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SOCIETA’ E PROCESSI IMMATERIALI

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Paolo Graziano
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Alcune false idee sulle privatizzazioni. I princìpi ideali di un saccheggio reale

Paolo Graziano

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1. Il passo del gambero: il caso Telecom

La vicenda delle privatizzazioni italiane ha del sublime. Prendete il caso Telecom, che da qualche tempo sta anche sulla bocca dell’uomo della strada, soprattutto per il suo corredo di particolari di costume, che includono matrimoni tra dinastie, ex modelle di gran fascino, presunte trasvolate oceaniche per lo shopping con gli aerei della compagnia: dopo il lungo processo di cessione a privati della compagnia telefonica, rito officiato dal governo D’Alema alla fine degli anni Novanta, nel settembre 2006 il piano industriale di Angelo Rovati, già consigliere dell’attuale premier Romano Prodi, caldeggiava una nuova nazionalizzazione della rete fissa Telecom. Dopo dieci anni, insomma, bisognava tornare al punto di partenza: era meglio l’azienda statale, la “public company” di cui molti si scoprono o riscoprono teorici, nell’epoca del grande naufragio delle privatizzazioni1. Sorpresi? Non dovreste esserlo. In realtà, le vicissitudini della celeberrima compagnia telefonica italiana - quasi una bandiera del Paese, che per decenni ha messo in comunicazione i luoghi più remoti della penisola - non sono affatto speciali: costituiscono, invece, l’esempio più tipico di una colossale cantonata politica tutta italiana. Se si crede alla buona fede, naturalmente: altrimenti, bisogna pensare - come ormai fanno in molti - che le privatizzazioni siano state piuttosto il più colossale degli affari per le oligarchie finanziarie del Bel Paese, favorito alla metà degli anni ’90 da due trasformazioni socio-culturali di portata capitale:

1. Lo sgretolamento di un’area politica - quella del vecchio Pci - che aveva difeso, con la sua stessa esistenza, un’ipotesi di capitalismo in cui lo Stato fosse attore determinante, mediante il controllo dei settori strategici per lo sviluppo del Paese; 2. La liquidazione, dopo la bufera di Tangentopoli, della Prima Repubblica e la costituzione di una classe politica succube degli interessi e della cultura d’impresa, che dispone le linee fondamentali dell’azione di governo del Paese.

Ma torniamo all’anatomia del caso Telecom, per individuare in questa vicenda i limiti di una pratica - di più: una vera e propria neo-ideologia - che ha caratterizzato l’ultima stagione politica, e non solo nel nostro Paese. Nel ’98 alla guida della compagnia telefonica c’era Franco Bernabè, ex dirigente dell’Eni, l’ente statale che condizionava e regolava il mercato nazionale. Il nome di Telecom, da poco introdotto al posto del caro vecchio acronimo “Sip”, ereditava una tradizione gloriosa: nel corso di poco più di quarant’anni, a far data dalla nazionalizzazione della rete telefonica, la vecchia Società Idroelettrica Piemontese (Sip, appunto) aveva messo in comunicazione i quattro angoli della penisola, comprese quelle zone dove non era economicamente conveniente stendere i cavi della rete fissa. La compatibilità economica di un servizio essenziale come la telefonia, dunque, non era valutata sulla base dei pareggi di bilancio. Anzi: nel 1970 l’Italia era il terzo paese, dopo l’Olanda e la Germania, ad aver completato l’estensione della Teleselezione su tutto il territorio nazionale. Cosa succede alla fine degli anni ’90? Viene liquidata, semplicemente, un’azienda sana di ragguardevoli dimensioni, che ¬- come fa osservare Beppe Grillo, diventato suo malgrado il massimo esperto italiano di scandali finanziari - aveva numerose partecipazioni, proprietà immobiliari e il parco di auto aziendali più ampio d’Italia2. I beneficiari sono Roberto Colaninno ed Emilio “Chicco” Gnutti3, ribattezzati all’epoca “capitani coraggiosi”, abili rastrellatori e moltiplicatori di capitali che l’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema cattura nel proprio entoruage. La scalata a Telecom, tuttavia, parte sotto i peggiori auspici: nonostante la cessione dell’Omnitel, Colaninno non ha i soldi per coprire l’offerta pubblica di acquisto avanzata per Telecom ed è costretto a indebitare l’azienda. Da un giorno all’altro, la compagnia telefonica si trova una pesantissima ipoteca sul capo. Quando subentra Tronchetti Provera, nel luglio 2001, una nuova prestidigitazione determina lo strano destino di Telecom, il caso politico e finanziario più clamoroso della cosiddetta Seconda Repubblica4: con un minimo investimento personale, stimato in 17 milioni circa, attraverso una società in accomandita (la Sapa) che detiene il 61% della Gpi che a sua volta detiene 50,1% della Camfin che possiede il 25% di Pirelli&C. che controlla l’80% di Olimpia che detiene il 18% di Telecom Italia, Tronchetti Provera è stato fino agli inizi del 2007 l’azionista di riferimento e - in buona sostanza - colui che aveva potere decisionale sulle telecomunicazioni in Italia.

2. Gulliver e i lillipuziani del capitale

La sorprendente piramide societaria che conduce dal gigante Telecom (valore di mercato stimato, a fine 2001, in circa 92 miliardi) fino al singolo imprenditore, per la verità neanche troppo dotato di capitali, è un perfetto emblema della natura del processo di privatizzazione dei beni pubblici realizzato in Italia dalla metà degli anni ’90, con modalità che altri paesi occidentali non hanno compiutamente conosciuto. Come accade a Gulliver nella terra di Lilliput, i colossi dell’industria di Stato sono stati aggrediti e imbrigliati da una schiera di finanzieri abili nelle manovre societarie e nella gestione dei crediti bancari, talvolta assolutamente privi di mezzi e dal curriculum oscuro. In un Paese in cui il cosiddetto “capitalismo di Stato” malgrado tutto è riuscito, ben oltre una stagione politica, a sostenere lo sviluppo e innescare il boom della crescita, l’attuale processo di liquidazione, lungi dal rappresentare il trionfo del liberismo economico, sembra contraddire anche la più elementare regola del mercato. Nella vicenda delle privatizzazioni all’italiana, infatti, è stato il pesce piccolo a mangiare quello grosso, e spesso non per meriti strategici, quanto piuttosto perché la preda si lasciava ben volentieri inghiottire! Per constatarlo, basta dare un’occhiata ai numeri delle privatizzazioni che hanno investito dal 1992 il gruppo Iri, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale che dagli anni ’30 sosteneva l’economia nazionale, organizzando produzioni e interventi nel settore industriale e finanziario. In soli sette anni, il capitale investito del gruppo si è ridotto dai 101.435 miliardi di lire del 1992 ai 28.788 del 1999. Contemporaneamente, si riducono i debiti finanziari netti, che passano da un valore complessivo di 72.569 nel ’92 a 6.476 nel ’99, con un rapporto tra debiti e capitale investito costantemente calante: una morte per consunzione dell’intervento statale nell’economia. Non era, quella italiana, una situazione d’avanguardia: l’Inghilterra della “Lady di ferro”, Margaret Tatcher, aveva liquidato un’ampia fetta del patrimonio pubblico già negli anni ’80, insegnando la nuova dottrina delle privatizzazioni liberiste alla vecchia Europa. Tuttavia, in Italia il processo assume una radicalità mai vista prima, in nazioni simili per storia, struttura economica e dimensioni: nel periodo 1992-1999, il totale delle offerte pubbliche e delle vendite a privati, nel nostro Paese, ha toccato un valore stimato in 117,3 miliardi di dollari, contro i 47,8 della Gran Bretagna, i 63,1 della Francia, i 52,9 della Spagna e i 61,0 della Germania. Ma le anomalie non si limitano a queste cifre: il frequente ricorso - tutto italiano - al metodo delle “offerte pubbliche” piuttosto che a quello delle vendite dirette, è un sistema che ha portato alla cessione incontrollata e incontrollabile di beni cruciali, come dimostrano le ribalte recenti dei vari “furbetti del quartierino”. Le modalità della liquidazione, peraltro, sono state variegate, ma il più delle volte improntate a favorire il capitale privato in processi d’acquisizione non sempre ragionevoli e controllati: in particolare, nel tempo abbiamo assistito a cessione di quote di controllo, cessione di aziende e rami d’impresa, cessione di quote di minoranza, cessione di immobili e cespiti. Rispetto alle classiche privatizzazioni, le “cessioni” presentano anche il vantaggio di trasferire la proprietà riducendo il peso del suo debito. Chi lo rifiuterebbe, un regalo così?

3. Falsi idoli

Lungi dal rappresentare un semplice accidente, il fenomeno delle privatizzazioni - per durata storica e rilievo strategico - costituisce evidentemente una delle modalità fondamentali della ristrutturazione capitalista nei paesi occidentali. È qui infatti che la classe imprenditoriale, sotto la pressione concorrenziale delle economie emergenti, ha manifestato l’esigenza di mettere a profitto il capitale pubblico, saccheggiando con la collaborazione di esecutivi di diverso colore le risorse accumulate in quasi ottant’anni di politica economica. Ora, ci sembra che l’accettazione e la condivisione diffusa di un lungo processo di tal fatta, che oramai ha toccato anche i servizi essenziali al cittadino5, abbia potuto avvantaggiarsi di una serie di false convinzioni, viziate ideologicamente ed economicamente discutibili, che sono state inculcate nell’opinione pubblica con indubbia efficacia. Il filosofo inglese Francis Bacon chiamava “idoli” i pregiudizi con cui gli uomini del suo tempo tendevano ad anticipare la comprensione scientifica della natura, distinguendone quattro tipi: gli “idoli della tribù” sono le idee fallaci radicate nella mentalità comune di tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro appartenenza; gli “idoli della caverna” sono quelli che ingombrano la mente dell’uomo a causa dell’educazione ricevuta e del contesto sociale e territoriale in cui egli vive; sono basati su un uso inappropriato e deviante del linguaggio, invece, gli “idoli del foro”; infine, gli “idoli del teatro” sono indotti dalle dottrine erronee, che Bacon assimila a favole incapaci di fornire una rappresentazione obiettiva della realtà. Se si prova, per gioco, ad applicare il suo schema alla singolare faccenda delle privatizzazioni italiane, emergono tutte le idee false e artificiose che hanno permesso ad una classe imprenditoriale agonizzante d’impadronirsi con i pochi spiccioli rimasti della gran parte della proprietà pubblica. Dunque: gli “idoli della tribù”, propri di tutte le società a capitalismo avanzato, sono soprattutto quelli relativi alla convinzione che l’iniziativa privata sia un valore assoluto e un fatto per sua natura caratterizzato da una ricaduta sociale positiva. Tale convinzione, radicata per così dire “naturalmente” nella mentalità dell’uomo occidentale, ha consentito alla classe dirigente di presentare il processo di privatizzazione come un fatto altrettanto naturale e l’intervento diretto dello Stato nell’economia come una perniciosa devianza. Su questa idea si costruisce anche il più rilevante “idolo della caverna”, legato specificamente al provincialismo tutto italiano con cui è stata percorsa la strada della liquidazione del patrimonio industriale pubblico: è la convinzione ingenua secondo cui tutto ciò che è privato risulta più efficiente e funzionale del pubblico. Un pregiudizio che si scontra immediatamente, in Italia, con il dato di servizi peggiori e meno accessibili, peraltro corrispondenti a bollette moltiplicate. A cosa si deve un simile paradosso? In realtà non di paradosso si tratta, ma della logica conseguenza del processo: l’idea che le privatizzazioni avrebbero prodotto costi minori per gli utenti, infatti, è frutto del più tipico “idolo del foro”, che stabilisce un’erronea equivalenza tra privatizzazione e liberalizzazione, quasi trattando i due termini come sinonimi. In molti casi concreti, invece, le privatizzazioni sono state semplici trasferimenti di situazioni di monopolio dall’attore pubblico a quello privato: con la differenza che, se lo Stato in via di principio usa la posizione di privilegio per garantire uniformità di servizio e condizioni uguali per tutti, il privato la sfrutta per ampliare a dismisura il margine del profitto. A monte di tutte le false convinzioni ci sono, infine, gli “idoli del teatro”, quelli indotti dalle dottrine mendaci che osservano la realtà con occhiali truccati. Dei vari idoli sono questi, forse, i più perniciosi, perché nel nostro caso si avvalgono dell’autorità della pseudo-scienza economica, ridotta a formule matematiche che misurano il benessere di un paese con il metro della crescita del Pil e del rientro nei parametri di Maastricht. Così, come una perfetta azienda, lo Stato governato secondo i principi di tali dottrine s’è liberato del peso costituito dalla proprietà pubblica di enti e industrie, riducendo deficit, partecipazioni e debiti, diventando forse più leggero e senz’altro più inconsistente6. Salvo, poi, essere pronto - come potrebbe avvenire nel caso di Telecom e non solo - ad assumersi gli oneri e le responsabilità dei fallimenti dei vari “capitani coraggiosi”, per socializzare le perdite dopo che sono stati furbamente privatizzati i profitti.

Insegnante, giornalista, ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di Cestes-Proteo.

Cfr. la recente inchiesta di V. Malagutti, Telecom. L’ultimo squillo, in “l’Espresso”, anno LIII, n. 11, 22 marzo 2007, pp. 40-43.

Cfr. B. Grillo, Telecom: una storia italiana, 26 settembre 2006, http://www.beppegrillo.it/2006/09/telecom_una_sto.html

Per i profili dei due imprenditori e finanzieri, cfr. B. Perini, Capitani di ventura, in “la rivista del manifesto”, n. 3, febbraio 2003, ora in http://www.larivistadelmanifesto.it/archivio/36/36A20030212.html

Il giudizio è di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons: si veda la loro documentata ricostruzione, dal titolo L’affare Telecom Sperling&Kupfer, Milano 2002. Si veda, al proposito, l’approfondita disamina di Dario Stefano Dell’Aquila in questo fascicolo di “Proteo”.

Sulla diffusione di tali principi anche tra gli economisti progressisti, si leggano Gaggi e Narduzzi: “tutto quello che lo Stato ha privatizzato finora, a eccezione delle “utilities” (peraltro rimaste saldamente in mano pubblica a livello locale), è destinato ad avere un peso attenuato sul volume di ricchezza che verrà prodotto in futuro dai Paesi avanzati. Quindi, se non verrà superato l’attuale modello che assegna la formazione scolastica e professionale e le cure mediche quasi esclusivamente al settore pubblico, inevitabilmente la quota del reddito nazionale intermediata dallo Stato - che tutti dicono a parole di voler ridurre - tornerà invece inesorabilmente a crescere. Costringendo la politica - che da anni promette la riduzione delle tasse - a fare invece scelte fiscali “aggressive” e perdendo opportunità di creare migliaia di posti di lavoro in settori nei quali i privati sono meglio attrezzati a organizzare aree di nuova offerta” (M. Gaggi e E. Narduzzi, La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, Torino 2006, p. 107).