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Sabino Venezia
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Il neoliberismo europeo trasforma il diritto alla salute in precarietà del vivere.

Sabino Venezia

Dalla salute come diritto alla salute come merce

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Il presente documento è stato presentato al congresso generale che la Federazione Sanità (FESAN) della CGT Spagnola ha organizzato a Saragoza nei giorni 5 e 6 Maggio del corrente anno ed al quale sono state invitate, oltre all’RdB/CUB, alcune organizzazioni di base europee. Tema centrale del confronto è stato il processo di trasformazione liberista del modello sanitario ed assistenziale nei paesi europei e la conseguente deregolamentazione del rapporto di lavoro degli operatori sanitari con particolare riferimento al comune problema del precariato. Il presente documento rappresenta la traccia storico-cronologica che abbiamo seguito per ricostruire fasi ed eventi della trasformazione del servizio sanitario nazionale italiano, storia che, già sapevamo, si “sovrappone” quasi completamente con la recente storia degli altri paesi UE.

1. Dalla salute come diritto alla salute come merce Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in Italia viene profondamente riformato a seguito delle lotte sociali degli anni ’60-’70, con la legge 833/78. Da un sistema di tipo privatistico, che vede nelle Mutue e negli Enti ecclesiastici i principali soggetti erogatori, si arriva alla conquista di un sistema i cui princìpi cardine sono la garanzia, per tutti e tutte, di avere diritto, in tema di salute, alla prevenzione, alla cura e alla riabilitazione, in piena attuazione, cioè, dell’art. 32 della Costituzione italiana. Una legge, quindi, che parte dai bisogni della popolazione, rispetto ai quali lo Stato si fa garante, senza delegare nulla a soggetti terzi. Il Fondo Sanitario Nazionale (FSN) dava copertura all’intero fabbisogno di cure della popolazione. Le strutture sanitarie private erano integrative del SSN e potevano erogare servizi e prestazioni solo in regime di convenzione. Il primo sconvolgimento avviene nel 1992 con la legge 502 e le successive modifiche, attraverso la quale si sancisce (in attuazione del trattato di Maastricht che impone la riduzione del debito pubblico) il principio attraverso il quale il bisogno di salute della popolazione viene subordinato a criteri economicistici: 1. il FSN diventa, quindi, compatibile con la spesa pubblica; 2. il nuovo SSN viene finanziato con una quota capitaria per ogni cittadino residente (Legge Finanziaria); 3. il privato viene parificato al pubblico. La successiva strategia di trasformazione della sanità fa perno su 3 elementi strutturali: 1. la regionalizzazione della sanità le politiche fiscali e sociali vengono allontanate dal governo centrale e demandate a quello locale - regionale - con il rischio di creare 21 Servizi Sanitari Regionali (SSR), diversi non per le diverse necessità di bisogno, ma per le diverse possibilità di bilancio. Allo Stato resta la possibilità di verificare: il riequilibrio territoriale delle condizioni sanitarie della popolazione ed i livelli uniformi di assistenza su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo principale, la riduzione della spesa sanitaria, si attua:
  attraverso la riduzione del FSN di cui il Governo destinava una quota alle Regioni;
  con il federalismo fiscale che pone le Regioni nella condizione di imporre nuove tasse da utilizzare per i bisogni di salute. 2. riguardo l’aziendalizzazione delle Unità Sanitarie Locali (USL) nell’ottica di smantellamento del SSN, un ulteriore attacco viene sferrato nei confronti delle strutture sanitarie di base (USL) che, pur conservando lo status di “personalità giuridica pubblica”, acquisiscono autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica. Al vertice di queste nuove aziende “simil-private”, viene posto un Direttore Generale con esperienza manageriale maturata in Aziende e/o imprese Private, non necessariamente in campo sanitario, con ampi poteri e responsabile dell’andamento economico della nuova “impresa”. Il tutto nasconde altresì la possibilità da parte delle “neonate aziende” di accesso a finanziamenti da privati; 3. dal finanziamento pubblico al capitale delle assicurazioni e dei privati nella legge di riforma si introduce il concetto di “forme differenziate di assistenza” riabilitando le mutue e le assicurazioni private che con le Regioni possono dar vita a “società miste con capitale pubblico e privato”. Di notevole importanza, in questa fase del processo di privatizzazione, è l’inserimento della possibilità per il singolo medico, ma a breve anche per gli altri professionisti della sanità (Infermieri, Ostetriche ecc.) di effettuare “prestazioni intramoenia” (a pagamento diretto, con quota riservata all’Azienda pubblica); quella che viene definita una strategia operativa per la risoluzione dell’annoso problema delle liste d’attesa per ricoveri e prestazioni (il 62,8 % degli intervistati dal CENSIS lo individua come il più grave problema della sanità pubblica). La risultante di tale processo sarà l’aver ridisegnato un SSN differenziato solo dalla capacità economica del soggetto che necessita della prestazione, attuando una vera e propria selezione sulla base del reddito fra i/le cittadini/e per accedere ai servizi. Nel corso degli anni successivi assistiamo ad un tendenziale rallentamento di questo processo anche a giustificazione della necessità che venga “assorbito” come elemento culturale. Il periodo è caratterizzato da una fase di sperimentazione dei modelli attuativi, anche diversificati a seconda delle Regioni e quindi delle capacità economiche, ma pur sempre nel segno delle politiche liberiste e federaliste più avanzate.

2. La riforma TER

In un quadro di liberismo piuttosto sfrenato giunge, quasi inattesa, la Riforma TER (decreto legislativo 229/99), la quale, pur tra mille contraddizioni, rappresenta un momento di ripensamento rispetto alle politiche precedenti che trasformavano sempre più la salute in una merce e le politiche sanitarie in uno strumento finanziario per il risanamento del debito pubblico del Paese, attraverso le politiche di apertura alla sussidiarietà e dei tagli. Due i punti che rompono, in particolare, con le logiche precedenti e che caratterizzano positivamente la riforma: 1. il recupero dei presupposti fondamentali della 833/78, attraverso la riaffermazione del principio universalistico del diritto alla salute, con più poteri ai Comuni ed ai Distretti Territoriali Pubblici. Contemporaneamente introduce, per la prima volta in Italia, il concetto di rapporto esclusivo di lavoro per i medici, anche se prevede l’utilizzo delle strutture pubbliche per la cosiddetta libera professione intramuraria; 2. il varo, in contemporanea alla Riforma, del Piano Sanitario Nazionale, che riafferma il ruolo del SSN come strumento per soddisfare il bisogno di salute dei/ delle cittadini/e. Purtroppo contestualmente viene anche approvata, dal Parlamento, la riforma fiscale in senso federalista, la quale prevede, nell’arco di pochi anni, il superamento del FSN che di fatto produrrà un finanziamento differenziato su base regionale della spesa sanitaria. Il Ministro (Rosy Bindi) artefice della Riforma viene isolata all’interno del Governo (centro-sinistra) e sostituita con colui che, in quanto tecnico (Prof. Veronesi) viene presentato come super-partes. In realtà il nuovo Ministro, in quanto Dirigente di spicco dell’Istituto Oncologico Europeo di Milano - struttura privata finanziata a vario titolo con soldi pubblici - è portatore di una cultura e di interessi specifici e, da qui riparte un nuovo attacco all’unicità del SSN che si impernia sul principio della sussidiarietà, il privato fornirà i servizi che riterrà più remunerativi lasciando al pubblico tutto ciò che a lui non conviene affrontare in termini economici.

3. La fase attuale

Negli ultimi anni, con il varo del governo di centro-destra, abbiamo assistito ad una accelerazione dei processi di smantellamento del SSN. Il “decreto taglia spesa” e la normativa sui “Livelli di Assistenza” (LEA), incentrano, dapprima, il nuovo governo su una politica di tagli:
  tagli di posti letto con una riduzione della percentuale di p.l. per acuti (già obiettivo del precedente governo che aveva chiuso gli ospedali con meno di 120 p.l.), si attua con la chiusura del 20% circa di letti negli Ospedali pubblici; Già tra il 1995 e il 2000 in Italia sono stati chiusi il 50% dei letti nel pubblico;
  riduzione dei LEA viene riformulata la lista delle prestazioni ammesse a convenzione e tra queste non figurano più alcune prestazioni riabilitative. Successivamente, pur non interrompendo il processo di affidamento al privato dei ruoli e delle funzioni del sistema sanitario pubblico, si sviluppa nel paese un processo di “internalizzazione” del privato nel pubblico; si rende così compatibile il ruolo del capitale privato con il principio, richiesto dai cittadini e dalle cittadine, della sopravvivenza del servizio pubblico come unico garante del bene salute. Nel concreto vengono gestiti, da società e/o cooperative private, dapprima servizi non direttamente riguardanti i malati - anche grazie ad accordi sottoscritti tra il Governo e le Organizzazioni Sindacali Confederali - ma successivamente l’offerta riguarderà anche molti servizi di assistenza, dalle radiologie ai laboratori di analisi o alle sale operatorie. In un quadro economico disastrato - con l’ECOFIN a guardia dei processi di riduzione della spesa - e a privatizzazioni ormai avviate, il sistema politico individua svariati strumenti volti a garantire l’economicità del sistema sanitario. È in questa fase che si accentua il ricorso al privato: interi servizi vengono immessi sul mercato al peggiore offerente cioè a disposizione di quel privato che più di altri riuscirà a garantire le stesse prestazioni con il minor costo. Già in una analisi della metà degli anni ‘90 questa organizzazione sindacale aveva individuato l’unico elemento attraverso il quale il privato avrebbe potuto garantire un minor prezzo delle prestazioni: sfruttando i lavoratori e le lavoratrici. Oggi questo ha ormai un nome: processo liberista, e corrisponde all’insieme dei processi di esternalizzazione e precarizzazione del rapporto di lavoro attraverso i quali non solo non si è attuato il tanto atteso risparmio economico, ma si è addirittura ridotto, in termini numerici e di qualità, il livello delle prestazioni sanitarie erogate dal servizio pubblico. Al pari dell’intervento diretto sul processo lavorativo (esternalizzazione - precarizzazione) che, vedremo, ha favorito e predisposto lo sviluppo delle politiche europee (direttiva Bolkestein), anche il problema della finanziarizzazione del sistema sanitario pubblico ha assunto valore di priorità nel paese. Il processo di finanziarizzazione si sviluppa su due direttrici: 1. da un lato la partecipazione diretta del cittadino alla spesa sanitaria, attraverso i ticket sui farmaci o sulle prestazioni, a volte anche di pronto soccorso, 2. dall’altro attraverso l’ingresso del capitale privato nel sistema. In questo caso, spesso con interventi a macchia di leopardo ed in un contesto legislativo di riferimento pressochè assente o datato, alcuni sistemi regionali hanno favorito il processo di cartolarizzazione, hanno cioè svenduto gli immobili, che spesso ospitano prestigiosi e storici ospedali, a società per azioni delle quali il governo regionale detiene il pacchetto di maggioranza e che comprende anche gruppi bancari e privati (sovente imprenditori della sanità privata). Questa manovra ha determinato liquidità economica immediata, comunque insufficiente a ripianare il deficit delle strutture sanitarie, lasciando ampi margini di manovra in termini di investimento e conseguentemente di profitto. A questo si è aggiunta l’istituzione di Fondazioni sanitarie: industrie farmaceutiche, gruppi assicurativi, banche e/o grandi speculatori possono intervenire con il proprio capitale (oltre quello dello Stato) a finanziare un sistema che offre servizi di assistenza ma, anche, ricerca e formazione; è il caso di uno dei più importanti Policlinici Universitari di Roma, che è ormai Fondazione e che ha un preciso consiglio di amministrazione integrato da soggetti privati. La rappresentazione più evidente di ingresso del capitale privato resta comunque quella del PROJECT FINANCE, (ad oggi tale sistema non ha nemmeno trovato un nome italiano, figuriamoci un sistema legislativo di riferimento), e consiste nella compartecipazione del privato alla realizzazione/ristrutturazione dell’ospedale pubblico, che naturalmente di pubblico avrà solo il nome visto che, chi investe per la sua realizzazione potrà avere in gestione interi servizi (dai parcheggi alla gestione della pubblicità, dai servizi di vigilanza alla mensa o, come sta accadendo in un Ospedale romano, le prestazioni sanitarie di medicina nucleare per la diagnosi e la terapia delle neoplasie); alcuni ospedali nel paese sono già stati realizzati in questo modo e molti altri lo saranno a breve (Venezia), con il risultato che i cittadini e le cittadine entreranno nell’ospedale pubblico e saranno curati in strutture completamente private alle quali il sistema pubblico risarcirà la spesa. A conclusione di questo breve resoconto dello stato del servizio sanitario pubblico e prima di occuparci nello specifico del precariato in sanità, vanno comunque ricordate alcune cose. L’attuale sistema, e lo sviluppo che questo avrà nonostante l’imminente governo di centro-sinistra, è stato e sarà realizzabile solo in considerazione di un progressivo affermarsi di un quadro legislativo che ha permesso e permetterà la dequalificazione costante del sistema pubblico, attraverso:
  il blocco delle assunzioni,
  la precarizzazione del rapporto di lavoro,
  la deregolamentazione del rapporto di lavoro per i lavoratori stabili,
  l’esternalizzazione di alcuni servizi,
  la riduzione dei posti letto,
  lo smantellamento dei servizi sul territorio (consultori, dipartimenti di salute mentale, dipartimenti materno-infantili).

4. Precarietà

I precari in Italia (Fonte ISTAT 2002) sono oltre 2,5 milioni (co.co.co e co.co.pro: 1.177.000; coll.occasionali: 106.000; coll. con partita IVA 311.000; contratto di somministrazione - ex interinali -: 502.000; associati in partecipazione: 400.000). Se a queste cifre aggiungiamo i contratti a tempo determinato, il numero di lavoratori e lavoratrici precari arriva a 4 milioni. Il processo liberista in Italia, come nel resto d’Europa, è caratterizzato dall’esplosione del fenomeno della precarietà, della flessibilità e della deregolamentazione del rapporto di lavoro, spinti ormai ad un livello tale che non è azzardato parlare di vera e propria precarizzazione della vita (fenomeno, questo, ben compreso dagli studenti, soprattutto in Francia). I Governi che si sono susseguiti negli ultimi 15 anni hanno prodotto leggi e regolamenti funzionali al nuovo modello di lavoro (“pacchetto Treu”/’94; Legge 30/03). La riduzione dei servizi della pubblica Amministrazione ha prodotto una riorganizzazione interna con conseguente:
  riduzione delle piante organiche,
  aumento generalizzato dei carichi di lavoro,
  blocco delle carriere,
  disconoscimento delle mansioni superiori,
  blocco delle assunzioni del personale; contemporaneamente ha prodotto una generale precarizzazione del lavoro pubblico, grazie all’introduzione di contratti atipici che negli ultimi anni hanno prepotentemente interessato la P.A., fino a rappresentarne la forma privilegiata, se non esclusiva, di accesso al mondo del lavoro. Tra il 2001 e il 2003 la P.A. ha ridotto i suoi organici di 30.000 persone e questo è stato parzialmente compensato dall’introduzione dei precari. La politica di contenimento e riduzione dei dipendenti pubblici è praticata in Italia attraverso incentivi al prepensionamento e il parallelo blocco delle assunzioni proclamato nel 2003 ed in vigore fino al 2007. Coloro che vanno in pensione non vengono sostituiti e questo determina, oltretutto, l’elevata età media dei dipendenti pubblici. L’attuale sistema sottintende una precisa volontà politica: non rendere più efficace ed economica la P.A. per spostare ingenti risorse pubbliche verso il capitale privato. Questo processo sta conducendo il nostro Paese, sempre più, verso la cancellazione dello stato sociale. Se la privatizzazione ha come conseguenza più evidente la perdita del carattere universale del diritto alla salute proprio per la sua irriducibilità e incompatibilità con una logica basata sul profitto, il rapporto di lavoro precario/senza diritti né garanzie risulta in completa antitesi con il lavoro di “cura” che intrinsecamente contiene in sé il concetto di reciprocità di relazione tra chi cura e chi è curato; reintroducendo, oltretutto, una concezione del lavoro per mera prestazione che, nel caso della professione infermieristica, appare in contrapposizione col percorso formativo universitario e con l’abolizione del mansionario. L’introduzione di lavoratori e lavoratrici precari, flessibili, sottopagati, ecc., è andata di pari passo con l’esternalizzazione dei servizi (pulizie, mensa, manutenzione, settori amministrativi, accoglienza, ecc.); altre volte, attraverso “la cessione del ramo di azienda”, insieme al servizio sono stati ceduti anche lavoratori e lavoratrici che hanno visto nel giro di poco tempo mutato il loro rapporto di lavoro da pubblico a privato. I “vantaggi” dell’introduzione del lavoro precario sono evidenti, da una parte: 1. minor costo del lavoro, attraverso: minori garanzie in materia di diritti (ferie, malattia, maternità, diritti sindacali, sicurezza e infortunio sul lavoro), a cui corrisponde una riduzione della qualità dell’assistenza (assenza di formazione, assenza di luogo fisso di lavoro, più turni nell’arco della stessa giornata, copertura di più servizi); 2. ricatto nei confronti dei lavoratori garantiti ed erosione dei diritti (diritto di sciopero, contratti)

5. L’emergenza sanitaria

I servizi di emergenza sanitaria non sfuggono a queste logiche ma, per loro stessa natura, meglio si prestano ad altri tipi di trasformazioni e scopi. La guerra permanente, i potenziali attacchi terroristici, predispongono di fatto i servizi di emergenza verso una specializzazione che nulla ha a che vedere con la prima risposta sanitaria, lasciando ampio spazio di gestione ai privati e al volontariato per l’emergenza ordinaria. Da una parte assistiamo ad una massiccia introduzione di volontariato, in particolare nei servizi di emergenza territoriale, che risponde ad una logica ben alimentata dalla sinistra nel nostro Paese, di sussidiarietà, con l’introduzione di masse di personale senza formazione né diritti sulla quale si risparmia a scapito della qualità dell’assistenza; dall’altra la guerra è ormai entrata nel quotidiano delle persone condizionandone pesantemente le vite più di quanto si possa credere. Così, come è avvenuto per i Vigili del Fuoco, inseriti appieno in un processo di militarizzazione che li vede interni ad un modello di difesa civile, l’emergenza sanitaria, tanto più nelle sue diramazioni territoriali, ben si presta ad essere riconvertita alla cultura emergenziale interna ad una cultura di guerra e alla sua conseguente logica di difesa nazionale. In seguito all’attentato terroristico dell’11 settembre alle Torri Gemelle e ancor più dopo l’attentato alla stazione di Madrid, in più di un’occasione è stato proclamato lo “stato d’emergenza nazionale” nelle festività e/o ricorrenze, durante le quali sono stati sospesi i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici dell’emergenza sanitaria (es. ferie) ed attivati arbitrariamente istituti contrattuali (es. reperibilità) in assenza di qualsiasi trasparenza e senza nessuna consultazione sindacale. Il Servizio Pubblico di Ambulanze (118) da due anni partecipa, al pari della CRI, alla parata militare del 2 giugno (festa della Repubblica); ha garantito la vigilanza sanitaria in più di una manifestazione militare, come la “scorta sanitaria” in occasione dell’incontro del G8 a Roma (ottobre 2003), ha “formato” numerosi Operatori e Operatrici alla scuola di guerra di Rieti nel Lazio, per la risposta ad eventi NBCR fino alle più recenti simulazioni, tenutesi in diverse città italiane, di scenari di attacchi terroristici, effettuate stornando risorse e mezzi da un già carente territorio, in assenza di qualsiasi formazione sulle maxiemergenze; mirata di fatto a creare un clima di “rassegnazione” alla guerra nella cittadinanza. Un’operazione solo mediatica ragionata per abituare al terrore della guerra, questo nonostante il pericolo degli attentati in Italia sia reale quanto l’utilità ad attrezzarsi a questi eventi. Bisogna, infatti, ricordare che l’Italia è un Paese in guerra e che contro il terrorismo non c’è intellegence che tenga e che l’unica soluzione è disinnescare la miccia della ritorsione terroristica ritirando le truppe italiane dagli scenari di guerra. Un importante IRCCS italiano, con sede a Roma (Spallanzani), centro di riferimento nazionale per le malattie infettive, negli ultimi anni ha riconvertito parte dei propri posti letto in laboratori specializzati per lo studio di agenti patogeni finalizzati ad una eventuale guerra batteriologica. In questo caso, la già prevista privatizzazione di questo Istituto, attraverso la trasformazione in Fondazione, cede il passo al processo di militarizzazione che prevede ingenti finanziamenti pubblici. Il risultato per la cittadinanza è l’esclusione dall’accesso ad un importante servizio pubblico, oltrechè una bomba ad orologeria piazzata nel cuore di un popoloso quartiere di Roma. Se tutto ciò risponde principalmente alla logica di normalizzazione alla cultura della guerra e passa anche attraverso altri ambiti, quali la scuola e l’università, è innegabile che ha delle enormi ricadute sui lavoratori e sulle lavoratrici, sulla possibilità che l’espressione del dissenso e del conflitto sindacale trovino luoghi e terreni fertili, laddove ogni spazio di democrazia viene ristretto con l’introduzione del concetto di “segretezza” ed in nome di un fantomatico “superiore interesse nazionale”. Ciò permette l’entrata nelle casse delle Aziende sanitarie di soldi finalizzati allo scopo di acquisire, sotto forma di formazione, forniture necessarie alla gestione di emergenze non convenzionali, che lasciano ancora più spazio ad un sistema di appalti sempre meno trasparente. Inoltre se già gli ambiti di trattativa sindacale aziendale appaiono quasi privi di significato, poiché i livelli di contrattazione si sono, negli anni, spostati su piani politici regionali, in questo caso anche questi ultimi vengono deregolamentati a favore del ruolo che assumono le Prefetture, il Ministero dell’Interno, della Difesa o addirittura la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

6. L’emergenza infermieristica

È un fenomeno che coinvolge la maggior parte dei paesi europei, ma l’Italia è un caso particolare tra i paesi OCSE perché si colloca tra i primi per numero di medici in relazione agli abitanti e tra gli ultimi per numero di infermieri/e. L’OCSE stima un fabbisogno di 6,9 infermieri/e 1000 abitanti, che tradotto significherebbe una carenza di 90.000 unità. La disaffezione verso questa professione trova ragione in differenti fattori: i bassi stipendi, lo scarso status di cui gode, le scarse possibilità di carriera, i disagi connessi al lavoro (turistica, burn out), l’introduzione del requisito della laurea e il numero chiuso universitario. La laurea in scienze infermieristiche, inaugurata nel 1997/98, non ha risolto i problemi: il numero dei laureati/e si aggira intorno alle 5000-5500 unità, un flusso assolutamente insufficiente per coprire il turn over fisiologico creato dai pensionamenti e stimato intorno alle 12.500 unità annue. Invece di praticare scelte di fondo quali la rimozione del numero chiuso e l’incentivazione alla professione si è aperta la strada della esternalizzazione, trasformando il panorama della sanità italiana ed attuando un pericoloso salto di qualità nel processo. Il settore infermieristico rappresenta circa il 40% del personale della sanità pubblica (270.000: 80-85% nel SSN; 40.000 circa nella sanità privata; circa 12.000 impiegati nel terzo settore come dipendenti di cooperative o come liberi professionisti). Le modalità più diffuse di lavoro precario degli infermieri/e sono: 1. contratto interinale attraverso agenzie di affitto di manodopera, 2. contratti a tempo determinato, 3. il sistema di appalto a cooperative. Il ricorso alle cooperative, sia per i processi di esternalizzazione di servizi nella forma di appalti per la gestione, sia per il personale infermieristico in affitto, è quello più diffuso, poiché con le agenzie interinali le spese aumentano (per l’applicazione del CCNL pubblico e l’aggiunta della commissione dovuta all’agenzia) mentre le cooperative garantiscono la riduzione dei costi. Mentre il lavoro interinale è utilizzato per sostituzioni a breve termine, le cooperative sono diventate, in questi anni, una strategia per sopperire alla carenza strutturale di organico. Ma la novità degli ultimi anni è sicuramente l’introduzione nella sanità di grandi masse di lavoratori e lavoratrici stranieri (extracomunitari) posti in una condizione di ricatto e sfruttamento. I lavoratori e le lavoratrici stranieri, visto il problema costituito dal requisito della cittadinanza per partecipare ai concorsi pubblici, possono accedere al settore solo attraverso le agenzie interinali o le cooperative appaltatrici di servizi. Con la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, gli infermieri e le infermiere diventano immigrati “fuori quota” e quindi senza limiti di ingresso, ma autorizzati ad una permanenza sul territorio strettamente vincolata al datore di lavoro che ha provveduto a selezionarli all’estero. Fino a qualche anno fa vigeva persino il divieto, per chi era importato da una cooperativa, di cambiare padrone una volta arrivato in Italia, il divieto è caduto ma è molto difficile che qualcuno abbia interesse a farlo sapere agli infermieri/e stranieri! Questo sistema di “reclutamento” ha aperto la strada alla proliferazione di ricatti e di condizioni di forte sottomissione verso il personale infermieristico straniero, quando non facilitato raggiri e fenomeni assimilabili alla tratta di esseri umani. A questo si aggiungono segnali pericolosi che vengono da un sistema di reclutamento che consente un vero processo di “selezione etnica”, e dalla discriminazione che può essere operata attraverso il riconoscimento dei titoli per esercitare la professione. Gli infermieri/e stranieri sono ormai la maggioranza nelle case di riposo e nelle strutture di cura, la loro presenza è, però, in crescita nelle cliniche private e nella sanità pubblica, attraverso gli appalti alle cooperative o le agenzie interinali, nei reparti degli ospedali esternalizzati ed in modo particolare nell’assistenza domiciliare. Pullulano sul mercato “mediatori” e società italiane o straniere che offrono pacchetti a infermieri che sono “venduti” come merce umana. Giovani infermiere (in prevalenza il reclutamento avviene tra le donne) che pagano intermediari di uno dei due paesi per arrivare in Italia e lavorare in nero senza abilitazione alla professione sono vittime di veri e propri “scafisti della sanità”, con grande responsabilità della PA che disinteressandosi abdica a favore di una gestione dei flussi affaristica e spesso con pochi scrupoli. Si stima che gli infermieri/e “non nati in Italia” siano 20.000. La grossa fetta di donne tra gli stranieri supera la già alta percentuale femminile (80%) italiana. Il differenziale salariale è almeno del 25%, il gap dei diritti ancora più ampio. L’obiettivo di “far più soldi possibile” prima di ritornare nel proprio Paese incentiva lo sfruttamento. Un’ora di lavoro di un infermiere/a di ruolo costa all’Azienda sanitaria circa 40 euro, un’ora “appaltata” ad una cooperativa ne costa 28, in tasca all’infermiera ne finiscono 10. Secondo il quotidiano Il Sole 24 ore (giornale della Confindustria italiana) il mercato degli Infermieri/e stranieri in Italia vale 300 milioni di euro l’anno. Esternalizzazione dei servizi, riduzione dei diritti e precarietà del lavoro, sono i tre elementi caratteristici delle politiche liberiste del nuovo millennio, in Italia come nel resto del continente europeo, che hanno avuto decorso facile grazie alle politiche concertative del sindacato confederale italiano CGIL - CISL - UIL e che stanno determinando la cancellazione dello stato sociale nel paese, con ripercussioni inaudite sulla garanzia del diritto allo studio ed all’assistenza sanitaria.

7. La RdB/CUB

In una ottica di riadeguamento del ruolo del sindacalismo di base alle profonde trasformazioni che la pubblica amministrazione nel Paese stava attraversando, la Federazione Nazionale RdB/CUB decise, già dal 2001, di riassorbire le varie federazioni di settore (sanità, ministeri, università, ecc.) in una unica Federazione Nazionale di Pubblico Impiego in previsione di un successivo radicamento sul territorio delle federazioni regionali. Tale processo, apparentemente ad esclusiva valenza organizzativa, ha di fatto caratterizzato l’agire sindacale anche in previsione della riforma federalista che sta interessando l’Italia e che si è già realizzata in alcuni importanti settori della pubblica amministrazione (polizia, sanità, ecc.). Tale riorganizzazione ha, di fatto, ulteriormente consolidato la nostra organizzazione nelle realtà lavorative, in particolar modo in quei settori in cui la riforma sindacale di fine anni ‘90 - sulla rappresentatività - aveva prodotto la delegittimazione di alcune organizzazioni (tra queste la RdB Sanità) a tutto vantaggio di quelle maggiori che individuavano nella “concertazione” l’unica pratica sindacale possibile. Oggi, di fronte alle politiche nazionali ed europee volte a smantellare lo stato sociale e privatizzare la pubblica amministrazione, la RdB/CUB interviene:
  sul livello europeo ed internazionale nei percorsi che hanno caratterizzato la battaglia contro il processo liberista da Porto Alegre alle varie tappe del Social Forum Europeo alla annuale costituzione della giornata italiana dell’Euro May Day contro ogni forma di precarietà;
  sul livello nazionale in virtù della riconosciuta maggiore rappresentatività, che le permette anche la presenza al CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) come unica Confederazione di base presente al tavolo negoziale;
  sul livello locale (Regioni) - anche dove tale rappresentatività non è ancora raggiunta ed i diritti sindacali notevolmente ridotti, come nella sanità - con la legittimazione diretta delle istanze dei lavoratori attraverso un processo rivendicativo che si realizza con il conflitto e l’antagonismo contro le politiche di cogestione. È così che le politiche nazionali della RdB/CUB nascono e si sviluppano dalle esigenze registrate nei luoghi di lavoro e si trasformano in piattaforme sui tavoli negoziali nazionali e in lotte nelle dimensioni territoriali, il tutto in completa autonomia ed indipendenza - non certo senza confronto - dai partiti che caratterizzano l’arco costituzionale, anche da quelli politicamente più affini per caratteristiche culturali o tradizione sociale. Così le politiche nazionali della RdB/CUB sul costo della vita (caro vita) assumono valenza territoriale nella costruzione dei comitati (di zona o quartiere) della “quarta settimana” - periodo nel quale è solitamente finito lo stipendio, anche di un dipendente pubblico - e si coniugano con il disegno di legge per il riconoscimento di un salario minimo garantito per tutti i residenti disoccupati o inoccupati o con la battaglia contro la guerra, per il ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq, per la riconversione delle basi militari Nato/USA e per la revisione della spesa militare; un disegno di legge di iniziativa popolare per l’istituzione della “scala mobile” (come strumento automatico di adeguamento dei salari al costo della vita) insieme a tutto il sindacalismo di base italiano e ad alcune componenti interne alla CGIL ed un disegno di legge per il riassorbimento di tutti i precari della Pubblica Amministrazione con contratti veri - a tempo indeterminato - prende spunto dalle rivendicazioni dirette dei precari o di quelli che non trovano più nel rinnovo dei contratti nazionali di lavoro (attesi per anni) uno strumento reale di adeguamento degli stipendi al continuo e crescente costo della vita e caratterizza anche la RdB/CUB nei territori, dove le battaglie per i precari possono e spesso trovano soluzione nelle quotidiane vertenze per l’assunzione o la reinternalizzazione di servizi appaltati ai privati o contro l’applicazione di una legge razzista per l’assunzione degli infermieri/e extra comunitari. È altrettanto facile comprendere come tutto questo possa spesso assumere valore di radicalità nell’utilizzo del conflitto favorendo la criminalizzazione delle lotte. Facile altrettanto comprendere come la vertenza del precariato in sanità sia ormai un frammento della quotidiana battaglia che la RdB/CUB porta avanti nel Paese e come, nella stessa direzione, vadano le nostre denunce sulla gestione degli appalti (anche attraverso la stesura di libri bianchi) e delle esternalizzazioni di servizi, o come l’adeguamento degli stipendi del nostro personale sanitario a quello dei colleghi europei faccia parte di un percorso che vede l’intero corpo dell’Organizzazione impegnato sul tema delle politiche salariali e del costo della vita; come le denunce, le interrogazioni parlamentari e regionali, i volantinaggi ai lavoratori e lavoratrici, assumano sempre più valore di costruzione di coscienza e orientamento tra chi è, ancora, attratto dalle pratiche clientelari dei sindacati storici ma comincia a rendersi conto che troppo ha dovuto cedere in termini di salario, diritti e dignità. Quello che va necessariamente considerato è che questo si realizza, in sanità, in un regime di pressoché totale riduzione dei diritti sindacali, con una completa avversione del Sindacato Confederale - maggiormente rappresentativo e spesso collaterale a gruppi di potere, anche politici - con una legislazione sullo sciopero (L.146/90) che, se applicata, obbligherebbe gli ospedali ad assumere personale in caso di sciopero e con la pressoché totale chiusura dei mezzi di informazione. Obiettivo importante è ovviamente quello di sviluppare un movimento di massa che ponga la rivendicazione del diritto salute come bene collettivo inalienabile della persona umana. Sosteniamo il rilancio e la riqualificazione dei sistemi sanitari pubblici contro le privatizzazioni delle strutture sanitarie, contro ogni forma di mercificazione della salute. L’accesso ai sistemi sanitari pubblici deve:
  avere carattere universale per tutta la popolazione senza distinzioni di reddito e cittadinanza;
  essere garantito a titolo gratuito, senza richieste di partecipazione individuale alla spesa e non improntato alla logica del profitto ma a quella della solidarietà collettiva;
  essere generalizzato ed esaustivo di tutto il fabbisogno collettivo della popolazione, dalla prevenzione agli ambienti di vita e di lavoro alla cura e riabilitazione, senza limiti di tempo o di patologie;
  essere umano, a misura, cioè, di donna e uomo, rispettoso della dignità e della psiche degli utenti e dei lavoratori, non invasivo nelle cure. In questa ottica è indispensabile mobilitare la popolazione per l’aumento dei fondi destinati al sistema sanitario pubblico, che deve rispondere al bisogno di salute e valorizzare le professionalità come elemento di umanizzazione della cura. È necessario promuovere una cultura ispirata alla solidarietà sociale, al rispetto delle differenze, alla ricchezza delle diversità, per l’unificazione su obiettivi e lotte comuni.

note

* Coord.to Naz.le P.I. Federazione RdB del Pubblico Impiego, settore SANITÀ.