1. La crisi ambientale
Il mondo all’alba del nuovo millennio si scopre più fragile. Tutti i principali indicatori descrivono un ambiente degradato e in progressivo peggioramento; non sembra esistere comparto ambientale che sfugga a questa minaccia. Non si tratta dei deliri di una pericolosa organizzazione “eco-catastrofista”, ma dei risultati di tutte le più recenti ed accreditate ricerche scientifiche in materia. Il principale elemento di preoccupazione che scaturisce dall’analisi è destato dalla pervasività, dal carattere globale del cambiamento in atto. Questa “globalizzazione” della crisi ambientale richiede, per essere risolta, un cambiamento dei rapporti tra Uomo e Natura diffuso e profondo, in grado di coinvolgere in uno sforzo comune tutti gli Stati nazionali e le organizzazioni che, a vario titolo, operano a livello internazionale: e, ovviamente, tutti gli individui che abitano questo pianeta.
Le foreste rappresentano uno degli ecosistemi terrestri più complessi e preziosi, un patrimonio unico di biodiversità costituito da un’insieme stratificato di comunità capaci di sfruttare la primigenia fonte di vita di Gaia, l’energia solare, nel modo più efficiente: da migliaia di anni questi sistemi ambientali sono sovrasfruttati e, nonostante la progressiva sostituzione della legna e del carbone con il petrolio per le forniture energetiche, secondo gli ultimi dati della FAO, l’organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il tasso di deforestazione globale, pur in lieve diminuzione, è ancora pari a circa 13 milioni di ettari annui.
L’ecosistema delle barriere coralline rappresenta per il mare ciò che le foreste sono per la terraferma: ad oggi oltre il 20% delle barriere coralline è andato perduto e altrettanto è gravemente minacciato, dall’inquinamento, dai cambiamenti climatici, dallo sfruttamento umano. Allo stesso modo oltre la metà delle aree di pesca mondiali risulta soggetta ad uno sfruttamento al limite della sostenibilità, mentre circa 1/4 è esaurito o in pieno overfishing, ossia soggetto ad un tasso di sfruttamento superiore alla capacità di riproduzione delle popolazioni: molte importanti aree di pesca, a cominciare da quelle atlantiche, sono già oggi soggette a significative perdite di produttività.
Complessivamente la biodiversità, che rappresenta il patrimonio costituito dall’insieme delle specie viventi e delle loro relazioni, attraversa una fase che molti studiosi hanno definito di “nuova estinzione di massa”, con migliaia di specie a rischio di estinzione o già estinte: il Living Planet Index, un indice elaborato dal WWF e pubblicato annualmente nel rapporto sullo stato del pianeta Living Palnet Report, sulla base dei dati relativi ad oltre 1.300 specie di vertebrati terrestri, marini e di acqua dolce, mostra una diminuzione della numerosità delle popolazioni pari ad oltre il 30% negli ultimi trent’anni. Secondo recenti studi delle Nazioni Unite il tasso di estinzione delle specie animali e vegetali è aumentato negli ultimi secoli di mille volte rispetto al livello medio dell’intera storia dell’evoluzione: attualmente tra il 10 e il 30% delle specie di mammiferi, uccelli e anfibi è minacciato di estinzione.
L’elenco dei fenomeni connessi al cambiamento globale potrebbe continuare ancora a lungo, passando per le crisi idriche, la desertificazione, il cambiamento climatico, ecc. Come precedentemente richiamato, l’elemento comune di queste crisi “settoriali” è rappresentato dall’essere causa ed effetto di un cambiamento globale che interessa, in maniera sistemica, l’intera ecosfera: è proprio questo, come vedremo meglio in seguito, l’elemento di novità che caratterizza l’attualità della storia millenaria del rapporto tra Uomo e Natura e che rappresenta la principale sfida alla civiltà contemporanea.
Che sia in atto un fenomeno di degrado dell’ambiente naturale su vasta scala è un dato di fatto, riconosciuto dalla gran parte del mondo accademico come anche dalle principali istituzioni nazionali ed internazionali. È oramai consolidata la certezza che ci troviamo oggi ad affrontare la più vasta crisi ambientale nella storia dell’umanità. Negli anni recenti a tale consapevolezza si è accompagnato un graduale mutamento nell’interpretazione di questo fenomeno. Se inizialmente la risposta a tale crisi veniva spesso ricondotta ad una necessità di carattere etico, di rispetto per le specie che insieme a noi coabitano il pianeta, nel corso degli anni è apparso sempre più evidente quanto il degrado ambientale potesse avere importanti ripercussioni negative, più o meno dirette, sull’attuale sistema socio-economico, arrivando a costituire una seria minaccia non solo per il nostro benessere, ma per la sopravvivenza stessa della civiltà così come la conosciamo oggi.
Il nostro sostentamento e il nostro benessere dipendono in modo diretto dai servizi che l’ambiente ci fornisce e che non possono essere sostituiti. Tra questi il cibo, l’acqua, le fibre di vario genere, ma anche altri tipi di servizi, tra cui quelli di regolazione, che consentono di stabilizzare il clima, alimentare il ciclo dell’acqua, impollinare le piante. Nonostante il progresso senza precedenti delle scienze e delle tecniche, ad oggi la nostra specie è ancora molto lontana dal poter rinunciare, sostituendolo, anche ad uno solo di questi servizi. Secondo il più imponente studio sullo stato dell’ambientale globale promosso dalle Nazioni Unite, il Millennium Ecosystem Assessment (MEA), stiamo oramai assistendo ad una generale diminuzione della disponibilità di questi servizi, con pochissime eccezioni: il 60% dei servizi ecosistemici indagati nel MEA sono risultati degradati o utilizzati in modo insostenibile e, quindi, destinati al degrado. Questo significa che già oggi la Terra mette a disposizione dell’uomo, ogni anno che passa, sempre meno, a fronte di una crescita della popolazione mondiale ancora lontana dall’esaurirsi e dell’attuale impossibilità, per centinaia di milioni di individui, di accedere in modo adeguato ad alcuni di questi servizi vitali.
Tutto ciò, ovviamente, ha delle ripercussioni rilevanti non solo in termini ambientali e sociali ma, anche, economici. Se la domanda di questi servizi non si stabilizza a livelli sostenibili, non potendo essere sostituiti mentre diminuisce la loro disponibilità, il prezzo assegnato loro sul mercato è destinato ad aumentare. Come nel caso dei prodotti petroliferi, in cui l’elemento determinante non è ovviamente il degrado ambientale, ma il semplice esaurirsi di una risorsa non rinnovabile; e, come il petrolio, anche altre risorse non rinnovabili mostrano gli stessi andamenti, a cominciare dal rame e l’alluminio, per i quali si stimano disponibilità residue, ai tassi attuali di sfruttamento, di pochissimi decenni.
Ma altri costi sono generati non dalla indisponibilità di risorse e servizi, quanto dall’impatto diretto che il degrado ambientale ha sul sistema socio-economico attraverso, ad esempio, il verificarsi di eventi estremi. Al progressivo aumento del numero di disastri naturali (inondazioni, uragani, ecc...) che negli ultimi anni hanno colpito diverse regioni del mondo, si associa un costo economico crescente, che va dai risarcimenti assicurativi alla ricostruzione, fino alla perdita netta di produttività di intere economie: già nel 2001 la Munich Re, la principale compagnia riassicuratrice del mondo, lanciava l’allarme sulla possibilità di riuscire a risarcire i danni provocati dal cambiamento climatico nei prossimi decenni. In alcuni casi il degrado ambientale e il relativo impatto sul sistema socio-economico può essere lento, come il progressivo ritirarsi di un lago che rappresenta la fonte di sostentamento di una specifica comunità e che dietro di sé lascia milioni di rifugiati ambientali in cerca di nuovi luoghi in cui vivere; a volte lo stesso fenomeno può presentarsi sotto forma di crisi acute con effetti immediati, come nel caso delle inondazioni che sempre più colpiscono diversi paesi indipendentemente dal loro reddito.
2. L’uomo e l’ambiente: quale futuro?
L’uomo, oltre ad essere investito dagli effetti del degrado ambientale, ne è di fatto il principale artefice. Ciò può risultare per alcuni versi consolatorio, rendendo teoricamente possibile intervenire sulle cause stesse di questo degrado ed annullare, così, gli impatti negativi che questo genera. Ciò, ovviamente, nell’ipotesi che esista una chiara volontà, corredata delle necessarie capacità, di agire in tal senso.
Quella umana è una specie relativamente giovane, e il suo intervento sull’ambiente ha cominciato ad assumere dimensioni rilevanti a partire da appena poche migliaia di anni, raggiungendo dimensioni globali preoccupanti sostanzialmente negli ultimi due secoli. Si tratta di un tempo infinitamente piccolo nella storia di oltre quattro miliardi di anni del nostro pianeta, un battito di ciglia, eppure le dimensioni delle modificazioni apportate alla Terra dalla nostra specie sono tali da aver spinto il premio Nobel Paul Crutzen a coniare il termine di antropocene, con il quale indica una nuova epoca geologica di cui l’uomo rappresenta il principale “fattore ecologico”.
Al termine dell’ultima glaciazione, tra i 15 e i 12 mila anni fa, l’uomo aveva raggiunto e colonizzato praticamente tutte le terre emerse del pianeta. La successiva nascita dell’agricoltura rappresenta un evento che avrà enormi ripercussioni sull’uomo stesso e sul suo rapporto con l’ambiente. La domesticazione di piante ed animali costituisce un evento per molti versi unico nella storia dell’evoluzione, in quanto vede una singola specie intervenire direttamente sui meccanismi stessi della selezione naturale, sfruttandoli con coscienza a proprio vantaggio. Ma la nascita dell’agricoltura, unitamente al progressivo abbandono della caccia e della raccolta di frutti spontanei come mezzo di sussistenza alimentare, ha ripercussioni ben più profonde. L’aumento della produttività alimentare per unità di superficie (di 10, 100 volte o anche più) avrà una serie di riflessi rilevanti, tra cui: una rapida crescita della popolazione e il progressivo abbandono della vita nomade; la nascita villaggi, paesi, città in cui crescono scambi e relazioni di ogni natura tra gli uomini; attraverso la disponibilità di un ampio surplus alimentare la nascita di mestieri specializzati non più legati alla ricerca di cibo, ecc.
L’evoluzione culturale, della scienza e della tecnica porteranno nei secoli a profondi mutamenti nella vita dell’uomo, nell’organizzazione delle sue società e, ovviamente, nel suo rapporto con l’ambiente. Il percorso progressivo fino all’età del benessere porterà con sé un’eccezionale aumento dei consumi di risorse naturali, nonché della connessa produzione di rifiuti, i quali rappresentano il motore dell’attuale degrado ambientale. Nel passato ciò ha portato a crisi ambientali di carattere locale; oggi il fenomeno ha assunto una dimensione globale, alla quale non è possibile sottrarsi cercando nuove terre da colonizzare, semplicemente perchè non esistono più nuove terre. Negli ultimi quarant’anni del secolo appena trascorso la popolazione mondiale è raddoppiata, l’economia mondiale è aumentata di sei volte, la produzione alimentare di 2,5 volte, il prelievo idrico di almeno due volte, quello di legname di tre, ecc. Complessivamente le attività umane sono arrivate a produrre e rilasciare nell’ambiente una quantità di azoto reattivo, un elemento centrale dei cicli ecologici, pari a quella fissata naturalmente dagli ecosistemi terrestri; un quarto della superficie terrestre è stata trasformata in area coltivata; la quantità di acqua immagazzinata nei grandi bacini artificiali supera di diverse volte quella di tutti i corsi d’acqua, ecc.
Allo stesso tempo la crescente disponibilità di risorse, unita ai progressi culturali e tecnico-scientifici, ha prodotto un effettivo miglioramento di molti importanti parametri di qualità della vita, a cominciare dalla crescita dell’aspettativa di vita alla nascita, fino agli alti livelli di istruzione raggiunti, alle conquiste in tema di diritti umani, e così via. Da questo processo virtuoso, tuttavia, resta esclusa ancora oggi la maggior parte dell’umanità. Ciò si riflette, da un lato, nel permanere di ampie fasce di povertà e, più in generale, nelle difficoltà di accesso a servizi vitali che assumono dimensioni drammatiche per larghe fasce di popolazione: oltre un miliardo di individui vivono con meno di un dollaro al giorno e circa 800 milioni di persone, di cui quasi 150 milioni sono bambini sotto i cinque anni, soffrono la fame. Dall’altro lato aumentano le distanze tra chi ha già molto e chi non ha a sufficienza: l’ipotizzato effetto di traino della crescita economica per i più poveri c’è stato solo in parte e, in alcune zone, a cominciare dal continente africano, è stato del tutto assente.
Sei anni fa, in ambito Nazioni Unite, i rappresentati di praticamente tutti i paesi del mondo hanno sottoscritto una serie di impegni per il futuro dell’umanità che vanno sotto il nome di Obiettivi del Millennio. Si tratta di otto obiettivi da conseguire entro il 2015, che vanno dalla lotta alla povertà, alla fame, alle disuguaglianze di genere, fino al degrado ambientale. Dopo alcuni anni di miglioramenti evidenti, gli ultimi rapporti delle diverse agenzie delle Nazioni Unite evidenziano per alcuni settori, tra cui proprio quello della lotta alla fame e alla povertà, il permanere di trend insufficienti a raggiungere i target fissati.
Nel 1980 veniva prodotto il documento “The Global 2000 Report to the President of US - Entering the 21th Century”, su commissione dell’allora Presidente Jimmy Carter. Nel rapporto si affermava che, qualora si fossero confermate le tendenze allora in atto, “la vita per la maggior parte delle persone sulla Terra sarà più precaria nel 2000 di adesso, a meno che le nazioni del mondo agiscano in maniera decisa per modificare l’andamento attuale”. Qualche anno prima, nel 1972 il Club di Roma, un gruppo di personalità internazionali presieduto da Aurelio Peccei che si interrogava sui grandi “Dilemmi dell’Umanità”, commissionò al System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Technology (MIT) un progetto di ricerca i cui risultati vennero illustrati nel rapporto “The limits to growth” (i limiti alla crescita). Sulla base di un complesso modello matematico vennero prodotti degli scenari per il XXI secolo, analizzando gli andamenti e le interazioni di cinque fattori principali: popolazione, produzione industriale, produzione di alimenti, consumo di risorse naturali, inquinamento.
Scopo dell’intero lavoro era quello di rispondere alla domanda: “quali saranno le conseguenze su tali grandezze se il sistema continuerà ad evolvere secondo gli schemi attuali?”. Le conclusioni contenute nel rapporto possono essere efficacemente riassunte nelle seguenti affermazioni: “Nell’ipotesi che l’attuale linea di tendenza continui inalterata nei suoi cinque settori fondamentali l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale [...] È possibile modificare questa linea di sviluppo e determinare una condizione di stabilità ecologica ed economica in grado di protrarsi nel futuro [...] le probabilità di successo saranno tanto maggiori quanto più presto si comincerà ad operare in tale direzione”.
Secondo i ricercatori del MIT, alla base di tali conclusioni stava l’incompatibilità della tendenza delle grandezze analizzate ad una crescita esponenziale indefinita all’interno di un sistema finito come la Terra. Tra gli aspetti di maggior rilievo messi in evidenza dal rapporto vi era l’estrema rapidità con cui un sistema ambientale sottoposto a pressioni eccessive avrebbe potuto “collassare”. Livelli di pressione tali da compromettere irrimediabilmente e improvvisamente la stabilità del sistema ambientale erano generati negli scenari elaborati dal MIT da fenomeni di crescita esponenziale. Questi venivano efficacemente illustrati attraverso il seguente esempio, preso a prestito da un indovinello francese per l’infanzia: “In un laghetto cresce una ninfea che ogni giorno raddoppia le proprie dimensioni: se potesse svilupparsi liberamente, la ninfea coprirebbe completamente il laghetto in trenta giorni. Se si decide di tagliare la ninfea allorché è arrivata a coprire metà dello specchio d’acqua, quanti giorni restano prima che tutto il laghetto venga ricoperto?”. La risposta giusta è: un solo giorno. Da ciò l’invito ad intervenire nel più breve tempo possibile, anche in considerazione dell’inerzia che ragionevolmente caratterizza sistemi tanto grandi e complessi come quello socio-economico globale.
Nel 1987 nel rapporto “Our common future” della Commissione Brundtland su ambiente e sviluppo, viene introdotto per la prima volta nelle istituzioni il termine di sviluppo sostenibile, definito come quel modello capace di soddisfare “i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro”. Il rapporto è preparatorio al successivo summit mondiale su ambiente e sviluppo delle Nazioni Unite che, nel 1992 a Rio de Janeiro, proporrà una definizione operativa dello sviluppo sostenibile. L’incontro porta alla sottoscrizione da parte di oltre 170 capi di Governo dell’Agenda XXI, che delinea gli impegni degli anni a venire per promuovere lo sviluppo sostenibile, e nella quale si legge: “Alla base degli accordi del Summit mondiale c’è l’idea che l’umanità si trovi di fronte ad un bivio decisivo. Possiamo continuare con le attuali politiche...//... o possiamo cambiare strada. Possiamo agire per migliorare gli standard di vita dei più bisognosi. Possiamo proteggere e gestire meglio l’ecosistema ed essere gli autori di un futuro più prospero per tutti noi. Nessuna nazione può fare questo da sola. Insieme noi possiamo, in una partnership globale per lo sviluppo sostenibile”.
Il documento programmatico di Rio è corredato da una dichiarazione di 27 principi, tra i quali il terzo che afferma: “Il diritto allo sviluppo deve essere attuato in modo da soddisfare equamente i bisogni di sviluppo e ambientali delle generazioni presenti e future”. Tra gli altri si toccano i temi della lotta alla povertà e della promozione del benessere, della partecipazione pubblica, dell’azione e della sovranità locale, del ruolo delle donne e dei giovani, dell’importanza della pace.
Dieci anni dopo, al Summit mondiale delle Nazioni Unite di Johannesburg, si confermano gli impegni e i principi di Rio e viene approvato un vero e proprio piano di azione che contiene, tra l’altro, diversi obiettivi vincolanti, in parte frutto di accordi precedenti. Tra le criticità nell’applicazione dell’Agenda XXI indicate nel rapporto introduttivo del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, si segnalano la mancanza di integrazione, gli scarsi risultati sui modelli di produzione e consumo, la presenza di politiche finanziarie e commerciali incoerenti, settorializzate e a breve termine, la diminuzione degli aiuti finanziari allo sviluppo. Durante il Summit sono sostanzialmente due i principi della dichiarazione di Rio messi in discussione: il principio 7 di responsabilità comune ma differenziata, che prevede di ripartire gli impegni tra gli Stati in funzione della loro responsabilità storica; il principio 15 dell’approccio precauzionale, per il quale la mancanza di certezze scientifiche non può essere utilizzata come motivo per attuare interventi sui cui effetti permangano ragionevoli dubbi. Si tratta proprio di quei due principi che cercano di indicare un metodo per interiorizzare nell’azione politica i caratteri di sfida globale e di imprevedibilità intrinseci al progetto della sostenibilità.
Il dibattito si incentra, gia dal 1987, su quali elementi debbano caratterizzare un sistema socio-economico sostenibile. In particolare diverse critiche sono rivolte al concetto stesso di sviluppo e agli accenni alla necessità della crescita economica come fattore di sviluppo, presenti in molti documenti istituzionali, a cominciare dallo stesso Rapporto Brundtland. In realtà l’ambiguità del termine “sviluppo” viene affrontata e, almeno concettualmente, risolta da molti economisti contemporanei, come Robert Costanza, che nel 1991 chiarisce come: “La sostenibilità non significa un’economia statica o stagnante, ma dobbiamo stare attenti a distinguere fra crescita e sviluppo. La crescita economica, che è una crescita in quantità, non può essere indefinita in un pianeta finito. Lo sviluppo economico, che è miglioramento nella qualità della vita, senza necessariamente causare un incremento della quantità di risorse consumate, può essere sostenibile”.
Tuttavia la questione ancora oggi non può dirsi del tutto risolta. Rimangono alcune importanti elaborazioni che aiutano ad inquadrare meglio la questione. Tra queste assume una particolare rilevanza la distinzione tra sostenibilità economica “forte” e “debole”. Vengono innanzitutto individuati quattro raggruppamenti principali di capitale: il capitale naturale, che include le risorse naturali, i servizi ecosistemici ecc.; quello prodotto dall’uomo, composto da beni fissi e di consumo; il capitale umano, che include la salute, l’istruzione, ecc.; e il capitale sociale, nel quale rientrano i sistemi istituzionale, normativo, e così di seguito. Nell’ambito del paradigma della sostenibilità debole, il capitale naturale e quello umano sono intercambiabili: al capitale naturale può essere, così, assegnato un prezzo internalizzando nel sistema economico i danni ambientali. L’economista Herman Daly definisce la sostenibilità forte come quel paradigma in cui “ il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo sono fondamentalmente complementari e, solo in misura marginale, si possono considerare interscambiabili... (lo sviluppo sostenibile) richiede un cambiamento potenziale nella nostra visione di quale sia il rapporto tra le attività economiche degli esseri umani e il mondo naturale - un ecosistema che è finito, non crescente (stazionario) e materialmente chiuso”.
Lo stesso autore argomenta nel modo seguente la sua critica al primo approccio, quando afferma che “l’internalizzazione delle esternalità è una buona strategia per adattare in modo ottimale l’allocazione delle risorse, facendo sì che i prezzi relativi rappresentino, in modo più appropriato, i costi marginali relativi. Ma ciò non rende il mercato capace di fissare i propri confini fisici assoluti con l’ecosistema più allargato. Per fare una analogia: uno stivaggio appropriato distribuisce il peso nel battello in modo ottimale, così da massimizzare il carico trasportato. Ma c’è ancora un limite assoluto a quanto peso un battello possa trasportare, anche se questo è sistemato in modo ottimale. Il sistema dei prezzi può distribuire il peso regolarmente ma, a meno che non sia integrato da un limite assoluto esterno, continuerà a distribuire uniformemente peso addizionale finché il battello, caricato in modo opportuno, affonda”.
3. La sfida del cambiamento climatico
Tra le principali minacce legate ai cambiamenti globali che l’umanità si appresta ad affrontare, quella del cambiamento climatico desta forse le maggiori preoccupazioni sia in ambito scientifico che istituzionale: da un lato c’è la minaccia rappresentata dalle conseguenze dell’impatto del cambiamento climatico sulla società umana; dall’altro c’è la sfida politica rappresentata dalla necessità di intervenire efficacemente a livello globale su un settore centrale nell’attuale sistema economico come quello energetico. Quello della lotta al cambiamento climatico può essere assunto come paradigma per tutte le altre minacce connesse ai cambiamenti globali.
Dopo molti anni di studi e dibattiti si può oramai confermare un sostanziale consenso a livello internazionale circa l’evidenza del cambiamento climatico e la responsabilità diretta dell’uomo. Nel 1988 il Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) e l’Organizzazione Meteorologica Mondiale hanno dato vita all’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), un organismo cui è stato affidato il compito di valutare lo stato delle attuali conoscenze in materia di cambiamento climatico. L’IPCC coinvolge diverse centinaia di ricercatori provenienti da tutto il mondo e rappresenta il più autorevole soggetto scientifico in materia.
Nel corso del 2007 l’IPCC produrrà il quarto rapporto di valutazione del cambiamento climatico. Ad oggi è stato presentato il contributo del primo gruppo di lavoro, che ha analizzato i progressi compiuti nell’ambito delle basi scientifiche del fenomeno, e dal quale sono stati presi alcuni dei dati riportati nel seguito.
Parlando di cambiamento climatico, coerentemente con l’approccio IPCC, indichiamo solo quello indotto dall’uomo. Il clima, infatti, cambia naturalmente nel corso dei tempi geologici e, in particolare, nelle ultime centinaia di migliaia di anni ha mostrato un andamento ciclico caratterizzato dal susseguirsi di periodi freddi, glaciali, e periodi caldi, interglaciali. Con molta probabilità la principale causa di tali mutamenti naturali può essere ricondotta a fenomeni astrologici, principalmente alla variazione dell’orbita terrestre.
Le concentrazioni in atmosfera dei gas ad effetto serra sono state ricostruite fino ad oltre 650 mila anni fa: le serie storiche ottenute evidenziano una ciclicità negli andamenti delle concentrazioni, cui è associata una variazione delle temperature medie globali con un susseguirsi di periodi freddi e caldi. Oltre diecimila anni fa è iniziata una nuova fase calda (interglaciale) caratterizzata, come le precedenti, da un aumento progressivo delle concentrazioni di gas serra e delle temperature medie globali. La principale differenza rispetto a quanto registrato nelle centinaia di migliaia di anni che hanno preceduto gli ultimi due secoli è un aumento senza precedenti delle concentrazioni in atmosfera di gas serra, che ha portato a raggiungere nel 2005 la soglia delle 380 parti per milione (ppm) di anidride carbonica (CO2) contro un massimo storico registrato di 300, e 1780 ppm di metano (CH4) contro un massimo di 775 ppm: CO2 e CH4 rappresentano i principali gas ad effetto serra. Accanto a tutto ciò, si evidenzia una progressiva accelerazione dell’aumento delle concentrazioni di gas serra in atmosfera, a cominciare dalla CO2: per questa il tasso di crescita dell’ultimo decennio 1995-2005 è pari a 1,9 ppm per anno, a fronte di una media di 1,4 ppm per il periodo 1960-2005.
Come detto all’aumento delle concentrazioni di gas serra è associato l’aumento della temperatura media globale: questa, tuttavia, non ha ancora raggiunto livelli record rispetto a quanto registrato dalle serie storiche disponibili, in quanto il sistema climatico è dotato di una “inerzia” che lo porta a rispondere con alcuni decenni di ritardo rispetto alla variazione dei “parametri forzanti” come le concentrazioni di gas serra. Secondo l’IPCC la maggior parte dell’aumento della temperatura media globale osservato a partire dalla metà del ventesimo secolo è con molta probabilità (con almeno il 90% dei pareri degli esperti favorevoli) da attribuire all’aumento osservato della concentrazione antropogenica di gas serra. Undici degli ultimi dodici anni sono risultati essere tra i dodici anni più caldi mai registrati a partire dal 1850, anno in cui sono iniziate le rilevazioni strumentali della temperatura terrestre. La temperatura media globale è aumentata di 0,76 °C tra il 1850-1899 e il 2001-2005. Sempre secondo il rapporto dell’IPCC gli impatti del cambiamento climatico sull’ambiente sono oramai evidenti, come testimoniano la diminuzione della copertura nevosa e dei ghiacciai montani in entrambi gli emisferi, o la variazione nei regimi delle piogge e l’aumento degli eventi estremi che si manifestano con intensità diverse a scala regionale e continentale.
Nell’ultimo rapporto IPCC, come già in quello che lo ha preceduto, vengono individuate nelle attività umane le principali responsabili del fenomeno di riscaldamento terrestre e, in particolare, l’emissione di gas ad effetto serra derivante dall’uso dei combustibili fossili. A causa dell’inerzia del sistema climatico l’aumento delle temperature e dei livelli degli oceani dovuti alle emissioni antropogeniche proseguirebbe per secoli anche stabilizzando le concentrazioni ai livelli attuali, e le emissioni passate e future continuerebbero a contribuire a tale aumento per oltre un millennio. All’inerzia del sistema si associa il carattere di irreversibilità che contraddistingue tali mutazioni: ciò significa che oltre certi livelli di mutamento sarebbe di fatto impossibile, anche volendo, riportare il sistema climatico, ad esempio, allo stato attuale o ad uno precedente.
Gli impatti del cambiamento climatico sulla società umana non sono facili da prevedere e dipendono, ovviamente, dai livelli di tale cambiamento. In genere gli studi di settore, a cominciare da quelli dell’IPCC, hanno individuato un’ampia serie di effetti negativi potenziali a scala globale (più difficile e controverso lo studio di tali fenomeni a scala locale): questi possono andare dalla riduzione della produzione alimentare all’aumento del tasso di estinzione delle specie viventi, dalla diminuzione della disponibilità idrica all’aumento degli eventi estremi come inondazioni, siccità, uragani, ecc. In ogni caso è bene tener conto che proprio l’inizio dell’attuale periodo interglaciale, circa quindicimila anni fa, ha reso possibile la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento senza le quali, con molta probabilità, l’umanità sarebbe molto diversa da come la conosciamo oggi. In linea del tutto generale si può affermare come il clima abbia effetti rilevanti, di segni opposti, sullo sviluppo della società umana.
Tutto ciò spinge alla necessità di agire con urgenza e in modo efficace per rallentare il riscaldamento globale e stabilizzare il sistema climatico a livelli tali da limitare gli impatti negativi per l’uomo ed evitare mutamenti repentini ed irreversibili (abrupt changes). Al tal fine l’IPCC suggerisce una riduzione delle emissioni antropogeniche di gas serra superiore al 50% non oltre il 2025-2030.
Parallelamente alle azioni di mitigazione, ossia di interventi atti a contrastare il cambiamento climatico, si sono andate sviluppando proposte orientate a promuovere politiche di adattamento, ossia di interventi volti a minimizzare gli impatti del cambiamento climatico agendo “a valle” di esso. I due approcci di certo non devono essere visti in contrapposizione tra di loro, ma in alcuni casi è possibile che politiche principalmente orientate all’adattamento possano portare a trascurare interventi di mitigazione, ad esempio sottraendo delle dotazioni finanziarie.
L’azione di prevenzione ha, ovviamente, un costo economico, ma anche la mancanza di azione lo ha. Nel corso dell’ultima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite (UNFCCC) l’economista Sir Nicholas Stern ha elaborato per conto del Governo britannico un imponente rapporto sugli effetti economici del cambiamento climatico; nel documento si prevede, in mancanza di nuovi e immediati interventi (scenario business as usual), una riduzione annua del PIL derivante dai danni del cambiamento climatico compresa, nei prossimi 100-200 anni, tra il 5 e il 20%.
Lo scenario “alternativo” preso in considerazione da Stern, che corrisponde ad una stabilizzazione della concentrazione complessiva di gas serra inferiore alle 550 ppm, considerato dall’autore un livello di ragionevole sicurezza, ipotizza un rallentamento progressivo del tasso di crescita delle emissioni e una successiva inversione di tendenza, entro 10-20 anni da oggi, seguita da una riduzione netta delle emissioni pari all’1-3% per anno. A causa dell’inerzia del sistema climatico una simile azione, certamente impegnativa, produrrebbe i suoi effetti benefici a partire dalla seconda metà del secolo in corso. Il costo necessario a supportare gli interventi utili a raggiungere tali obiettivi richiederebbe un investimento pari a circa l’1% annuo del PIL, a fronte della perdita stimata sul medio periodi del 5-20% secondo lo scenario business as usual. Ovviamente l’1% annuo è l’investimento richiesto nell’ipotesi di una azione immediata: ogni ritardo ulteriore comporterebbe costi crescenti. Tre sono le azioni indicate nel rapporto Stern: dare un prezzo al carbonio attraverso tasse, scambi e regolazioni; promuovere politiche a supporto dell’innovazione e dello sviluppo di tecnologie a bassa intensità di carbonio; rimuovere le barriere allo sviluppo dell’efficienza energetica e promuovere azioni di informazione e sensibilizzazione.
Secondo Stern l’adattamento da solo non basterebbe, e la mancata attivazione di politiche di mitigazione spazzerebbe via ogni tentativo di adattamento, portando ad una crisi paragonabile a quella delle grandi guerre mondiali e degli anni ’20 del secolo scorso. L’autore arriva ad affermare come la mancata azione, e non l’azione, costituisca il vero ostacolo alla crescita economica, e come “il cambiamento climatico rappresenta il più grande fallimento di mercato che il mondo abbia mai visto”.
Quando Stern afferma che “occorre un’azione comune: nessun paese da solo può fare nulla”, assegna un ruolo centrale nella lotta al cambiamento climatico alla cooperazione internazionale. L’aspetto di globalità della crisi da un lato porta ad una democratizzazione degli impatti, dall’altro obbliga ognuno a fare la propria parte in modo differenziato secondo le proprie responsabilità e possibilità: secondo questo approccio i paesi industrializzati devono sostenere la maggior parte del peso, riducendo le proprie emissioni del 60-80% al 2050. Secondo l’autore la UNFCCC e il relativo Protocollo di Kyoto pongono le basi per un sistema di cooperazione internazionale, ma è necessario spingersi oltre per raggiungere gli obiettivi fissati. Alla base dell’azione di cooperazione vengono individuati quattro strumenti operativi: attivare sistemi di scambi di permessi di emissione; incentivare la cooperazione tecnologica; ridurre i tassi di deforestazione; promuovere l’adattamento, in particolare per i paesi più poveri.
La UNFCC è stata sottoscritta nel 1992, e fissa come obiettivo principale quello di “stabilizzare le emissioni ad un livello tale da prevenire pericolose interferenze antropiche con il clima globale”. Nel 1997 viene firmato il Protocollo di Kyoto, entrato in vigore il 16 febbraio del 2005. Il protocollo impegna in modo vincolante i paesi industrializzati (indicati “Annesso I”) a ridurre le loro emissioni di gas serra complessivamente del 5,2% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2008-2012. Con il meccanismo della suddivisione dei carichi (burned sharing) l’Unione Europea si impegna a ridurre le proprie emissioni dell’8% e l’Italia, al suo interno, del 6,5%.
Ad oggi le emissioni di gas serra dei paesi dell’Annesso I sono complessivamente diminuite, anche se in maniera insufficiente a conseguire il target del -5%. Tale riduzione (-3,3% al 2004) è dovuta essenzialmente al declino delle economie dei paesi in transizione, ossia appartenenti al blocco dell’ex Unione Sovietica: alla fine dello scorso decennio le emissioni di questi Paesi si sono stabilizzate per poi ricominciare nuovamente a crescere, rendendo di fatto il target di Kyoto ancora più distante di quanto può apparire dall’analisi del valore corrente.
L’UE ha ridotto nel tempo le proprie emissioni, ma la dinamica registrata non è sufficiente al conseguimento del target; inoltre, i primi anni del nuovo millennio vedono un’inversione di tendenza in direzione di un aumento delle emissioni comunitarie di gas serra. In questo quadro l’Italia presenta una situazione particolarmente critica, avendo aumentato le proprie emissioni di circa il 13% a fronte dell’impegno di riduzione del 6,5% rispetto al dato 1990.
La storia del Protocollo di Kyoto rappresenta un esempio concreto degli ostacoli che si possono incontrare nel tentativo di affrontare le moderne crisi ambientali globali. Le difficoltà connesse alla conoscenza delle dinamiche dei sistemi complessi hanno ritardato l’azione politica: nonostante il fatto che da più di 30 anni vi siano chiare esortazioni da parte della comunità scientifica a prendere provvedimenti per contenere le emissioni antropogeniche di gas ad effetto serra, solo alla fine degli anni ’90 si è arrivati ad un accordo operativo. L’incertezza connessa ai tentativi di previsione in sistemi come quello climatico ha consolidato nelle istituzioni la spinta all’immobilismo, fino a farne un vero e proprio modus operandi della politica (secondo l’approccio definito “wait and see”): proprio l’applicazione del principio di precauzione è stato, non a caso, uno degli argomenti più discussi nell’ultimo summit mondiale sulla sostenibilità.
Intorno al Protocollo di Kyoto si è andato costituendo un dibattito opaco e contraddittorio. Da un lato si è impugnata l’arma della presunta inefficacia dello strumento di fronte alle dimensioni della sfida rappresentata dal cambiamento climatico, dall’altro si è lanciato l’allarme della perdita di competitività che avrebbe investito i Paesi dell’Annesso I. Il target di riduzione fissato dal Protocollo è chiaramente insufficiente, se isolato, a limitare gli impatti del cambiamento climatico. Tuttavia la sua importanza sta proprio nella possibilità di invertire un trend plurisecolare che caratterizza i Paesi industrializzati, dando inizio a quelle modificazioni dei “modelli di produzione e consumo” indicate come necessarie per indirizzare la barra dello sviluppo in direzione della sostenibilità. La limitazione degli obiettivi di riduzione ai soli Paesi industrializzati va letta soprattutto nell’ottica di un intervento mirato ad intervenire sul modello di sviluppo dominante e di un tentativo di coinvolgere quei soggetti con maggiori capacità di innovazione. In diversi consessi si è fatto esplicito riferimento alla necessità di includere nel meccanismo dei target vincolanti anche i paesi fuori dall’Annesso I, molti dei quali, a cominciare dalla Cina, hanno già dichiarato la loro disponibilità in tal senso. Si tratta di un passaggio necessario, coerente con quanto recentemente indicato dallo stesso Stern, durante il quale è d’obbligo tenere sempre presenti i differenziali in gioco, con le economie in via di sviluppo che ad oggi presentano livelli di emissione pro capite inferiori di cinque volte rispetto a quelli dei Paesi ad alto reddito. Un impegno globale nella lotta al cambiamento climatico è certamente auspicabile, purché sia inquadrato nell’ambito di un generale principio di equità, che tenga conto di quelle “responsabilità comuni ma differenziate” che sono alla base di uno dei principi fondanti dello sviluppo sostenibile.
FAO, Food and Agriculture Organization of the United Nations [1] “The state of world fisheries and aquaculture”
FAO [2] “Global forest resources assessment”
FAO [3] “The state of food insecurity in the world”
WWF, World Wildlife Fund “Living Planet Report”
Millennium Ecosystem Assessment “Ecosystem systems and human well-being”
UNEP, United Nation Environment Programme “Global environmental outlook 3”
IEA, International Energy Agency “World Energy Outlook”
IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change [1] Third assessment report
IPCC [2] “Climate change 2007: the physical science basis” - Forth assessment report
Stern, Sir Nicholas “The economics of climate change”
Commission of the European Communities “Limiting Global Climate Change to 2 degrees Celsius. The way ahead for 2020 and beyond” COM(2007)2
EEA, European Environment Agency “Annual European Community greenhouse gas inventory 1990-2004 and inventory report 2006 - Submission to the UNFCCC Secretariat” tech. report 6/2006
Istituto Sviluppo Sostenibile Italia