno di questi incontri normalmente si può discutere e decidere su: problemi tecnici relativi alla produzione, vacanze e tempi di lavoro, investimenti per l’acquisto di nuovi macchinari o per la riparazione ed il mantenimento di quelli già esistenti, la distribuzione degli utili, l’assunzione di nuovi lavoratori, problemi di tipo legale, prospettive di mercato, lo sviluppo di nuovi prodotti, la partecipazione a manifestazioni ed eventi di solidarietà con altre realtà sociali in lotta. Le assemblee generali sono tenute ad intervalli regolari durante l’anno con un minimo stabilito dallo statuto di ogni fabbrica e con maggiore frequenza se si presentano temi di urgente importanza. Comunque in relazione a questo aspetto tra i casi studiati ci sono profonde differenze. Mentre la UST e la CUC si riuniscono in assemblea con maggiore frequenza, la UPP e Patricios ne organizzano solo alcune durante l’anno. Se questa differenza può essere, in parte, espressione di un maggiore o minore compromesso dei consigli direttivi con istanze di democrazia diretta dei lavoratori, è allo stesso tempo manifestazione dell’esistenza di pressioni strutturali. Sulla base di quanto detto dagli intervistati, nella UPP la durata della giornata di lavoro e la necessità di mantenere la linea di produzione costantemente in movimento, sono tra i fattori che rendono impossibile una maggiore frequenza delle riunioni. Nel caso di Patricios i ritmi ed i tempi di produzione sono in stretta relazione con le date di consegna stabilite dai clienti dell’impresa grafica. Queste condizioni rendono difficile la coordinazione tra i diversi turni e di conseguenza, una certa regolarità per le assemblee generali. Comunque, in questo caso, questa mancanza viene corretta da un efficiente sistema di rappresentanza all’interno del consiglio direttivo, composto da delegati di ogni settore. Dobbiamo comunque ricordare che, in tutti i casi, ai lavoratori è comunque garantita la possibilità di forzare il consiglio direttivo a chiamare ad assemblea generale, se anche solo un piccolo gruppo formula una richiesta in tal senso. Quindi, l’assenza di riunioni frequenti potrebbe anche apparire come dimostrazione di una apatia da parte dei lavoratori a partecipare ed eventualmente si potrebbe riflettere sul perché ciò accade. In sintesi, potremmo dire che, in ogni caso, la relazione tra i poteri e le prerogative del consiglio direttivo e la partecipazione diretta dei lavoratori attraverso le assemblee, dipende da diversi fattori, sia di natura soggettiva (come la presenza di rappresentanti naturali o il compromesso dei singoli lavoratori) ma soprattutto di natura oggettiva (come il tipo e l’organizzazione della produzione e le pressioni del mercato). Di conseguenza, l’esistenza di organi per rendere concreta la partecipazione e la democrazia nei luoghi di lavoro, se sicuramente aiuta a sviluppare migliori forme di comunicazione interna, non implica necessariamente una orizzontalità in tutto il processo decisionale. Una tensione costante sembra sempre presente tra la necessità di trasmettere informazioni e assumere decisioni collettivamente e la necessità di centralizzare gli stessi processi nelle mani di un numero limitato di lavoratori.

Come affermato paternalisticamente dal presidente della CUC al riferire sul bisogno di una certa autonomia nelle ‘decisioni esecutivé : ‘Io penso che sia importante che un consiglio direttivo abbia un suo spazio autonomo per le decisioni. Io ho dei compagni di lavoro nel consiglio direttivo che non possono prendere una decisione se il resto dei compagni in assemblea non ha deciso. E per me, in questo modo non funziona. Perché il consiglio direttivo deve prendere una decisione, i compagni hanno bisogno di credere in qualcuno che possa dirgli che cosa è corretto e che cosa no’ La ricerca del consenso e di un’ampia partecipazione è un elemento centrale in tutte le fabbriche ed i lavoratori, a livello di coordinazione e di produzione, sono fermamente compromessi con questa idea. Anche in quei casi in cui, come per Patricios e per la UPP, le chiamate ad assemblea generale sono meno frequenti, esistono comunque canali informali di comunicazione che permettono di far sentire la voce anche di chi maggiormente dipende dalla linea di produzione. Nell’estratto dell’ intervista sotto riportata, la persona responsabile per il marketing nell’impresa Patricios, dà un esempio dei momenti che costituiscono il processo informale di decisione e di comunicazione: ‘Quando trovo un nuovo cliente, mi devo poi occupare di gestirlo a livello interno, devo incontrarmi con persone di tutti i settori per spiegargli che cosa ci viene chiesto di produrre, in che quantità , di che qualità , e poi una volta che tutto ciò è stato spiegato controllare che effettivamente il lavoro venga portato a termine.....Non abbiamo ispettori, capi reparto, niente, quindi è come che certe funzioni sono delegate, sò chi è il responsabile di certe operazioni, diciamo che sò chi sono le persone di maggiore autorità ’ Resta comunque il fatto che le pressioni derivanti dalla mediazione del capitale nella sfera della circolazione (comprare il materiale, cercare nuovi clienti, competere con altre imprese), è ciò che nel concreto maggiormente ostacola la possibilità di costruire un consenso democratico. Questa non dovrebbe essere per niente una sorpresa, dal momento che il mercato in cui queste fabbriche si devono inserire non richiede consenso ma decisioni immediate. Ci saranno sempre ragioni ‘pratiché che influenzeranno la possibilità di adottare decisioni collettivamente e che interromperano uno scambio regolare di informazioni all’interno della fabbrica: il bisogno di mantenere un flusso costante di produzione, la consegna in un certo giorno di nuova produzione, una risposta rapida per non perdere un nuovo affare: ‘Abbiamo perso qualche opportunità per la nostra lentezza nel convincere le persone, perché talvolta c’é bisogno di convincere i compagni, non possono vedere l’affare......Qualche volta questa è la realtà , non c’é nessun affare nell’immediato ma una potenzialità a lungo terminé (CUC) Allo stesso tempo, maggiore la precarietà ed il salario percepito insufficiente a coprire i bisogni del lavoratore, maggiore la probabilità che gli sia impossibile partecipare attivamente: ‘Non abbiamo tempo. La nostra realtà è fatta di gente che vive lontano, la maggior parte vive lontano, e questo significa una o due ore di viaggio. Se non possono prendere il pullman per partecipare in una assemblea, tornano a casa molto tardi e questo ha poi delle conseguenze. E il tempo di produzione non è per la discussione.... (CUC) L’interferenza quotidiana di queste condizioni strutturali, soprattutto, l’inevitabilità della competizione nel mercato, producono insieme ad una riduzione dello spazio di decisione e condivisione collettivo, anche una separazione tra lavori di tipo manuale/produttivo e mentale/direttivo. Questa separazione, funzionale ad una ridistribuzione del lavoro all’interno del collettivo dei lavoratori che risulti efficiente sul mercato, tende a creare delle situazioni di fatto favorevoli allo sviluppo di una categoria speciale di lavoratori, una burocrazia funzionale potremmo dire. Ci sono poi anche aspetti culturali che contribuiscono ulteriormente a creare una distanza tra coloro che svolgono mansioni di tipo manuale e coloro che si occupano di organizzare, pianificare e vendere. In tal senso, una apatia o mancanza di partecipazione aprono le porte alle iniziative delle persone dotate di maggior carisma.

‘I compagni sono abituati a delegare, tendono a concentrarsi sul proprio lavoro e a non interferire con il resto dei problemi che riguardano la cooperativa nel suo insieme. Ecco perché bisogna educare i compagni, e qualche volta bisogna combattere con i compagni per convincerli a parteciparé (Murua - President of MNER). Paradossalmente, attraverso questo processo, quegli stessi lavoratori che sono in un certo senso responsabili per aver centralizzato il potere di un gruppo ridotto di loro e per aver rafforzato i personaggi con maggior carisma e autorità , possono implicitamente stabilire le loro relazioni con i membri del consiglio direttivo in una forma che ripete comportamenti tipici della natura antagonista delle relazioni di lavoro capitalistiche ‘Ci sono compagni che pensano ancora che stanno lavorando nella vecchia impresa, e ci vedono come i padroni. E a me questo proprio non piace, non sono il padrone, oggi sono la persona che li rappresenta, perché ci occupiamo dell’interesse di tutti. Noi siamo quelli che si sono battuti per loro, per fargli avere il lavoro, ma oggi per loro siamo come i capi, quelli che gli ordinano di lavoraré (UST). Questa situazione ha in certi casi raggiunto l’aneddotto: ‘Ce n’era uno che era solito rubare gli strumenti di lavoro... aveva mantenuto la stessa mentalità , con l’impresa aveva sempre rubato, naturalmente lo faceva con Techint (la vecchia impresa) per la quale questo non rappresentava un grande problema, e quindi ha poi seguito con lo stesso comportamento’ (UST) Specialmente quando le condizioni economiche peggiorano e le entrate dei lavoratori raggiungono a mala pena il livello di sussistenza, si accentua la tendenza ad identificare la posizione dei nuovi rappresentanti con quella dei vecchi padroni: ‘Mi fanno sentire questo (di essere il padrone), che ci sono 109 presidenti ed io sono l’unico che lavorà (Presidente della CUC) Comunque, questa tendenza a delegare e, di conseguenza, ridurre la sfera di partecipazione attiva, non significa una accettazione passiva di tutto ciò che il consiglio direttivo decide. Per quanto i casi di autorità e carisma naturale siano esistenti (sia a livello individuale che di gruppo), questi lavoratori restano sempre, anche se in forme diverse, sotto costante scrutinio. Ai lavoratori è riconosciuto un potere reale nel richiedere informazioni, pretendere l’organizzazione di riunioni e decidere collettivamente. Tutte le contraddizioni che abbiamo visto derivano dalla forma di proprietà in cooperativa. Da un lato, ci sono delle condizioni concrete, che riducono le opportunità per partecipare e, di conseguenza, incoraggiano l’apatia ed il trasferimento di quelle che dovrebbero essere responsabilità di tutti a chi ha maggiore autorità ed ai membri del consiglio direttivo. Dall’altro lato, la nuova atmosfera di libertà che beneficia i lavoratori delle fabbriche autogestite ed il loro genuino interesse nel benessere della fabbrica di cui adesso sono i proprietari, li legittimano a criticare coloro cui hanno delegato il compito di prendere certe decisioni e rappresentare l’intero collettivo. I problemi messi in evidenza in questa parte ci dovrebbero far pensare in termini più realistici al processo decisionale ed al livello di orizzontalità raggiunto dalle esperienze di autogestione (Fajn and Rebon 2005; Fernández Álvarez 2003). Comunque, la dinamica delle relazioni tra assemblee e consigli direttivi, la differenza tra lavoratori con incarichi direttivie e di linea, le inerenti ambiguità nel passaggio dei lavoratori dallo stato di subordinazione a quello di autogestione, ci dicono anche dell’ arricchente processo democratico vissuto dai lavoratori delle fabbriche in autogestione.

4. L’organizzazione del lavoro nell’autogestione

Come dimostrato anche da altri studi (Fajn & Rebón 2005; Fernández Álvarez 2003; Deledicque & Moser 2005; Deledicque et al. 2004), l’organizzazione del lavoro non è sostanzialmente cambiata nelle quattro unità produttive studiate. Inoltre, una diversa organizzazione della produzione e divisione del lavoro non appare neanche come possibilità o priorità esplicitamente identificata dai lavoratori. Certi studi (Antón & Rebón 2005; Fajn 2003; Fajn & Rebón 2005; Fernández Álvarez 2003, 2005; Rebón 2004a, 2004b) hanno ritenuto di riscontrare in questo fatto un indice di una insufficiente coscienza di classe; quindi, l’assenza di cambiamenti nell’organizzazione del lavoro viene considerata come una variabile dipendente dalla soggettività dei lavoratori. Al contrario, dai risultati della nostra ricerca emerge una realta dai più volti nella quale altri fattori sembrano essere determinanti del fenomeno. Il livello tecnologico è certamente il primo fattore che condiziona la capacità dei lavoratori di introdurre cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. Ciò accade, in particolare, quando i lavoratori non sono altro che semplici appendici di un processo di produzione automatizzato e continuo determinato dal tipo di macchinari a loro disposizione, come nel caso della UPP. Quando invece il lavoro sulla linea di produzione è eseguito attraverso l’uso combinato di macchine più semplici ed elementari, la cui operatività dipende dalla destrezza e dal mestiere del singolo lavoratore, e di macchine automatiche, possiamo notare l’introduzione di qualche piccolo cambiamento (così per esempio nel caso di Patricios e della CUC). Nel caso della UST, l’attività produttiva è costituita da un insieme di fasi tra loro autonome che dipendono dall’abilità dei lavoratori nell’uso di semplici strumenti; quindi il processo di produzione appare come risultato di una serie di azioni isolate. Ciò nonostante, in tutti i casi la divisione tecnica del lavoro non mostra particolari diffrenze con il precedente modo usato per organizzare la linea di produzione. L’altro fondamentale limite per sperimentare nuove forme di organizazione del lavoro viene dal mercato. Competere significa, innanzitutto, che indipendentemente dai desideri dei lavoratori, non rimane a queste imprese molto spazio per introdurre cambiamenti. Ci troviamo, in aggiunta, di fronte a casi di ritardo tecnologico che pongono queste imprese in una posizione particolarmente svantaggiata rispetto ai competitori nell’ambito del settore di mercato nel quale ciascuna opera. Di conseguenza, i lavoratori si trovano costretti a compensare questo svantaggio in diversi modi, per esempio risparmiando dall’eliminazione di posti di tipo direttivo, ma molto più spesso attraverso una intensificazione dei ritmi di lavoro (UPP e Patricios), in particolare durante i primi momenti di vita della nuova realtà produttiva, ma il più delle volte anche in seguito. Mentre per quanto riguarda la divisione tecnica del lavoro non sembra ci siano molti margini di innovazione, la rotazione potrebbe essere considerata come una alternativa, così da liberare i lavoratori dalla monotonia e ripetitività di certe mansioni. Però, in nessun caso studiato si è notata una politica in tal senso, e ciò in linea con quanto sostenuto da altri studi sul fenomeno, fatte salve le eccezioni di Zanon (ceramica), e in forma minore, Brukman (tessile) (Aiziczon 2006; Martínez 2002; Fernández Alvarez 2005). Ciò nonostante, gli intervistati sembrano d’accordo nel ritenere che sia utile imparare a svolgere nuove mansioni così da migliorare il proprio profilo di conoscenza dell’intero processo produttivo e poter facilmente sostituire altri compagni in caso di necessità . Sono molti i casi di lavoratori diventati capaci di svolgere più compiti o che hanno fatto esperienza al di fuori della linea di produzione (amministrazione, uffici vendita) ma restano, comuque, basati su iniziative individuali. Nel caso della UPP, per esempio, i lavoratori mettono in evidenza come esistano ostacoli naturali alla possibilità di introdurre una politica di rotazione e cambio di mansioni. La pressione del mercato limita o elimina del tutto la disponibilità di quel tempo necessario per imparare a svolgere le nuove mansioni e per trasferire non solo quella specifica conoscenza tecnologica, ma anche quell’esperienza pratica che aiuta nella risoluzione di quei problemi che quotidianamente si manifestano, soprattutto quando si è in presenza di macchine vecchie e non perfettamente funzionanti. Quindi, i lavoratori ritengono la rotazione importante ma per il momento non praticabile. Resistenze alla rotazione sembrano invece arrivare, anche se i risultati in tal senso non sono definitivi, dai lavoratori specializzati, che normalmente occupano un ruolo di primo piano nelle cooperative che abbiamo studiato. Un esempio tipico è quello di Patricios, dove i macchinisti sono, di fatto, coloro che decidono i tempi di lavoro e la velocità della linea coordinando diverse fasi dell’attività produttiva, o il caso della CUC, dove il numero di coloro in possesso di una conoscenza di tipo più artigianale è scarso e il loro status, di consequenza, particolarmente importante. Nonostante si possa notare certa continuità con la precedente gestione, almeno per quanto riguarda cambi al sistema di organizzazione del lavoro e distribuzione delle mansioni, vi sono altre aree che l’autogestione ha profondamente trasformato. Probabilmente il risultato più sorprendente della ricerca si riferisce alla natura della coordinazione all’interno del processo di produzione. Se da un lato è possibile identificare posizioni e posti chiave nella catena produttiva, che danno un potere di fatto a coloro che li detengono (come nel caso visto sopra dei macchinisti di Patricios), il carattere che maggiormente domina è quello di una decentralizzazione del potere decisionale per quanto riguarda i problemi di natura tecnica. I lavoratori comunicano tra di loro attraverso canali informali durante tutte le fasi del processo di produzione. La cooperazione sembra essere l’aspetto più dominante. Questo naturalmente non significa che non ci siano conflitti e non sorgano problemi all’interno e tra i diversi gruppi di lavoro. È proprio vero il contrario e l’assenza di una politica che favorisca la rotazione aumenta la possibilità dei lavoratori di riconoscersi come appartenenti a piccoli gruppi piuttosto che ad un collettivo. Comunque possiamo sostenere che la cooperazione prevale nella maggior parte delle occasioni. Un’altra trasformazione fondamentale è rappresentato dalla decisione di eliminare le funzioni di vigilanza e gestione e, quindi, l’intero sistema di controllo precedentemente esistente. Di conseguenza, nelle fabbriche la disciplina appare decisamente meno rigida. In assenza di un apparato disciplinario verticale (dal padrone passando per il direttore, il caposezione, reparto, etc..), la regolarità del processo di produzione viene garantita da un sistema di responsabilità individuale: ‘Attualmente c’é una mancanza di auto disciplina. Abbiamo un regolamento interno ma cerchiamo sempre di non creare un conflitto o che qualcuno se ne debba andare per un problema di condotta......il potenziale di questa fabbrica verrà fuori completamente quando tutti capiranno che al momento della produzione ciascuno deve fare il suo, così da trasformare la materia prima in un prodotto finito’ (CUC). L’insistenza su una mentalità fondata sulla responsabilità individuale svolge anche la funzione di garantire un prodotto di qualità : ‘Non c’é un controllo di qualità , ogni persona fa il suo proprio controllo di qualità ed il compagno che segue nella linea, la persona che riceve la scarpa, deve rimandarla indietro se scopre che non è stata confezionata nel modo appropriato. Si sta ancora lavorando su questo tema. La scarpa non può passare, deve tornare indietro, e se riusciamo a raggiungere questo obiettivo, è un qualcosa di importante in prospettiva futurà (CUC). ‘Facciamo il controllo di qualità durante tutte le fasi della produzione, ogni persona ha la responsabilità per il lavoro che sta facendo ma guarda anche a quello degli altri’ (Patricios). Però l’ideale di una responsabilità condivisa entra in conflitto con condotte individuali che evadono dal rispetto delle regole comuni. Questa situazione ha giustificato, anche per le esperienze più radicali, l’adozione in un regolamento interno: ‘Abbiamo dovuto introdurre un sistema di regole interno altrimenti ci trovavamo con casi di gente che arrivava alle otto e un quarto, e così non và . Non avremmo dovuto aver bisogno di un codice interno se tutti avessero fatto quello che gli spettava, abbiamo tutti la stessa responsabilità , ma alla fine abbiamo dovuto introdurre questo codice perché ci sono dei compagni che non fanno quello che dovrebbero faré . (UST) Il precedente sistema di controllo è stato quindi sostituito con un regolamento discusso e approvato in assemblea. Fondamentalmente, il regolamento si occupa di casi di assenteismo, conflitti tra compagni di lavoro riguardo ai tempi e ai metodi di produzione, casi di condotta (furto). Certe forme di incentivo economico sono state comunque mantenute o reintrodotte nei casi in cui l’assenteismo ha minacciato di diventare un problema. Nel caso della UPP, per esempio, il problema delle assenze ingiustificate è stato discusso dall’insieme dei lavoratori in assemblea ed è stato considerato come un indice di mancanza di compromesso individuale. Nell’insieme, comunque, la soluzione al problema è stata vista nel mettere in relazione il comportamento del singolo con un miglioramento delle condizioni salariali: ‘Devono capire che ogni chilo che viene prodotto si trasforma in denaro per la cooperativa, soldi che non sono per il padrone ma per essere distribuiti tra tutti noi’ (UPP). ‘C’è una specie di responsabilità naturale, che ha a che fare con il modo in cui un lavoro deve essere eseguito e che i più anziani, quelli con molti anni di lavoro alle spalle, che sono abituati a lavorare ed a rispettare i tempi di lavoro, trasferiscono ai nuovi arrivati. I più giovani che non hanno mai lavorato si adattano al sistema. Si adattano perché noi non li sfuttiamo, gli abbiamo promesso una certa quantità di denaro che aumenta progressivamente e questo è l’incentivo perché facciano bene il loro lavoro. Ma non c’è disciplina, c’è, piuttosto, autodisciplinà (UPP). Una conseguenza evidente dell’assenza di un vero e proprio sistema disciplinare di controllo, è stata la tendenza, almeno nei casi di CUC, Patricios e UST, e rallentare i ritmi di lavoro. L’eccezione è rappresentata dalla UPP, dove questo non si nota, in parte dovuto a questioni di livello tecnologico. Se da un lato è più ‘facile’ e si lavora più comodamente, l’altro lato della moneta è rappresentato dal fatto che per raggiungere i livelli di produzione imposti dal mercato, i lavoratori, se necessario, allungano la giornata di lavoro. Nella UPP, dove le macchine non si possono fermare, la giornata di lavoro è di 12 ore così da evitare con l’introduzione di un nuovo turno l’assunzione di nuovo personale. Nel caso di Patricios, per esempio, lavorano durante i fine settimana, dato che sono obbligati a rispettare i tempi imposti loro dal fatto di stampare per giornali e riviste, che per loro natura hanno tempi molto ristretti. In entrambi i casi si cerca comunque di compensare con ritmi di produzione più blandi. Nonostante la pressione del mercato imponga più lavoro, i lavoratori comunque sostengono che l’atmosfera sul posto di lavoro è completamente cambiata da quando sono state eliminate le funzioni di direzione e sorveglianza. Quello che viene riconosciuto come il valore più importante è la libertà che hanno di muoversi liberamente in tutta la fabbrica, avere dei periodi di riposo più lunghi, e poter parlare con i compagni senza correre il rischio di venire sanzionati. ‘Prima non potevo andare nella parte di stampa senza una ragione precisa, e il capo sezione mi diceva che lì non potevo stare e che dovevo ritornare al mio posto. E lo stesso succedeva con i compagni della sezioni di stampa quando venivano da questa parte. Così , in questo modo potevano mantenerci divisi e, visto che ci era impossibile comunicare, creavano delle false rivalità (Patricios). Una delle cose da segnalare è stata la drastica riduzione nel numero del personale occupato in funzioni amministrative. Questa è stata in parte conseguenza dell’atteggiamento degli impiegati che non hanno partecipato all’occupazione della fabbrica. Questo esodo spontaneo ha avvantaggiato le imprese autogestite costituendosi in una fonte di risparmio importante, aumentando così la competitività della cooperativa e controbilanciando il ritardo nella produttività . Quindi le funzioni amministrative sono normalmente svolte da due o tre lavoratori insieme con i membri del consiglio direttivo. Per molti di coloro che erano addetti alla produzione, assumere incarichi amministrativi è stata proprio una sfida. Data l’assenza di rotazione, la divisione tra mansioni amministrative e manuali è rimasta. Ma ci sono anche elementi culturali che contribuiscono a mantenere questa divisione. Ci sono pregiudizi tra i lavoratori addetti alla produzione nei confronti di chi si occupa dell’amministrazione. Quindi chi lavora in produzione tende a non considerare importante il lavoro di chi sta in amministrazione. E chi invece adesso si occupa di amministrazione critica questo atteggiamento dei compagni: ‘Molti di quelli che sono in produzione pensano - quelli che stanno in amministrazione sono lì solo per scaldare le sedie’ - ma non è così , devi rispondere al telefono, preparare documenti... Anche io pensavo lo stesso, glielo dico sempre ai compagni, e si mettono a ridere, ma adesso sò quanto sia difficile’ (CUC). Questa divisione tra lavoratori di produzione e di amministrazione è accentuata dal fatto che i primi normalmente rifiutano di svolgere mansioni amministrative: Domanda: alla gente piace lavorare in amministrazione o per loro è meglio stare dietro a una macchina? Risposta: l’amministrazione rappresenta un problema, nessuno di noi aveva svolto in precedenza lo stesso lavoro. Il tesoriere in realtà ha un altro lavoro in produzione e molte volte lo abbiamo dovuto obbligare a rimanere, perché voleva andare a lavorare con la macchina, non voleva saperne più niente di numeri. È un tema delicato, e nessuno se ne vuole occupare, il tesoriere si trova in quel posto per pura coincidenzà (Patricios). Nonostante questi problemi, l’esperienza dell’autogestione obbliga il collettivo dei lavoratori a farsi carico delle funzioni amministrative e commerciali: si devono trasformare in venditori di ciò che essi stessi producono, trovare nuovi mercati, mantenere relazioni commerciali con clienti e fornitori, pubblicizzare i prodotti, utilizzare il sistema bancario, mantenere la contabilità , e via dicendo. In una parola, i lavoratori devono imparare a destreggiarsi tra gli innumerevoli problemi che derivano dalla sfera di circolazione del capitale. Tutto ciò tende a consolidare la divisione tra addetti alla produzione e all’amministrazione e questi ultimi, immersi nel loro nuovo lavoro, più degli altri sembrano maggiormente disposti ad adottare un pragmatismo commerciale. Prima di concludere questa parte, vorremmo fare riferimento a come gli introiti prodotti dall’ impresa vengono ridistribuiti. La regola è che tutti, indipendentemente dalla funzione o dalla specializzazione, devono ricevere lo stesso salario, sia quello settimanale o mensile. Questa decisione ha aiutato i lavoratori a rafforzare la cooperazione, nonostante l’assenza di cambiamenti sostanziali nel processo di produzione. Quindi in tutti i casi le categorie salariali sono state abolite, anche se, come sopra menzionato, sono stati mantenuti degli incentivi. A fine anno, inoltre, dopo aver deciso su nuovi investimenti, le cooperative redistribuiscono equamente gli utili rimasti. La regola che tutti guadagnano in parti uguali è , comunque, oggetto di discussione e ci si domanda se non sia più corretto re-introdurre delle differenze che premino la specializzazione, le maggiori responsabilità o dedizione, e via dicendo. In ogni caso, queste decisioni fondamentali devono essere adottate in assemblea, che è , probabilmente, il segno più evidente di quanto lontane siano queste cooperative dai casi tradizionali che conosciamo, senza parlare delle tipiche imprese capitaliste.

5. Conclusioni

Il principale scopo di questo lavoro è quello di identificare elementi di cambiamento nell’organizzazione della produzione e nel sistema decisionale all’interno delle fabbriche recuperate dai lavoratori e da loro rimesse a produrre. Al contrario dell’opinione dominante, che per spiegare l’esistenza di una continuità con il sistema precedente fa leva su spiegazioni di tipo soggettivo, questo lavoro ha invece cercato di svelare quali siano i limiti imposti dal mercato alle esperienze di autogestione. L’occupazione delle fabbriche ed il loro funzionamento con controllo operaio, produce una serie di cambiamenti/adattamenti nella sfera della produzione. L’assenza del capitalista, della gerarchia, di livelli di gestione intermedi e di forme di controllo diretto, eliminano il capitale dalla sfera di produzione e lasciano spazio alla libera azione dei lavoratori. Questa si orienta alla costruzione di un sistema di decisioni più democratico, egualitario e partecipativo a tutti i livelli, enfatizzato dal ruolo centrale assegnato all’assemblea e reso emblematico dalla ridistribuzione dell’ingresso in parti uguali. Una volta che il collettivo dei lavoratori si confronta con il mercato, quegli spazi di autonomia e controllo guadagnati dai lavoratori dopo l’espulsione del capitale dalla sfera della produzione, tendono a ridursi. Il bisogno di assumere decisioni in tempo rapido, di andare alla ricerca di nuovi clienti, di dedidere su investimenti strategici, e, in sintesi, la necessità di entrare in competizione con altre imprese nella sfera della circolazione del capitale, ha conseguenze immediate sia su come vengono prese le decisioni che su come viene organizzata la produzione. In relazione al primo aspetto, possiamo vedere una tendenza a ridurre lo spazio di decisione collettiva e come conseguenza una separazione tra lavoro di produzione e di amministrazione/direzione. Per quanto riguarda il secondo aspetto, la mancanza di un capitale iniziale, le macchine obsolete e la pressione della concorrenza, rendono difficile per i lavoratori imparare e dedicarsi a nuove mansioni, evitare l’auto sfruttamento, o ridurre l’intensità e la lunghezza della giornata di lavoro. La contrapposizione tra l’auto determinazione dei lavoratori nella sfera della produzione e la logica capitalistica nella sfera della circolazione, produce situazioni di conflitto in tempi e forma che variano a seconda dei casi. I consigli direttivi possono essere sempre messi in discussione nonostante esistano condizioni materiali (per esempio, l’impossibilità di fermare la produzione) e soggettive (persone dotate di particolare carisma o l’attaccamento alle vecchie abitudini del lavoro subordinato) che favoriscono l’accentramento del potere nelle mani di pochi. Ciò nonostante, nell’insieme il processo di occupazione e l’inizio della produzione in autogestione hanno reso protagonisti i lavoratori attribuendogli maggiore potere e fiducia in sé stessi. Riteniamo che, mettendo in evidenza gli ostacoli di tipo strutturale ed andando alla ricerca di come ciò si esprime nella pratica e nei comportamenti quotidiani dei lavoratori, si possa perfezionare la conoscenza di questo particolare processo sociale e partecipare con maggiore informazione al dibattito in prospettiva militante.

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note

* Prof. De Montfort University-Labouragain.

** Prof. Universidad de La Plata-Labouragain.