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Il Reddito di Cittadinanza in Campania: limiti e prospettive

ANTONELLA MUZZUPAPPA

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Da alcuni anni si è sviluppata anche in Italia una consistente discussione su una forma di reddito/salario svincolata dalla prestazione lavorativa. Il dibattito, tra coloro i quali continuano a richiamarsi, in varie forme, a categorie marxiane per interpretare gli sviluppi e le trasformazioni del capitalismo contemporaneo, è ampio e tutt’altro che unitario. Schematizzando e riassumendo, potremmo dire che il presupposto da cui si parte quando si parla della possibilità di erogare un reddito a cui non corrisponda alcuna prestazione lavorativa, è l’analisi critica degli effetti del capitalismo globalizzato. Come detto, però, le posizioni all’interno del dibattito si presentano anche molto distanti le une dalle altre e vanno da quelle che criticano aspramente l’idea di introdurre un reddito «garantito»1, a coloro i quali, invece, lo rivendicano come misura universale e incondizionata da far rientrare nel novero dei diritti umani2, passando per tantissime posizioni, diciamo così, intermedie3.

Oltre ad essere al centro di un acceso dibattito teorico, il reddito4 è divenuto da molti anni a questa parte la parola d’ordine di tantissimi movimenti sociali. Dai precari ai disoccupati, in Italia come in Europa, sempre più frequentemente le battaglie per il lavoro si uniscono a quelle per la richiesta di un reddito e, in alcuni casi, le istituzioni tentano di reagire alle rivendicazioni dei movimenti, oltre che ad una situazione di disagio sociale oggettivamente insostenibile. È il caso della Campania e della sperimentazione del «Reddito di Cittadinanza» che si sta conducendo dal 2004. In questo breve scritto presenteremo la legge campana e cercheremo di fare alcune riflessioni critiche sul provvedimento. La legge, approvata dal Consiglio Regionale nel febbraio del 2004, riconosce il reddito di cittadinanza come «un diritto sociale fondamentale»5 e, contemporaneamente, come «misura di contrasto alla povertà e all’esclusione e come strumento teso a favorire condizioni efficaci di inserimento lavorativo e sociale»6. Prevede un contributo monetario mensile di 350 euro e, in più, una serie di cosiddette «misure di accompagnamento» che, nell’intenzione del legislatore, si configurano come la parte più importante del provvedimento. Al contributo monetario possono accedere famiglie, che risiedono in uno dei comuni della Campania da almeno 60 mesi e che dichiarano un reddito annuo inferiore ai 5000 euro7. A parità di condizioni economiche e patrimoniali fanno la differenza il numero dei componenti del nucleo familiare, la presenza di portatori di handicap e così via. Ogni componente può fare richiesta del reddito ma ad ogni famiglia non possono essere erogati più di 350 euro mensili, ciascun componente della famiglia, cioè, accede al contributo per una parte della somma. Delle misure non monetarie, invece, beneficiano i singoli componenti delle famiglie aventi diritto al reddito. La legge si impegna a sostenere la scolarità attraverso, ad esempio, la gratuità dei libri di testo, a sostenere la formazione professionale soprattutto dei giovani, a fornire accesso gratuito ai Servizi Sociali e Sociosanitari, a favorire l’emersione dal lavoro nero e irregolare attraverso incentivi all’autoimpiego ed una politica del lavoro regionale e, ancora, a fornire agevolazioni per l’uso dei trasporti pubblici, per le spese di affitto nonché per le attività culturali. Visti i dati, si deduce quanto segue: negli anni della sperimentazione (2004-2005-2006) le famiglie aventi diritto al Reddito sono state mediamente 130-140mila e le famiglie che effettivamente ne hanno beneficiato circa 18000. Per l’anno 2007, delle 146.753 famiglie aventi diritto non più di 20.000 famiglie hanno effettivamente percepito il Reddito8. Insomma, in Campania vi sarebbero circa 130-140mila famiglie effettivamente povere (le stime sono sempre fatte per difetto), con consumi inferiori all’80% della linea di povertà e di queste, coerentemente con la logica che sottende la legge, beneficiano effettivamente del reddito solo le circa 18.000 famiglie che si trovano al di sotto della cosiddetta soglia di povertà assoluta. Per quanto riguarda, poi, le misure non monetarie che, come detto, dovrebbero costituire, nelle intenzioni, la vera sfida del provvedimento campano, il testo di legge stanzia risorse assolutamente insufficienti (11 milioni di euro) a tradurre in pratica gli interventi previsti dall’articolo 6 della legge. Volendo schematizzare, la legge 2/2004 presenta, a nostro avviso, due ordini di limiti. Il primo, peraltro piuttosto evidente e riconosciuto anche dagli stessi rappresentanti istituzionali campani, riguarda l’esiguità dei fondi a disposizione; l’altro, invece, quello a nostro avviso decisivo, attiene all’impostazione generale della misura e all’ispirazione complessiva della legge. Per quanto riguarda l’esiguità dei fondi è evidente che essa si ripercuote negativamente sull’attuazione del provvedimento, anche inteso come semplice misura di contrasto alla povertà. Pochi sono beneficiari anche solo rispetto agli aventi diritto, decisamente insufficiente il contributo monetario e, come detto, per le misure non monetarie vengono stanziate risorse irrilevanti che rendono di fatto inattuabile una parte essenziale di qualsiasi forma di reddito si eroghi. Particolarmente limitante, e anche contraddittorio rispetto al riconoscimento del reddito come diritto individuale, appare, poi, il ragionamento in termini di famiglia. Erogare il reddito su base familiare (350 euro a prescindere dal numero dei componenti del nucleo familiare) è inaccettabile tanto da un punto di vista politico-culturale generale, quanto dal punto di vista economico. Tuttavia è coerente con le politiche che anche la sinistra porta avanti in Italia ormai da anni. L’allargamento della possibilità di fare domanda anche agli extracomunitari, poi, pur presentandosi come un dato formalmente positivo, rimane vincolato ai limiti della cittadinanza formale, essendo legato alla residenza in un comune della Campania. Non solo non si pensa neanche lontanamente di mettere in discussione i criteri della cittadinanza formale ma, stabilendo un minimo di 60 mesi di residenza necessari, si lascia consapevolmente fuori la maggior parte degli immigrati che vivono nella nostra regione. L’insufficienza dei fondi, infine, contribuisce anche al cattivo funzionamento dei meccanismi di controllo delle domande. Tutta l’organizzazione del Reddito di Cittadinanza ricade sui singoli comuni, tanto per la ricezione delle domande, quanto per i controlli ma, alle istituzioni comunali, non viene erogata alcuna risorsa aggiuntiva per fare fronte ad una mole di lavoro certamente rilevante che si va ad aggiungere ai carichi ordinari. Il risultato dell’insufficienza dei controlli delle domande ha fatto si che molte famiglie abbiano percepito il reddito pur non avendone diritto9. Insomma, anche come semplice strumento di contrasto alla povertà, la legge 2/2004 si presenta come un provvedimento insufficiente. Tuttavia, come si è detto, non è questo, secondo noi, il problema fondamentale. Pur essendo molto limitati i fondi, infatti, la misura campana presenta in sé una certa coerenza proprio perché si configura come strumento di contrasto alla povertà piuttosto che come il tassello di una seria riforma redistributiva fondata su un punto di vista critico rispetto agli attuali rapporti di produzione e distribuzione e alla configurazione specifica che essi assumono nella nuova fase globale della produzione e dell’accumulazione. Riteniamo, cioè, che un provvedimento come quello campano, al di là dei limiti strutturali legati anche al fatto che è un provvedimento a carattere locale, sia ispirato ad una logica completamente inserita nelle compatibilità degli attuali rapporti sociali ed economici. Che il reddito non sia in sé una misura rivoluzionaria, è evidente. Se esso, però, perde anche il carattere di riforma radicale, fosse anche solo di riforma della distribuzione, e se non è inserito in un ampio orizzonte politico, critico rispetto all’attuale fase di sviluppo del capitalismo, non può non configurarsi come una caritatevole elemosina che conferma piuttosto che contrastare la miseria creata dal capitale. Del resto, reddito a parte, la Campania in questi anni ha concentrato la maggior parte delle risorse finanziare a disposizione in settori diversi da quelli delle politiche sociali. Se è vero che un provvedimento come quello del reddito non può essere finanziato solo a livello locale è anche vero che la destinazione delle pur limitate risorse a disposizione è frutto di scelte politiche precise. A nostro avviso, il reddito deve configurarsi come un elemento che almeno tenti di mettere in discussione l’assetto complessivo delle attuali condizioni di vita e di lavoro e deve inserirsi in un ampio discorso critico che abbia al centro la domanda sul tipo di welfare adeguato allo sviluppo del capitalismo cosiddetto post-moderno. Da questo punto di vista, è evidente che, innanzitutto, non può configurarsi come una misura a carattere locale ma non può configurarsi neanche come un provvedimento volto esclusivamente al contrasto della povertà, nel senso in cui viene inteso dalla legge campana. Come molti autori hanno già sottolineato in vari articoli apparsi su questa rivista, anche noi riteniamo che il reddito dovrebbe costituire il terreno sul quale tentare la ricomposizione di un soggetto politico diviso e frammentato dalle nuove forme che il lavoro ha assunto e offrire a tutti i soggetti non garantiti l’opportunità concreta di rifiutare la precarietà del lavoro. Da questo punto di vista, riteniamo che si debba lavorare alla costruzione di un movimento sociale che sia all’altezza di una rivendicazione del genere e che sia in grado di costruire rapporti di forza finalmente favorevoli10. È evidente, dunque, che il nostro giudizio sul reddito di cittadinanza campano è un giudizio negativo e che riteniamo necessario criticare fortemente l’ispirazione di fondo della legge e le logiche speculativo-elettorali che la sottendono. Per i motivi che abbiamo brevemente esposto non crediamo sia possibile accettare quel discorso secondo cui 350 euro per 18.000 famiglie sono meglio di nulla per nessuno. La logica dei «pochi, maledetti e subito» è una logica pericolosa che, tra l’altro, crea ulteriore frammentazione all’interno di un soggetto già fortemente diviso. Non crediamo che l’alternativa sia tra questo tipo di contributo e nulla, come molti esponenti istituzionali campani lasciano intendere, anche se siamo consapevoli che la terza alternativa è tutta da costruire e non è priva di difficoltà tanto pratiche quanto teoriche11. Le stesse divergenze e la molteplicità di punti di vista di cui si nutre il dibattito sul reddito, a cui brevemente si è accennato all’inizio, mostrano, tra l’altro, proprio che il tema è molto complesso e non privo di contraddizioni. Ciononostante, nella misura in cui si condivide un ampio orizzonte politico e ci si pone nell’ottica almeno di tentare la messa in discussione dei rapporti su cui si fonda l’attuale sistema di produzione, è possibile, a nostro avviso, tanto continuare il confronto, quanto impegnarsi nella costruzione di un movimento sociale che sia all’altezza della rivendicazione di un reddito che, in mancanza di un lavoro stabile e tutelato, garantisca a tutti condizioni di vita nella media dei paesi europei. Riteniamo cioè che, al di là delle differenze, anche rilevanti, che si esprimono delle diverse posizioni all’interno del dibattito sul reddito, determinate è la condivisione di una prospettiva comune, di quell’ampio orizzonte di critica rispetto degli attuali rapporti economici e sociali, ormai completamente assente in tutti i partiti della sinistra.

Dottoranda in Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli È il caso, ad esempio, di Riccardo Bellofiore il quale ritiene che l’introduzione di un reddito «garantito» avrebbe effetti negativi sulle condizioni di lavoro. Farebbe aumentare i lavori «cattivi» e la precarietà contribuendo, contro le intenzioni, all’indebolimento della capacità contrattuale di tutti i lavoratori. (Per un approfondimento del punto di vista in questione si può vedere, tra l’altro, il dibattito che ha avuto luogo sul quotidiano «Il Manifesto» tra il giugno e l’agosto del 2006 e, ancora, R. Bellofiore, Dopo il fordismo, cosa?, in Parolechiave n.14/15 “Lavoro”, Roma 1998, pp. 213-243). Andrea Fumagalli, per esempio, ritiene che il reddito debba essere erogato a tutti, indipendentemente dalla prestazione lavorativa e della situazione economica in cui ci si trova. (Per le ulteriori argomentazioni di questo punto di vista si può vedere: A. Fumagalli, Dieci tesi sul reddito di cittadinanza, paper, 1999). Tra le tante posizioni ricordiamo quella di Martufi-Vasapollo che intendono il reddito come una misura destinata a disoccupati, precari, pensionati al minimo, ecc. e la concepiscono come una forma salariale sganciata solo temporaneamente dal lavoro, ovvero solo finché non si abbia accesso ad un lavoro stabile. (Cfr., L. Vasapollo, R. Martufi, Profit State, redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo, Napoli 1999) Chiameremo genericamente «reddito» il contributo monetario svincolato da prestazione lavorativa, ma bisogna tener presente che le diverse definizioni che si utilizzano nell’ambito del dibattito («basic income», «reddito/salario garantito», «reddito universale», «reddito sociale minimo», ecc.) sono parte integrante dello stesso e riflettono idee di base e punti di vista diversi. Legge Regionale 2/2004, art. 1.1. Legge Regionale 2/2004, art. 2.1. Il calcolo del reddito viene fatto in base all’ISEE (Indicatore Socio Economico di Equivalenza) che si struttura sulla base di tre elementi: reddito, patrimonio e struttura e caratteristiche del nucleo familiare. Nell’intenzione di avere dichiarazioni che fossero maggiormente corrispondenti alla realtà della situazione economica delle famiglie richiedenti il reddito, all’ISEE (in base al quale non sarebbe possibile calcolare eventuali entrate in nero, per esempio) è stato aggiunto un altro indicatore basato sul consumo, presupponendo che vi sia una relazione diretta tra reddito e consumo. Non entriamo qui nel merito di una discussione sui criteri e gli indicatori che si utilizzano per stabilire il grado di povertà delle famiglie, ci limitiamo solo a dire che la discussione è ampia e molte sono le critiche articolate a questi procedimenti. Resta inteso che per poter accedere alla misura anche il possesso o meno di un motorino può fare la differenza. Ad oggi non è ancora chiaro cosa avverrà per il 2008. I rappresentanti istituzionali campani cercano di ottenere finanziamenti nazionali per continuare a erogare il reddito ma, per ora, non si sa se la misura verrà finanziata. Stando alle poche notizie che abbiamo, si avranno a disposizione probabilmente non più di 30 milioni di euro. Se si vorranno distribuire almeno a tutte le famiglie che fino ad ora hanno beneficiato della misura bisognerà ridurre sensibilmente il contributo (ancora meno di 350 euro al mese per famiglia!), oppure bisognerà ridurre il numero degli aventi diritto (ancora meno di 18.000 familgie!). In alcuni comuni la percentuale di domande false è arrivata fino al 40%. Un tentativo del genere viene, tra l’altro, portato avanti dalla «Rete Nazionale per il Reddito e i Diritti» che nel 1998 ha anche presentato una proposta di legge per l’introduzione di un reddito monetario individuale insieme ad una serie di misure non monetarie che garantiscano un adeguato tenore di vita a disoccupati, precari, pensionati al minimo, ecc. Lo stesso movimento dei disoccupati napoletano, poi, ha fatto propria già da molti anni la rivendicazione di un «salario garantito» in mancanza di possibilità di lavoro e ha più volte pubblicamente criticato la legge campana sul reddito di cittadinanza denunciando, tra l’altro, le ulteriori clientele che essa ha prodotto in un territorio nel quale i meccanismi clientelari sono già la regola del gioco politico e contribuiscono, in varie forme, a dividere i movimenti sociali e a indebolire le loro rivendicazioni. Del resto, ponendoci in maniera anche molto critica rispetto al provvedimento campano, non crediamo di danneggiare coloro i quali fino ad oggi hanno beneficiato del contributo. Crediamo, al contrario, che anche coloro i quali hanno fino ad ora percepito il reddito di cittadinanza, avrebbero tutto l’interesse a prendere parte ad una battaglia per un reddito che non sia una misera elemosina.