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SOCIETA’ E PROCESSI IMMATERIALI

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Ruy Braga
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Professore della Pontificia Università Cattolica e segretario della redazione della rivista “Octubro”

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Un’“altra faccia” del lavoro informazionale e immateriale. La vendetta di Braverman
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Un’“altra faccia” del lavoro informazionale e immateriale. La vendetta di Braverman

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1. Introduzione

Circa quindici anni fa, prima del boom commerciale di internet, della predizione delle forze di mercato mondializzate rispetto alla centralità del valore-conoscenza e, pertanto, prima del rantolo della “nuova economia” stampato nella crisi della più mediatica borsa di riferimento per le aree delle nuove tecnologie, il Nasdaq, il sociologo francese Jean Lojkine pubblicava il suo noto studio sulle potenzialità di emancipazione inerenti alla rivoluzione informatica (cf. Lojkine, 1995). Collocando l’informatica nel cuore di un processo di trasformazione produttiva radicale appena comparabile con il percorso di sviluppo del regime fabbrile, il nuovo sistema sociotecnico si collocherebbe al centro dei conflitti sociali attraverso la sfera del controllo sociale dell’informazione. Certamente ottimista nelle sue illazioni sul carattere rivoluzionario delle tecnologie informazionali e appoggiato su un’insufficiente e “produttivista” valutazione delle opinioni di Marx a proposito dei macchinari e dell’industria moderna1, Lojkine, all’inizio degli anni ’90, celebrava ingenuamente le principali caratteristiche della rivoluzione informazionale, ovvero la polivalenza, la flessibilità e la struttura a reti decentralizzate, incurante dell’emergere tendenzialmente egemonico del regime mondializzato di accumulazione a carattere finanziario e della sua relazione con la base tecnica offerta dalle tecnologie informazionali. La deriva ideologica del vincolo storico esistente tra il processo di valorizzazione del valore e il processo di produzione di merci è appena capace di spiegare le ragioni che portarono Lojkine a cedere al feticcio del progresso tecnoscientifico. Nonostante ciò, è nella sfera dei giudizi associati alle metamorfosi del lavoro nella contemporaneità che l’ottimismo tecnologico appare con più forza. Le nuove tecnologie organizzate in reti informatiche porterebbero con sé l’opportunità unica di riscattare il lavoro dalla dominazione burocrática imposta dall’impresa capitalista. Si tratterebbe, al limite, della realizzazione della antica promessa di remissione attraverso la tecnica della espiazione imposta dalla divisione del lavoro tra attività di concezione e di esecuzione. Nel tentativo di attribuire senso alle trasformazioni produttive contemporanee, Lojkine giunse alla possibilità - inedita in una società divisa in classi - di “superamento della divisione tra coloro che producono e coloro che pensano la produzione” (1995, p. 230). Anche considerando che Lojkine ri-problematizzò per mezzo della formula “un lavoro non-mercantile in un sistema mercantile” - enunciato vago, é vero, ma sufficientemente ambivalente da rappresentare un mea culpa - il lavoro informazionale, cercando di relativizzare in qualche misura l’ “ottimismo”2 inerente alla prospettiva imbarazzante della emancipazione rivoluzionaria attraverso la tecnica, consideriamo che le sue opinioni degli anni ‘90 rimangono abbastanza rappresentative tanto delle interpretazioni maggioritariamente accolte dall’opinione pubblica, così come erano espresse tramite i mezzi di comunicazione di massa, quanto di un certo tipo dominante di interpretazione della relazione tra lavoro e tecnologie informazionali, realizzata dagli accademici prima e poi dalla crisi finanziaria del Nasdaq nell’aprile del 2000. Sicuramente, la più significativa di queste problematizzazioni sociologiche per affrontare il futuro del lavoro e dell’economia capitalista alla luce delle tecnologie informazionali, dei nuovi paradigmi produttivi e della dinamica della mondializzazione del capitale è l’opera di Manuel Castells intitolata A sociedade em rede. Non sono stati pochi i meriti di Castells nel definire i contorni generali del nuovo modello di sviluppo strutturato tramite la convergenza tra la mondializzazione del capitale e le tecnologie informazionali. Forse il maggiore di tutti è stato quello di offrire una visione totalizzante del comportamento economico basato su una specie di principio unificatore: la nozione di rete.

2. Nuove promesse post-fordiste

Senza voler approfondire la polemica rispetto alla validità o addirittura coerenza del concetto3 è possibile affermare che Castells ricorre puntualmente al termine rete per descrivere le nuove forme di organizzazione economica: propone che tutto il funzionamento della società sia equiparabile a una rete che irradia potere, si vincola per mezzo dei computer e genera relazioni di organizzazione delle relazioni sociali. Chiaramente, l’argomentazione del sociologo catalano ricorre al determinismo tecnologico come fatto interpretativo nel selezionare uno strumento tecnico per costruire una determinata rappresentazione d’insieme delle relazioni sociali.4 La rete - il cui maggior esempio sarebbe internet - è presentata come la struttura determinante della società, assumendo un ruolo di definizione nella caratterizzazione dell’organizzazione imprenditoriale5 e del lavoro post-fordista. Il dominio sociale delle tecnologie informazionali creerebbe una base pratica di nuovo tipo. È più importante la morfologia dell’attività. Con Castells, la difficile transizione post-fordista giungerebbe finalmente a uno sviluppo definitivo. Il modello vittorioso, varie volte annunciato dai profeti tecnicisti e capace di mettere la parola fine alle polemiche sulla identità del sistema redentore, riposerebbe nella vocazione “immateriale” dell’impresa Cisco Systems. Una delle maggiori fornitrici mondiali di computer per reti corporative, reti di consumatori e providers di internet, la Cisco Systems preannuncerebbe le linee generali dell’ambiente organizzativo nella transizione verso il modello globale dell’impresa incentrata sulle informazioni e basata su reti: Essere connessa non è più adeguato: le relazioni di impresa e le comunicazioni che le sostengono devono esistere nella trama della “rete”. Il modello globale in rete apre l’infrastruttura informatica della impresa a tutte le principali clientele, sviluppando la rete per conquistare vantaggi rispetto alla concorrenza (Cisco Systems, apud Castells, 1999, p. 225). Qual è il segreto della Cisco? Applicare a se stessa la logica delle reti vendute ai clienti: “La Cisco ha organizzato tramite Internet, e intorno ad essa, tutte le relazioni con i clienti, i fornitori, i funzionari e, tramite l’ingegneria, progetti e software eccellenti, automatizzò gran parte della interazione” (Castells, 1999, p. 226). Si tratta, in realtà, dell’ idillio del lavoro complesso fornito dalle tecnologie: 23 mila “fornitori” - funzionari on-line - per lo più ingegneri, ricercatori, amministratori di imprese e venditori, che usano il sito web dell’impresa su internet come modo globale di coordinamento: Specificato l’ordine del cliente, questo è automaticamente trasferito alla rete dei fornitori, anche connessi on-line. I fabbricanti consegnano i prodotti direttamente ai clienti. Oltre a questo, più del 50% delle richieste fatte dai clienti giungono via Internet ai contrattati della Cisco, che li evadono direttamente. La Cisco semplicemente riceve il pagamento. Per cosa? Per P&D, tecnologia, progetti, ingegneria, informazioni, assistenza tecnica e nozioni di impresa per costruire una rete di fiducia dei fornitori e di marketing per i clienti. Si tratta di una industria (di fatto, la maggiore del mondo in valore di capitalizzazione di mercato nel 2000) che quasi non fabbrica nulla, e che forse non fabbricherà proprio nulla al momento della pubblicazione di questo libro (Castells, 1999, p. 227). Il successo di questo tipo d’impresa risiederebbe non tanto nel “valore” ma, soprattutto, nei “valori”: lo spirito dell’informazionalismo. Una specie di stile di vita, comune a tutto un gruppo di individui, strutturato attraverso rappresentazioni di valutazione del nuovo lavoratore post-fordista, ossia, tramite valori propugnati da lavoratori e dirigenti connessi tra di loro secondo un linguaggio comune digitale. Come fondamento di valutazione, Castells identifica un codice culturale più o meno comune nei diversi meccanismi dell’impresa in rete: una cultura virtuale multisfaccettata della “distruzione-creativa” catalizzata tramite circuiti optoelettronici che processano i segnali in un nuovo stadio di sviluppo simbolico. Cosa c’è dietro questa creativa cultura del lavoro? Gli scettici diranno: le ideologie imprenditoriali riescono a malapena a stimolare l’autoimprenditorialità. Ciononostante, andando un po’ al di là della risposta facile, è possibile dire che per mezzo della esposizione della nuova cultura del lavoro informazionale, Castells presenta il ritratto desolante di una “nuova frattura sociale” polarizzata da lavoratori qualificati inclusi e lavoratori dequalificati esclusi nella rete. Sotto l’impatto dei flussi informazionali, la rete accoglie i vincitori e abbandona i perdenti. Contemporaneamente, il sociologo catalano descrive l’informazionalismo come un superamento storico necessario e positivo dell’industrialismo. Se, da un lato Castells percepisce la “disconnessione” produttiva di vaste regioni del pianeta, l’aumento della povertà, l’espansione del lavoro “devalorizzato” all’interno delle economie sviluppate e l’allargamento della breccia culturale che separa le elites istruite dei settori alienati tramite “l’infointrattenimento”, dall’altro afferma che l’opposizione tra paesi ricchi e poveri non è tanto grave, che il conflitto tra il centro e la periferia tende ad attenuarsi per i successi dei paese emergenti e reputa che sia la qualità che la quantità del lavoro andranno aumentando nonostante la frammentazione sociale. Della nuova cultura dell’informazionalismo, basata sulla “creatività distruttiva” del lavoro in rete, passiamo allora all’altra delle due principali idealità sullo sviluppo del lavoro informazionale: l’autonomia. All’interno di questo campo, le posizioni appoggiate dal critico letterario statunitense Michael Hardt e dal filosofo post-marxista italiano Antonio Negri hanno acquisito molto consenso negli ultimi 10 anni, soprattutto dopo la pubblicazione di Impero (cf. Hardt e Negri, 2001). Senza considerare l’autorevolezza conquistata da Toni Negri in più di tre decenni di lavoro intellettuale e astraendo la sua singolare traiettoria politica all’interno del “operaismo” italiano6 - più tardi “autonomismo” -, è possibile concludere che parte della importanza raggiunta dalle sue tesi si deve alla qualità della sintesi teorica: si tratta di un’inusuale e ambiziosa specie di “grande narrativa” rispetto alla genesi, lo sviluppo, l’espansione e la crisi del capitalismo mondializzato. Il fondamento pratico del successo di Impero, ciononostante, deve essere cercato al di là della qualità della sua sintesi teorica. In realtà, la visione di una moltitudine anti-capitalista che interagisce in rete, refrattaria alle organizzazioni politiche tradizionali come partiti e sindacati che lottano direttamente contro un “Impero” decentralizzato e mondializzato presentata dagli autori nel libro ha incontrato rapidamente un’ottima accoglienza da parte di ampli settori del movimento antiglobalizzazione che ha occupato le strade di varie città del mondo - Melbourne, Washington, Praga, Genova, Barcellona... - dopo le proteste contro il “Round del Millennio” dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), del novembre e dicembre 1999 a Seattle.7 Se non è nostro compito qui dilungarci sulle critiche globali rispetto alle varie dimensioni teoriche, metodologiche e storiche presenti nel libro, occorre notare che all’interno della tesi sulla transizione alla post-modernità e nella direzione dell’Impero vi è l’ipotesi secondo la quale il “lavoro immateriale” assumerebbe contemporaneamente la funzione egemonica di fonte della ricchezza, contemporaneamente al fatto che la produzione in rete si trasformerebbe nella struttura predominante del comando della produzione. Analogamente a Castells, Hardt e Negri ci presentano anche la percezione di una società completamente rinnovata dalle tecnologie informazionali e integrata tramite reti di produzione di informazioni prodotte da una rivoluzione informazionale capace di socializzare la produzione verso un nuovo modo di produzione: “La rivoluzione della produzione della comunicazione e dell’informática ha trasformato le pratiche del lavoro a tal punto che tutte esse tendono al modello delle tecnologie di informazione e comunicazione” (Hardt e Negri, 2001, p. 312). Lasciando da parte la celebrazione da sinistra del governo globale, così come l’interpretazione volontaristica della crisi del fordismo come “risultato della confluenza e della accumulazione degli attacchi proletari e anticapitalisti contro il sistema capitalista internazionale” (p. 282), resta l’interpretazione della ristrutturazione capitalista in termini fondamentalmente culturali.8 Per Hardt e Negri il post-fordismo comunicazionale deriverebbe dalla relazione esistente tra il declino del lavoro taylorizzato e la materializzazione dei desideri e delle necessità dei lavoratori internazionalizzati: “Il proletariato inventa, effettivamente, le forme sociali e produttive che il capitale sarà forzato ad adottare nel futuro” (2001, p. 289). La nuova produzione della soggettività simbolica del proletariato e lo sviluppo del lavoro immateriale nascerebbero così dall’attacco al regime disciplinare e dalla sperimentazione di nuove forme immateriali di “produttività”. Per gli autori, così come per Castells, il post-fordismo comunicazionale è, essenzialmente, il risultato progressista nella sfera della produzione immediata della sperimentazione culturale degli anni ’70: l’industria informatica come prodotto della controcultura. La soggettività controculturale emerge dalla esperienza del declino anticapitalista à società disciplinare. Si percepisce in che misura la ristrutturazione capitalista assume aglio occhi degli autori una natura essenzialmente progressista, avendo alla base lo sviluppo egemonico del lavoro immateriale.9 Il post-fordismo comunicazionale sarebbe proposto dalla nuova soggettività della forza lavoro nella sua lotta contro la società disciplinare, generando una nuova composizione della forza lavoro immateriale: cooperativa, comunicativa e affettiva. Con lo sviluppo dei poteri intellettuali di produzione, una moltitudine intellettuale che attua nei settori del lavoro intellettuale e immateriale garantirebbe la mobilitazione post-moderna della nuova forza lavoro. Per Hardt e Negri, il “desiderio della moltitudine” consiste nel rinnovare la “produttività del sistema” aprendo la strada al protagonismo economico della economia informazionale strutturata sulla fluidità della divisione tra la moderna attività di fabbrica e le post-moderne attività di servizi: I settori di servizio dell’economia presentano un modello più ricco di comunicazione produttiva. La maggioranza dei servizi di fatto si basa sullo scambio continuo di informazione e conoscenze. Siccome la produzione di servizi non si riflette in beni materiali e durevoli, definiamo il lavoro sviluppato in questa produzione come lavoro immateriale - ossia, il lavoro che produce un bene immateriale, come servizi, prodotti culturali, conoscenza o comunicazione (2001, p. 311). Con la supposta egemonia dei flussi e delle reti di informazione nella produzione, tutta questa tenderebbe a trasformarsi in un servizio: “Tutte le forme di produzione esistono dentro delle reti del nuovo mercato mondiale, sotto il dominio della produzione informatizzata di servizi” (2001, p. 309). In questi termini, la linea di assemblaggio fordista, così come il cronometro taylorista sarebbero stati radicalmente sostituiti dalla rete come modello di organizzazione della produzione. Con questa alterazione delle forme di cooperazione e della comunicazione all’interno del luogo di lavoro e tra i luoghi di produzione - “gli operai possono addirittura rimanere a casa e accedere alla rete” -, il processo del lavoro passerebbe ad essere condotto in forma quasi interamente compatibile con le reti di comunicazione.

3. L’infotaylorismo come contrattempo

In una certa forma, il proposito di questo articolo consiste nel presentare “l’altra faccia” del lavoro informazionale e comparare, al meno in parte, la miseria del lavoro informazionale autentico con la prosperità del lavoro informazionale idealizzato. Se è vero che la forza ideologica presente nella utopia della società della informazione radica esattamente nella promessa di una inserzione sociale emancipata nel e attraverso il lavoro, è anche vero che solamente attraverso l’analisi del campo delle relazioni capitaliste del lavoro potremo apprendere i fondamenti prassiologici della dialettica del lavoro informazionale - allo stesso tempo contemporaneo e retrogrado, opportuno e inopportuno... Per questo ragione, ci proponiamo di analizzare alcune delle principali caratteristiche del lavoro dei teleoperatori delle Centrali di Teleattività (CTA) - i cosiddetti call centers -, soggetti alle pressioni del flusso informazionale.10 Si tratta di un tipo di lavoro estemporaneo, marcatamente taylorizzato, e che emerge come una specie di ostacolo imprevisto, un contrattempo capace di deludere le nuove promesse post-fordiste. In poche parole: dalla idealità del post-fordismo comunicazionale al contrattempo dell’infotaylorismo, è la nostra proposta di percorso analitico. Pertanto, presenteremo alcuni dati raccolti durante la ricerca sul campo realizzata con questo gruppo di lavoratori negli ultimi due anni. Esattamente perchè si tratta di un settore che, in una certa misura, condensa una vasta gamma di tendenze inerenti alla ristrutturazione produttiva capitalista, la produzione su scala industriale di servizi informazionali rappresenta un campo privilegiato di osservazione delle contraddizioni e delle ambivalenze del lavoro nella contemporaneità. Contraddizioni e ambivalenze che diventano più significative quando, distanziandoci dalle promesse post-marxiste della società informazionale, pensiamo al processo di formazione di una condizione proletaria rinnovata dalla progressiva informatizzazione del mondo del lavoro, dalla frammentazione dei collettivi di lavoratori, dalla crescita accelerata della offerta di impieghi nel settore dei servizi e dal superamento del rapporto salariale “canonico”. Vogliamo seguire alcune delle proficue indicazioni teoriche e metodologiche presenti nello studio - intitolato Retour sur la condition ouvrière - realizzato da Stéphane Beaud e Michel Pialoux (1999) sulla destrutturazione del gruppo operaio della fabbrica della Peugeot di Sochaux-Montbéliard (Francia). Nonostante si tratti di una ricerca etnografica orientata alla comprensione di un processo centrale della società francese contemporanea - cioè la destrutturazione del gruppo operaio -, una parte dei problemi analizzati dagli autori non si limita alla sola realtà francese, ma integra il quadro di una situazione sociale mondializzata.11 Beaud e Pialoux presentano le tappe della ristrutturazione del processo di lavoro in un contesto marcato non solo da profonde trasformazioni tecnico-organizzative, ma anche dalla liberalizzazione, dalla deregolamentazione, dalla mondializzazione del capitale e, conseguentemente, dall’aumento della disoccupazione. Percorriamo, per mezzo delle interviste realizzate dagli autori, la quotidianità del gruppo operaio all’interno della mondializzazione del capitale, e possiamo percepire la distanza che esiste tra le rappresentazioni diffuse, là e qui, dai portavoce dell’industria e della finanza, impegnati nel presentare gli operai come un gruppo privilegiato per il fatto di poter usufruire durante un certo periodo di contratti di lavoro più o meno stabili. Percepiamo anche come gli operai rispondono all’intensificazione qualitativa dei ritmi produttivi e alla conseguente degradazione delle condizioni di lavoro, passando a convivere con l’aumento dello stress nel lavoro, la precarizzazione dell’impiego e la compressione salariale. In questo senso, accettiamo la proposta più generale del lavoro di Beaud e Pialoux, che consiste nel riflettere rispetto alle grandi rotture e discontinuità nella storia delle relazioni di classe negli ultimi quindici anni, orchestrate a svantaggio del gruppo operaio. Dentro queste rotture, risalta la discontinuità generazionale, ossia l’interruzione degli antichi meccanismi sociali responsabili della trasmissione, da una generazione all’altra, delle idee e delle concezioni sociali del mondo che tradizionalmente appartengono al gruppo operaio (cf. Beaud e Pialoux, 1999, pp. 29-67, 293-332). Questo aspetto della rottura storica comprende tanto l’ingresso della nuova generazione di giovani operai, portata dalla direzione della Peugeot nel momento in cui vengono introdotte le nuove forme di organizzazione del lavoro associate all’informatizzazione della fabbrica, tanto la frattura occorsa tra padri e figli, derivante in gran parte dalle politiche scolastiche vincolate allo smantellamento dell’insegnamento tecnico-professionale. Allo stesso tempo, è perchè siamo d’accordo sul fatto che la grande originalità dell’opera risiede nel legame dell’analisi delle trasformazioni tecnico-organizzazionali ed economiche alle forme di coscienza politica e sindacale, costruite dagli agenti al di là dello spazio sociale circoscritto alla fabbrica,12 che cerchiamo di analizzare la percezione dei teleoperatori rispetto agli imbarazzi imposti dal flusso informazionale, sommata alle strategie di resistenza e valorizzazione di sé. Cerchiamo, in questo modo, di associare la comprensione della dominazione imprenditoriale contemporanea a fenomeni non simultanei oriundi della pluralità temporale inerente alla condizione proletaria rinvigorita dalla mondializzazione del capitale.13 Come bene ci ricordano Beaud e Pialoux (Idem), essere operaio oggi significa essere condannato a rimanere in un universo svalutato. E questa privazione del vecchio vocabolario classista porta con sé la crisi della fede nel linguaggio politico: per un buon numero di giovani, il discorso del ricorso a “classe” sembra essere completamente oltrepassato.14 Non per nulla il punto di partenza degli autori radica nella constatazione del fatto che la condizione operaia sembra essere stata abbattuta dalla precarizzazione del suo antico statuto fordista e dalla frequenza con cui i lavoratori sono sfidati dal nuovo sistema di sfruttamento e dominazione. Partendo da una questione teorica più amplia a proposito del modo di esistenza e di costruzione del gruppo operaio, Beaud e Pialoux sviluppano il tema delle trasformazioni del modo di riproduzione di questo gruppo attraverso l’emergere delle logiche di frammentazione e destrutturazione della loro condizione (cf. Beaud e Pialoux, 2005). Conforme alla formula provocatoria coniata dagli autori, gli operai “spariscono dal paesaggio sociale”: “Gli operai esistono, ma non li vediamo mai. Perché?” (Beaud e Pialoux, 1999, p. 15). Negli ultimi quindici anni la “questione operaia” si è trasformata in oggetto di una tale repressione che ha reso gli operai invisibili. Da una forza sociale essi sono diventati oggetti di compassione o di indifferenza.15 Il tema delle trasformazioni del modo di riproduzione del gruppo operaio per mezzo delle logiche di frammentazione e di destrutturazione della loro condizione nel capitalismo mondializzato ci sembra decisivo. Questa preoccupazione globalizzante di Beaud e Pialoux nell’illuminare la destrutturazione del gruppo operaio associata al cambiamento della correlazione di forze stabilita tra le classi ci ha spinti a selezionare un gruppo di lavoratori - i teleoperatori - i quali, nonostante tutte le differenze esistenti in relazione agli operai della Peugeot francese, si sviluppa in accordo a una logica equivalente a quella del gruppo operaio di Sochaux: quella della spoliticizzazione delle relazioni sociali della produzione e della inviabilização (mai definitiva, occorre ricordare) delle forme collettive di azione sociale nella mondializzazione capitalista.16 In realtà, la crescita delle CTA si inserisce in questo periodo di mondializzazione del capitale e corrisponde a una forte tendenza alla esternalizzazione della relazione di servizio manifestata dalle imprese in tutto il mondo durante gli anni ‘80 e ‘90 (cf. Cousin, 2002; Zarifian, 2004). Si tratta di uno dei principali aspetti del capitalismo mondializzato: la alterazione radicale del contesto ambientale istituzionale delle imprese nel senso dell’emergere tendenzialmente egemonico dell’impresa neoliberista in rete a carattere prevalentemente finanziario: Il doppio processo (caratteristico della ristrutturazione organizzativa analizzata dall’autore) citato prima, lungi dall’essere paradossale, è nella realtà abbastanza funzionale: rafforzando il suo potere al culmine (attraverso la concentrazione finanziaria) e riducendo i contropoteri alla base (attraverso la delocalizzazione produttiva), la finanza mondializzata ha accresciuto considerevolmente la sua influenza sulla società (Coutrot, 2005, p. 24). Senza voler pretendere di approfondire questa indicazione, occorre dire che gli anni ‘80 e ‘90 hanno visto il consolidamento di un regime di accumulazione a dominazione finanziaria centrato sulla redditività degli attivi, sulla predominanza dei flussi informazionali e sulla concentrazione del capitale finanziario sy scala mondiale (cf. Chesnais, 1996, 1999, 2004)17. Ciononostante, è stato solamente negli anni ‘90 che tali evoluzioni storiche più generali si sono consolidate, originando la base capace di strutturare un regime di accumulazione più o meno coerente. Assistiamo allora alla destrutturazione dell’impresa fordista a beneficio di un modello di organizzazione delle relazioni di produzione orientato alla generalizzazione del processo di terziarizzazione, alla compressione dei livelli gerarchici, allo sviluppo di strategie gestionali miranti alla mobilità permanente della forza lavoro, alla cooperazione dei salariati, alla amministrazione per obiettivi, così come alla frammentazione della relazione salariale. Si tratta, come bene ha detto Thomas Coutrot, di una “nuova utopia capitalista”: l’impresa neoliberista. Coutrot (1999, 2005) definisce in maniera azzeccata questa nuova realtà imprenditoriale attraverso l’identificazione di tre grandi livelli organizzativi discordanti, ma combinati: a) l’organizzazione di primo livello, quella dell’impresa “apprendista” o “innovatrice”, caratterizzata dalla scarsa gerarchizzazione, reattiva, dinamica, capace di generare e rinnovare permanentemente la sua base di conoscenza attraverso l’uso intensivo di tecnologie informatiche; b) l’organizzazione di secondo livello rappresentata dall’impresa neofordista che può contare su ingegneri, tecnici commerciali, operai qualificati che cercano di dimostrare le loro capacità, la loro disponibilità, la sua polivalenza, vuoi per effettuare una promozione vuoi per evitare di essere licenziato; e, finalmente, c) l’organizzazione di terzo livello, neotaylorista e terziarizzata, che produce componenti di beni o servizi (il caso delle CTA) per le imprese di secondo livello: “Il lavoro è ripetitivo, le tariffe sono semplificate e controllate minuto per minuto conformemente alla tradizione taylorista con un controllo realizzato per mezzo dei sistemi informatici e ogni volta più intenso delle attività” (2005, p. 26-27). 4. Impresa neoliberista in rete: un esempio18

L’aumento della disoccupazione, sommata alla restaurazione delle forme di competizione tra i lavoratori, associate alla paura della disoccupazione, così come alla esternalizzazione delle attività di approvvigionamento della produzione, garantiscono alle imprese la base strumentale per l’approfondimento della destrutturazione dei grandi collettivi di lavoro. Per mezzo delle terziarizzazioni, ad esempio, si è ottenuta la dispersione delle concentrazioni operaie e di facilitare la distruzione delle “antiche” relazioni politiche - oltre a ottenere che i nuovi impieghi “sbandassero” verso i servizi.19 In maniera equivalente, la costruzione di nuove fabbriche molto differenti dalle anteriori, con una concezione ristrutturata dello spazio e con una infrastruttura di tecnologie informatiche, ha permesso una profonda trasformazione dell’organizzazione del lavoro, alla quale non tutti gli appartenenti alla “vecchia classe lavoratrice” si sono potuti adattare.20 La diffusione delle CTA, secondo noi, testimonia l’egemonia di questo modello produttivo rappresentato dall’impresa neoliberista, allo stesso tempo reticolare e centralizzata nella sfera finanziaria. Si tratta di un tipo di impresa cresciuta molto rapidamente nell’ultimo decennio e che ha suscitato l’interesse di vari ricercatori nelle economie contemporanee sviluppate. Per alcuni, le CTA corrispondono a un segmento imprenditoriale composto soprattutto da attività di basso valore aggregato e che attraggono una forza lavoro poco qualificata e formata basicamente da studenti. Allo stesso tempo e in modo contraddittorio, le pubblicazioni professionali del settore collocano le CTA nel prolungamento delle tecnologie della informazione e della comunicazione (TIC) e della espansione contemporanea dei servizi - suppostamente adattate, pertanto, alla “modernità” rappresentata dall’economia informazionale.21 Dal punto di vista delle caratteristiche generali del lavoro degli operatori occupati nelle CTA, è possibile sottolineare che : (a) le operazioni di teleattività sono realizzate 24 ore su 24, sette giorni a settimana - conseguentemente, le CTA esigono una grande disponibilità dei lavoratori; (b) nella misura in cui questa disponibilità si trova associata a condizioni difficili di lavoro, abbiamo come risultato una forte intermittenza;22 (c) il lavoro si sottomette al flusso informatico: alla fine di una chiamata ne succede un’altra, sia automaticamente (a intervalli da 0 a 20 secondi, dipende dal tipo di operazione), sia manualmente, dopo un massimo di due o tre squilli.23 Prima di continuare sulla caratterizzazione del lavoro del teleoperatore, occorre rilevare che la stessa denominazione, molto frequente oggigiorno, di “operatore”, conferita ai lavoratori in generale e agli operai in particolare, mira a un processo economico e politico che consiste nel dissolvere la differenziazione tra lavoratori qualificati e non, rafforzando la sparizione della gerarchizzazione all’interno della classe lavoratrice. Detto brevemente: la categoria di “operaio” cede il posto a quella omogenea e indifferenziata di “operatore” - o, nel nostro caso, di “teleoperatore”. Nonostante le molte differenze, pensiamo che in realtà il lavoro informatico nelle CTA accompagna la tendenza rilevata da Beaud e Pialoux di spoliticizzazione generale del mondo del lavoro. Evidentemente abbiamo a che fare con una “tendenza” e non con un processo inesorabile contro il quale le forze sociali nulla possono. Anche se sottomesso al flusso informatico, il teleoperatore è sempre capace di, antagonisticamente, costruire spazi di libertà all’interno della produzione di servizi. Evidentemente, non si tratta di quella “libertà creativa” suppostamente inerente alla natura del lavoro informazionale e tanto elogiata, ad esempio, dalla cosiddetta “Scuola Cognitivista” (cf. Corsani et al., 2001; Galvão et al., 2003; Vercellone, 2003). Si tratta, innanzitutto, di un tipo di libertà che si trova circoscritta all’invenzione di sotterfugi che permettano di scampare al controllo informatico o di negoziare, quando possibile, ristretti margini di autonomia.24 Il più delle volte, il lavoro del teleoperatore è fondamentalmente regolato dalla semplice pressione del flusso informazionale, guastato dalla routinizzazione della comunicazione e subordinato a un rigido script,25 il cui obiettivo centrale consiste nell’aumentare l’efficacia commerciale associata alla riduzione del tempo di connessione, tenendo in vista la moltiplicazione delle chiamate per ora lavorata. Così, l’autonomia del teleoperatore é significativamente ridotta dato che i supervisori controllano le comunicazione per assicurare l’obbedienza allo script.26 Il forte tasso di inquadramento da parte dei supervisori (un supervisore ogni quindici o venti teleoperatori, in media) si spiega con la necessità di controllare al massimo i lavoratori, impedendo che si rilassino, ma, soprattutto che abbandonino il flusso informazionale. In ultima istanza, si tratta di un tipo di lavoro che testimonia come nessun altro la taylorizzazione del lavoro intellettuale e del campo della relazione di servizio: una comunicazione strumentale sotto la coercizione del flusso informazionale e prigioniera dello script, tendente a trasformare il teleoperatore in una specie di automa inquieto. Gli obiettivi sono chiari: moltiplicare le operazioni e diminuirne i costi per mezzo della riduzione dello statuto della comunicazione a condizione di pura strumentalità. Con la taylorizzazione del campo della relazione di servizio e la conseguente automatizzazione del lavoro del teleoperatore, i risultati della produttività sono ottenuti a costo di un accentuato aumento della fatica fisica, del gesto automatizzato, dei contratti di lavoro a tempo parziale, del disinteresse per la funzione, della vertigine oriunda della molteplicità delle chiamate, delle Lesioni da Sforzo Ripetitivo...27 In poche parole: tutto sembra concorrere alla degradazione del campo della relazione di servizio, ogni giorno più logorata dalle esigenze imposte dalla produttività (cf. Ughetto et al., 2002). Un’altra maniera di parlare della degradazione della relazione di servizio informazionale consiste nell’apprendere il processo che implica il trasferimento lento, più sicuro, di parte del carico di lavoro della CTA al cliente. All’interno del campo definito dalla relazione di servizio tra l’impresa (o il teleoperatore) e il cliente o utente, è normale che parte del carico di lavoro sia “condiviso” tra teleoperatore e cliente.28 L’ideologia del primato della clientela equivale a un efficiente strumento di flessibilizzazione della forza lavoro: In questo modo, occorre constatare che lo slogan secondo il quale “il cliente è il re” non è che una barzelletta, non più così diffusa tra i clienti, ogni giorno meno illusi, ma ripetuta ininterrottamente tra i salariati delle imprese per mantenere o sviluppare le loro implicazioni nel processo di razionalizzazione della produzione dei servizi. Il quale attraversa, a sua volta, una fase di esternalizzazione delle attività più facili da padroneggiare (centrali di chiamata, ma anche altri appalti: pulizie, manutenzione, compresa la concezione routinizzata di prodotti o di sottoinsiemi) e, in alcuni settori, dalla tendenza alla creazione di procedimenti che eliminano, poco a poco, il contenuto comunicativo comprensivo che caratterizza la relazione di servizio (Durand, 2004, p. 243). La taylorizzazione dell’attività del teleoperatore consiste in questo: imprigionare la forza spirituale del lavoro - e le sue conoscenze pratiche - in una routine produttiva marcata dall’integrazione del lavoro come le tecnologie informatiche, così come attraverso il coordinamento informazionale tra servizi. Per mezzo della pressione oriunda del flusso informatico, il lavoro del teleoperatore diventa, finalmente, oggetto di una regolazione tecnologica centralizzata dal regime di mobilità permanente della forza lavoro. La base tecnica unificata fornisce l’opportunità per l’impresa di fissare “scientificamente” i ritmi produttivi per mezzo della procedimentalizzazione e della conseguente degradazione dell’attività e delle condizioni di lavoro del teleoperatore. L’intensificazione dei ritmi e l’aumento del controllo da parte dei supervisori e dei coordinatori coronano appena questo processo. L’obiettivo finale del taylorismo nella condizione di modello di organizzazione del lavoro29 prevale, infine, tendendo a sottomettere una parte significativa del campo della relazione di servizio - particolarmente quella marcata dal dislocamento, nella periferia del sistema, delle attività considerate di basso valore aggregato. L’utilizzo delle tecnologie informatiche nel senso del radicamento del controllo sul lavoratore collettivo si trasforma in un imperativo tanto più vigoroso quanto necessario per diminuire i costi d’impresa. Il lavoro soggiogato dal flusso informatico produce una determinata esperienza classista che, di fatto, dimostra come nessun altra la taylorizzazione delle conoscenze originate nell’attività pratica del lavoratore collettivo.

5. Considerazioni finali

Nel 1974, come bene sappiamo, Harry Braverman pubblicò la sua conosciuta opera Lavoro e capitale monopolista. Reagendo alle tesi post-industriali il cui principale rappresentante era Daniel Bell,30 Braverman rivitalizzò il dibattito marxista sui temi dell’economia e della politica, rinnovò l’interesse nella storia e nella sociologia del lavoro e stabilì una nuova agenda per tutta una generazione di studiosi del lavoro. Immediatamente, la tesi della “degradazione del lavoro” ricevette innumerevoli critiche, praticamente non ribattute dall’autore a causa della sua morte nel 1976. Craig Littler e Graeme Salaman, due dei suoi principali detrattori, crearono addirittura una espressione per dar conto della rivitalizzazione del dibattito sul processo del lavoro contenuto nel libro: la “Bravermania”. Parte importante delle critiche indirizzate a Braverman gravita intorno alla natura della qualificazione del lavoro e della romanticizzazione del lavoro manuale suppostamente effettuata dal militante trotskista statunitense quando contrapponeva gli artigiani qualificati del secolo XIX ai lavoratori dequalificati del secolo XX.31 Ciononostante, la parte senza dubbio più importante della critica all’autore di Lavoro e capitale monopolista riguarda la tesi della degradazione del lavoro. Esisterebbe realmente una tendenza del capitalismo a degradare, ossia, a semplificare e dequalificare il lavoro, aumentando così il controllo capitalista sul processo di lavoro per mezzo della separazione delle attività di concepimento ed esecuzione? Il principale argomento a sfavore affermava che il declino nei livelli di qualificazione nelle occupazioni tradizionali sarebbe compensato dall’emergere di nuove qualificazioni nei lavori di alta tecnologia, dei servizi e di ufficio. Pertanto, non esisterebbe una tendenza nitida nel senso del declino delle qualificazioni e della degradazione del lavoro. Senza voler entrare nei dettagli della polemica sulla tesi della degradazione, possiamo dire che l’infotaylorismo contemporaneo testimonia vigorosamente la presenza della semplificazione e dequalificazione del lavoro esattamente in quei campi in altri tempi considerati refrattari alle previsioni di Braverman: il lavoro di alta tecnologia, dei servizi e degli uffici. Il lettore più attento di Lavoro e capitale monopolista non si spaventa, naturalmente, per questo. Alla fine, Braverman dedica buona parte del suo libro all’analisi dei nuovi impieghi in contesti di servizi e forme di lavoro di ufficio di tipo non-industriale, accettando che molte di queste mansioni possono e devono essere definite come di classe lavoratrice. In questo senso, il marxista statunitense non ha mai ignorato le forme di lavoro non-industriali. Ciò che ha fatto con forza è stato affermare esplicitamente che si trattava di occupazioni di classe lavoratrice, ossia, occupazioni strutturate su una base capitalista e organizzate attraverso relazioni di esplorazione e di dominazione classiste. Una tale tesi conserva ancora oggi una forte attualità invitando gli studiosi del lavoro contemporaneo a riscoprire la più importante e influente opera di questo importante marxista statunitense del secolo passato.

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Professore del Dipartimento di Sociologia della USP (Univ. di San Paolo, Brasile)

Per giungere a questa conclusione, basta osservare il seguente passaggio: “Per Marx, di fatto, la generalizzazione della meccanizzazione è solo relativamente un progresso, nella misura in cui suppone la soppressione delle forme più barbare dello sfruttamento capitalista del lavoro (specialmente lo sfruttamento dei bambini e delle donne) e inoltre esige la riduzione della giornata di lavoro e la formazione politecnica del salariato” (Lojkine, 1995, p. 88). Al contrario, Marx pensa che il macchinario amplia enormemente il campo della esplorazione del lavoro da parte del capitale proprio perchè supera la barriera organica rappresentata dalla forza fisica del lavoratore manifatturiero maschio e adulto, rendendo possibile l’incorporazione di donne e bambine alla disciplina del regime di fabbrica (vedere, per maggiori dettagli, Marx, 1989; specialmente il capitolo XIII).

“La diffusione della relazione di servizio e del lavoro informazionale non acquista lo stesso senso nei piccoli ‘trampos’ - del tipo call centers, fast-foods - e nelle attività altamente qualificate come l’insegnamento, la sanità o la comunicazione. Ma occorre superare anche qui l’opposizione tra due tesi unilaterali: la tesi ‘pessimista’ di André Gorz, che non inserisce in questa evoluzione nulla più che i piccoli ‘vicoli’, gli ‘impieghi di servizio’ (precari e degradati nel commercio al dettaglio, servizi alla persona...) e la tesi ‘ottimista’ secondo la quale la società di servizi è, soprattutto, una società di lavori qualificati dove i salariati hanno una formazione superiore e una forte autonomia nel loro lavoro” (Lojkine, 2005, p. 101).

Para Pierre Musso, per esempio: “Castells impiega una nozione troppo elastica di rete che assume non meno di venti significati differenti prima di essere completamente tradotta da una definizione finale di ‘interconnessione’ molto in voga nella cibercultura” (2003, p. 340).

Ossia, gli attributi della società contemporanea sono visti come fluenti direttamente dalla morfologia delle reti computazionali.

In questo senso, Castells argomenta che le imprese cambierebbero il loro modello organizzativo passando dalle burocrazie verticalizzate alla “impresa orizzontale”. E elenca una serie di caratteritiche dell’impresa orizzontale, tali come l’organizzazione in torno al processo e non al compito, la gerarchia orizzontalizzata, la gestione d’equipe, la misura dello sviluppo attraverso quella della soddisfazione del cliente, la ricompensa come base nello sviluppo dell’equipe e altre ancora.

Movimento político-intelettuale marxista sorto all’inizio degli anni ‘60 e che ha avuto come principali esponenti Toni Negri, Mario Tronti, Romano Alquati, Sergio Bologna, Paola Meo, Massimo Cacciari e altri. I principali veicoli di divulgazione delle idee operaiste sono state la rivista Quaderni Rossi (fondata da Raniero Panzieri nel 1959) e, dopo la rottura con Panzieri nel 1966, la rivista Classe Operaia.

Si tratta, in realtà, di una lettura fondamentalmente “ottimista” della storia capitalista recente basata su una certa credenza volontarista nella forza emancipatoria della moltitudine che, in virtù dello sviluppo della sua capacità di pensare e agire globalmente e di non considerare tradizionali divisioni e antagonismi tra le classi subalterne, potrebbe, suppostamente, dar vita a un sistema globale in stato di crisi permanente. Per una crítica più dettagliata,vedere Boron (2002), Green (2002) e Jessop (2005), tra gli altri.

Per Hardt e Negri, la interpretazione delle trasformazioni della produzione capitalista nei decenni 1980-1990 deve essere accompagnata dal riconoscimento del potere economico dei movimenti culturali in termini di mobilità, flessibilità, conoscenza, comunicazione, cooperazione e affetto.

Le modifiche del valore-lavoro in direzione della supposta egemonia del valore-conoscenza spiegherebbero la profonda convergenza tra fenomeni economici e fenomeni culturali. Il processo economico di creazione del valore deriverebbe, in questo senso, dall’integrazione simbolica propiziata dalle reti di comunicazione indipendenti dal capitale. Il post-fordismo informazionale e la nuova soggettività non-capitalista corrisponderebbero al prodotto dei movimenti culturali adattati a una prospettiva politica essenzialmente progressista.

Preferiamo impiegare l’espressione “Centrali di Teleattività” o “CTA” all’uso delle espressioni correnti call centers o contact centers (i francesi impiegano l’espressione centres d’appels). In primo luogo, perchè riserviamo l’anglismo alla designazione del mercato formato dall’insieme di queste imprese. In secondo luogo, ci sembra più adatto al tipo di impresa in questione, perchè si tratta di una forma di “attività di produzione”, e non semplicemente di “chiamata” o “contatto” telefonico.

In una certa forma, vogliamo seguire una traiettoria equivalente a quella tracciata dagli autori che, per mezzo della ricerca monografica realizzata nella regione citata, culla storica delle fabbriche della Peugeot, hanno sviluppato diversi punti legati al ritorno delle forme di insicurezza sociale - causate dalla insicurezza economica - che caratterizzano la stessa condizione operaia (vedere anche Castel, 2003).

Seguendo, in una certa misura, una tradizione inaugurata da Engels (1988) - e ripresa, tra gli altri, da Gramsci (2001) - e che consiste nel privilegiare le questioni oriunde del “modo di vita” proletario, al di là di un “modo di produzione” semplificato dalla tecnica e stilizzato dall’economia.

Come l’ampio uso di apparecchiature “ultramoderne” (TIC) associata a forme contrattuali “arcaiche” (remunerazione a prestazione), o alla produzione di servizi “post-moderni” (internet, videoconferenza, data centers) regolata da meccanismi “moderni” (tayloristi) di controllo e organizzazione del lavoro. Nelle parole di Bensaid: “Il presente è sempre vivido sotto tali mascheramenti e vestiti fuori moda, sotto nomi prestati, parole prese dalla lingua materna, finché si giunge a dominare il nuovo idioma al punto di dimenticare quello originale. Lungi dallo scomparire, il passato continua influenzando il presente” (1999, p. 41).

Contraddittoriamente, dopo molti anni di dibattito pubblico e anche accademico, il tema delle classi sociali è stato rivitalizzato da un certo tipo di sociologia erede della tradizione che risale a Marx (cf. Bouffartigue, 2004).

Secondo gli autori, il sentimento di appartenenza alla classe viene sminuito, a beneficio di una società ridotta a una porzione di individui senza qualità. La crescita dell’individualismo e dello spirito competitivo accompagnerebbe quindi la destrutturazione deliberata del gruppo operaio.

Se l’idea non consiste nel “ripetere” in un altro contesto o studio degli autori francesi - il che sarebbe impossibile per vari aspetti -, nulla impedisce che alcune delle principali tendenze identificate da Beaud e Pialoux quanto alle trasformazioni del modo di riproduzione del gruppo operaio possano funzionare come fonte di ispirazione per l’analisi del momento brasiliano della mondializzazione capitalista.

Evidentemente, questi sono orientamenti anteriori al decennio dei ‘90. É possibile identificarli, in qualche misura, tanto nella crisi del sistema monetario istituito dagli accordi di Bretton-Woods degli inizi degli anni ‘70, quanto nelle tendenze all’internazionalizzazione delle monete e delle organizzazioni di sistemi monetari degli anni ‘80 (cf. Aglietta, 1994, 1995, 1998).

Schema elaborato da Thomas Coutrot e presentato nel corso “Lavoro, tecnologia e innovazione” (graduazione in Scienze Sociali, USP, 2006).

Emerge e si generalizza una struttura di concorrenza tre gli stessi lavoratori, localizzata all’interno della relazione di subcontrattazione. La concorrenza strutturata dal capitale tra o lavoratori subcontrattati non è regolata dal salario, ma dalla preservazione dell’impiego. Un’altra fonte di concorrenza tra gli operai deve essere evidenziata: quella che deriva dall’antagonismo tra una posizione “privilegiata” propria di coloro che lavorano nell’impresa contrattante e la posizione di supersfruttamento, come succede nelle CTA, dei lavoratori delle imprese subcontrattate.

La conseguenza è stata una accentuata svalutazione pratica del lavoro: i salari sono individualizzati e declinano relativamente, i ritmi produttivi sono intensificati, nuove forme di gratificazione sono introdotte e la concorrenza tra gli operai aumenta.

Le CTA si caratterizzano anche per la capacità di generare impieghi con relativamente pochi investimenti. Evidentemente, si tratta di una caratteristica abbastanza seducente quando consideriamo la situazione presente dell’economia brasiliana.

A questo riguardo, vedere, per maggiori dettagli, Freire (2002).

Per una caratterizzazione molto ben realizzata del teleoperatore come “lavoratore dell’informazione”, vedere Delaunay (2003), particolarmente il capitolo X.

Tutto indica che la promessa tecnicista e feticizzata di una supposta “inserzione professionale istigante” per tutti gli “infoinclusi” non si è concretizzata (cf. Grün, 2003).

Sugli script e sulla loro influenza sul lavoro dei teleoperatori, vedere Mascia e Sznelwar (2000).

Gli strumenti informatici permettono un accompagnamento estremamente preciso della durata delle connessioni, dei ritardi nella risposta alle chiamate e delle pause.

Sulle LER nelle CTA, vedere Marx (2000).

In realtà, il cliente aiuta a co-organizzare il lavoro del teleoperatore e inoltre remunera l’impresa. Le CTA aumentano la pressione sui teleoperatori per mezzo della lista d’attesa delle chiamate dei clienti. I teleoperatori sono quasi sempre in numero insufficiente nelle ore di picco, obbligando il cliente a cercare un orario nel quale il servizio sia disponibile. Così, il cliente aiuta nella organizzazione e nella regolazione del flusso informazionale dell’impresa. Oltre a questo, in alcuni casi, come per esempio nella città di San Paolo, questa coproduzione del servizio significa che il cliente remunera il prestatore tramite la tariffa telefonica.

Questo è, garantire alla gestione scientifica del processo produttivo gli strumenti necessari al superamento delle conoscenze pratiche e al controllo del lavoratore collettivo (cf. Braverman, 1981).

Si tratta di una tesi conservatrice che fu ripresa e attualizzata sorprendentemente da Castells, Negri e alcuni altri autori contemporanei celebrati come autori “di sinistra” o addirittura “marxisti”.

Al momento, non ci occuperemo di ribattere alle critiche al testo di Braverman - la maggior parte delle quali completamente ingiustificate. Questo compito dovrà essere rimandato. Però occorre osservare che, di fatto, la nozione di qualificazione del lavoro presente nell’opera è divenuta insufficiente per il fatto di essere troppo centrata nelle competenze individuali dei lavoratori. É chiaro che ciò in qualche misura invalida la tesi generale presente nell’opera.