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Le frontiere interne dell’Europa: nuovi ghetti e nuove divisioni del lavoro

ANNA MARIA MERLO

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La Francia è dieci anni indietro o dieci anni avanti, nel movimento contro il Cpe ha difeso i “diritti acquisiti”, i vecchi contratti di lavoro protettivi ormai travolti nell’era del capitalismo finanziario, oppure ha inaugurato una nuova stagione di lotte contro il precariato che colpisce giovani (e meno giovani) dappertutto nel mondo? Sono stati in molti, specialmente sulla stampa anglo-sassone, a stigmatizzare gli studenti che hanno protestato contro il “contratto di primo impiego”, accusandoli di restare attaccati a un modello ormai defunto, di fare della resistenza contro la mondializzazione. Ma la vicenda della protesta contro il Cpe, la sua genesi e il suo svolgimento, mostrano che i giovani francesi hanno colto, con la loro protesta, un punto centrale del disordine sociale causato dal capitalismo finanziario. Inaugurando una stagione che, se non è ancora di lotte, è almeno di presa di coscienza di una situazione contro la quale i francesi hanno dimostrato che è possibile lottare. Il libro La rivoluzione precaria. La rivolta dei giovani francesi contro il Cpe (che uscirà a settembre, editore Ediesse, autori: Anna Maria Merlo e Antonio Sciotto, con un saggio di Alessandro Genovesi e prefazione di Stefano Rodotà) ricostruisce la storia della lotta contro il Cpe e la vittoria degli studenti. Con una serie di interviste - di sociologi, sindacalisti, storici, economisti, professori universitari - affiancate da incontri-racconti di vite precarie (studenti, intermittenti dello spettacolo, lavoratori intellettuali), si è cercato di dare un quadro della situazione in uno dei paesi più ricchi del mondo che sta vivendo la transizione in corso. Quando, a gennaio, il primo ministro Dominique de Villepin, già messo in difficoltà dalla rivolta delle banlieues del novembre 2005, ha voluto rispondere in modo volontarista e sbrigativo all’esplosione dei quartieri difficili, proponendo una più generale legge “sull’eguaglianza delle opportunità” nella quale, all’ultimo momento, è stato inserito con un emendamento il Cpe, l’opinione pubblica non ha subito reagito con una levata di scudi. Anzi. I primi sondaggi dicono che i francesi - e soprattutto i giovani - hanno guardato con interesse alle novità del Cpe. Hanno dato credito al discorso di Villepin: favorire l’entrata nel mondo del lavoro attraverso un contratto specifico che mira a combattere la giungla di stage e contratti a termine, più o meno malpagati (e a volte gratis) a cui sono costretti i giovani. Ma poi i giovani sono andati a vedere più in profondità cosa il Cpe offriva. Poco per volta, in un crescendo, l’opposizione al Cpe è aumentata, fino a trasformarsi in una valanga che ha costretto Villepin a fare marcia indietro e lo ha quasi travolto. Il movimento anti-Cpe rivela il profondo cambiamento avvenuto in Francia negli ultimi decenni. Il mercato del lavoro francese è sempre stato caratterizzato, fino agli inizi degli anni ’80, da un’alta stabilità nel lavoro coniugata ad una medio-alta mobilità professionale. La Francia, soprattutto, è stato il terzo paese europeo (dopo la Germania e l’Italia) e il quinto al mondo (dopo Usa e Giappone) a far segnare tra il 1960 e il 1974 il più alto tasso di mobilità professionale verso l’alto, con circa 9 milioni di persone che hanno visto, in 14 anni, i propri salari aumentare di quasi il 75%. A partire dagli anni ’90 (ma in realtà il processo era già iniziato nella prima metà degli anni ’80) si è poi assistito, invece, ad una grave inversione di tendenza, dalle molteplici cause, che possiamo riassumere in: una forte deindustrializzazione (soprattutto in alcune zone della Francia) con connessa dismissione di numerose aziende a partecipazione statale (tuttora la Francia è il secondo paese della Ue a 15 a maggior partecipazione pubblica) comprese quelle operanti nel settore dei trasporti e dei servizi; la caduta verticale degli investimenti finanziari (in particolare quelli americani e canadesi) dirottati verso le cosiddette economie emergenti (-75% per gli investimenti a breve termine e -33% per gli investimenti a medio termine, in 10 anni); l’esplodere di una questione sociale inedita, che si è andata saldando a problemi vecchi e nuovi di integrazione dei “francesi delle colonie”. A farne le spese sono state principalmente le generazioni più giovani, il cui tasso di occupazione dal 1980 al 2001 è passato dal 52% al 41%, mentre il tasso per la generazione 30-49 anni è rimasto costante, per crescere poi di ulteriori 6 punti a metà degli anni 90 (dal 75 all’81%). Processi in parte comuni ad altre nazioni (come l’Italia del “dopo lira” e la Germania dell’unificazione), ma che non si possono sottovalutare se si vuole cogliere fino in fondo come la percezione dei francesi verso se stessi, il proprio lavoro e il proprio futuro sia profondamente mutata, contribuendo non poco a far aumentare le ansie e le insicurezze delle generazioni più giovani. Generazioni, per la priva volta, più istruite dei propri padri (il tasso dei laureati è passato dal 9,3% del 1970 al 18% del 20041), ma con meno possibilità di mobilità sociale verso l’alto. E questo nonostante i ripetuti interventi normativi sul mercato del lavoro che, dagli inizi degli anni ’90, si sono via via tentati. Villepin non aveva calcolato la possibilità di una reazione così determinata. Non si aspettava la rivolta al grido: “A chi dice precariato, i giovani rispondono: resistenza”. E spiegano: “Non vogliamo questa società che ci propone un futuro senza avvenire”. I sindacati sono scesi in campo solo in un secondo momento, trascinati dai giovani hanno ritrovato una parvenza di unità. Il Cpe è stato un rivelatore - un contratto che è stato visto come l’istituzionalizzazione del precariato - la goccia che ha fatto traboccare un vaso già pieno da anni. Gli studenti e i liceali di quella che è ancora una delle potenze economiche del mondo hanno in realtà posto una domanda che ci riguarda tutti: le persone devono trasformarsi in kleenex, in oggetti usa e getta, mentre gli utili delle società vanno alle stelle e le remunerazioni dei grandi manager toccano cifre mai viste? I giovani hanno svelato un’evidenza: i soldi non mancano, ma l’ineguaglianza cresce, la povertà è visibile ai piedi dei bei quartieri, l’individualizzazione dei rapporti sociali, la rottura delle vecchie solidarietà non ha portato alla promessa realizzazione di sé per tutti, ma all’esplosione degli egoismi e della miseria umana. Questa è la domanda che i giovani francesi hanno posto all’Europa: come vogliamo costruire il nostro futuro? I giovani hanno dato la loro risposta. Malgrado il rischio di derive violente, ci hanno detto che la rivolta delle banlieues del novembre 2005 e il movimento di febbraio-aprile 2006 degli studenti - dei “privilegiati” secondo il governo - comunicano la stessa inquietudine. I sindacati, tradizionalmente deboli e poveri di iscritti, hanno capito che la battaglia riguardava tutti, classi medie, lavoratori con contratti a tempo indeterminato, persone di tutte le origini: si tratta della qualità della vita di ognuno, di una società che aveva costruito, nei “trenta gloriosi” anni del boom, uno stato sociale efficiente e che ora, in tempi dove circolano molti soldi ma manca il lavoro per tutti, l’ideologia liberista vorrebbe travolgere. Un altro mondo è possibile, ha detto il movimento degli studenti. Ma ora resta aperta la questione politica: chi, nell’anno delle presidenziali, sarà in grado di tradurre politicamente questa inquietudine? La sinistra annaspa, perché negli ultimi 25 anni non ha trovato risposte alla crisi sociale emergente, adeguandosi all’analisi liberista dominante. Il rischio, senza sbocco politico, è di cadere in una situazione di aspettative frustrate, che, come la paura, non sono mai buone consigliere.

note

* Corrispondente dalla Francia de “il manifesto”.

1 Dati Ministero delle politiche giovanile, dell’istruzione e della ricerca, disponibili sul sito www.education.gouv.fr