1. Terzo Settore tra Stato e mercato:
il dibattito
La crescita e il diffondersi nella società di innumerevoli forme di organizzazione di attività economiche e sociali accomunate dal mancato reinvestimento degli utili per il profitto (NO PROFIT), l’espandersi di un vero e proprio sistema economico fatto di associazioni, fondazioni, cooperative, ONLUS ecc. al di fuori dei due soggetti forti individuati nello Stato e nel Mercato, ha fatto parlare sempre di più di un vero e proprio “Terzo Settore” o anche di economia sociale, o civile, di imprese sociali ecc. La definizione di Terzo Settore è quella che maggiormente si è diffusa in questi anni, sottolineando così l’esistenza di un terzo incomodo rispetto al ruolo del pubblico in economia, delle istituzioni statali, e, dall’altro lato, del mercato delle imprese private orientate verso il profitto. Il carattere di frontiera del Terzo Settore e delle sue organizzazioni ha provocato spesso un dibattito acceso sulle sue caratteristiche, sulle delimitazioni da apportare all’estensione del concetto e dell’analisi concreta delle sue istituzioni, nonché una serie notevole di scritti apologetici o denigratori del ruolo che il Terzo Settore avrebbe nella nostra società. Si è poi messa anche in discussione l’effettiva novità del fenomeno sociale del Terzo Settore, ravvisato da alcuni come mera evoluzione del movimento cooperativistico e mutualistico di vecchia data, mentre da altri, al contrario, lo si è voluto vedere come l’emergere provvidenziale di una “sfera pubblica” non statuale, gestita dal basso, in cui i vincoli di solidarietà e di cura verso la persona aprirebbero una sfida sia alla burocrazia statale che al mercato selvaggio dell’economia privata. Quello che è certo è che il Terzo Settore è stato protagonista, anche di riflesso, di molti dei cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nel mondo della produzione e del lavoro, per cui, nel dibattito, spesso si confondono le posizioni intellettuali ed i giudizi politici su queste profonde modifiche, a partire dal profondo processo di privatizzazione e di precarizzazione del lavoro, dell’egemonia del neoliberismo nella società, della globalizzazione ecc. “Si potrebbe iniziare col seguente problema: che tipo di economia è quella del terzo settore? È un’economia di nicchia, un’extraeconomia o un’altra economia? Anche su questo piano, gli operatori e gli studiosi del terzo settore fanno oscillare continuamente il pendolo. Generalmente si ritiene che debba essere ciò che già è, ovvero un’economia di nicchia che interviene laddove il primo e il secondo settore non vogliono più intervenire o non sanno ancora intervenire” (Tripodi). Lo stare al limite tra stato e mercato, con il conseguente doppio condizionamento, pone questa domanda principale e cioè se siamo di fronte ad un fenomeno economico-sociale in espansione di un’alternativa generale ai due modelli esistenti, con caratteristiche peculiari, positive o negative che siano, oppure siamo di fronte al progressivo scivolare verso il mercato e la forma privatistica di funzioni un tempo proprie dello Stato o, invece, la pervasiva totalità dell’impresa capitalistica sta finalmente trovando un limite in una nicchia di servizi slegati dalla logica del profitto, gestiti direttamente dai cittadini e non inficiati dalla logica astratta e universalistica dello Stato novecentesco. Soprattutto negli anni novanta, quest’ultima ipotesi è stata portata avanti da numerosi autori ed esponenti intellettuali e politici appartenenti all’area della cosiddetta “Sinistra sociale”. Uno dei suoi maggiori esponenti, Marco Revelli, in un libro chiamato, appunto “La sinistra sociale”, riguardo al Terzo Settore affermava che “non si tratta, infatti, né di un’area marginale (di una forma di bricolage sociale affidata ai buoni sentimenti, come molti si ostinano a ritenere), né tanto meno di un settore residuale (la copertura di ciò che sta sotto la soglia di visibilità dei grandi sistemi di allocazione sociale: Stato e Mercato). Si tratta al contrario di una sfera socialmente rilevante in rapida, irreversibile espansione, proprio sotto la spinta di quei processi di trasformazione socio produttiva che segnano la transizione in atto e che la caratterizzano in qualche modo come un vero e proprio ‘salto di paradigma’”.
Secondo la teoria sociologica “relazionale”, il Terzo Settore non nasce dal fallimento dello stato e del mercato, come sostiene la teoria economica neoclassica, ma dall’emersione di istanze sociali e di nuovi soggetti politici. “Ciò che è rimasto costante, nel mutare delle forme empiriche, è stata la volontà, che alcuni attori sociali hanno evidenziato, di rispondere concretamente alle condizioni di bisogno o ai problemi propri o altrui senza rimandare all’intervento dello stato (...) e senza assumere la forma dell’impresa di mercato”. (Colozzi)
Se da un lato le carenze di stato e mercato non possono essere negate, dall’altro un peso fondamentale nel processo di formazione del Terzo Settore è attribuibile ai cambiamenti nella società ad opera dei movimenti sociali (Melucci) che si sono affiancati alla tradizionale carità cristiana, col susseguirsi di movimenti di protesta (movimenti femministi, ecologisti, operai, studenteschi, pacifisti, terzomondisti), mettendo in discussione sia il modello capitalista sia lo stato (in particolare il movimento femminista).
Questa nuova concezione, accompagnata dallo sviluppo su scala internazionale dei grandi movimenti sociali, come quello zapatista, che ricollocavano la politica su basi non statuali e verticistiche, faceva dunque del Terzo Settore un terreno privilegiato di azione politica progressiva e, seppure cogliendone anche complessità e ambiguità, prefigurava in quest’ambito anche una nuova figura politica, quella del “volontario”, che superava in avanti il vecchio “militante” politico che si muoveva nel recinto del Partito e dello Stato nella dinamica novecentesca.
Tale visione, potrebbe apparire, alla prova degli anni, eccessivamente ottimistica, soprattutto nella sua fiducia nella progressiva espansione lineare del Terzo Settore, e comunque è stata criticata sin dall’inizio anche da sinistra e da settori di movimento più critici e più propensi a leggere lo sviluppo del Terzo Settore nel complesso dell’evoluzione economica della produzione, cogliendo nelle citate ambiguità degli elementi fondativi e non accessori: “Ambiguità e vaghezza sono dunque i terreni d’elezione, croce e delizia, del Terzo Settore, gli elementi che lo rendono così interessante. Purtroppo, in questo movimento il Terzo Settore tende a incorporare gli elementi deteriori sia dell’impresa privata sia dello Stato. Dell’impresa tende ad assorbire i caratteri gerarchici, sperequativi, forsennatamente tesi a ridurre il costo del lavoro, e qualsiasi forma di tutela e di garanzia per la forza-lavoro; dello Stato, o meglio dell’economia statale, incorpora gli elementi di assistenzialismo puro, dei risultati direttamente proporzionali alle relazioni con il potere politico e amministrativo” (Tripodi).
2. Qualità del lavoro tra salario
e soddisfazione
Negli ultimi anni lo sviluppo della sussidiarietà nelle politiche pubbliche e negli interventi sociali da parte dello Stato, nell’ambito generale europeo di ridefinizione complessiva anche in termini di contenimento della spesa delle politiche di decentramento, ha visto la crescita del Terzo Settore come agente di soddisfacimento di bisogni di larga parte della popolazione e di redistribuzione di reddito diretto ed indiretto.
All’interno di questa dinamica, la struttura salariale e di comando nelle imprese sociali ha suscitato un particolare interesse da parte degli studi e delle ricerche pubbliche e private, ravvisando fenomeni peculiari nella distribuzione del reddito dei dipendenti, nel rapporto tra dipendenti e volontari, nelle gerarchie interne di lavoro e nella soddisfazione non monetaria con incentivi di partecipazione alle decisioni delle politiche d’impresa: “Da più parti si è sollevata la perplessità che un sistema di produzione di servizi di welfare garantito da organizzazioni no profit, e tra queste l’impresa sociale, potesse portare un progressivo scadimento della quantità e qualità dei servizi offerti, nonché ad un peggioramento qualitativo delle condizioni di lavoro della forza-lavoro impiegata. Per di più la corresponsione di bassi salari nel settore no profit, agirebbe come meccanismo di ‘selezione avversa invertito’, vale a dire capace di selezionare esclusivamente lavoratori con bassi livelli professionali e quindi in grado di produrre output di bassa qualità e rendere l’organizzazione inefficiente (Mosca). Questo evidente problema di deficit salariale, presente in modo particolare nelle organizzazioni alle quali vengono esternalizzati servizi un tempo gestiti dal settore pubblico, è bene evidenziato da molte ricerche ed emerge anche nel Rapporto Istat sul Terzo Settore del 2000. Spesso, però, nelle ricerche e nelle teorizzazioni sull’argomento si è voluta dare una lettura piuttosto discutibile sul rapporto tra il peggioramento delle condizioni di lavoro e di salario e il livello di soddisfazione e di appagamento dei lavoratori. Ad esempio, in Depedri, “la soddisfazione dei lavoratori è influenzata soprattutto dagli aspetti intrinseci e relazionali del lavoro. Ed è la soddisfazione a costruire l’anello centrale della catena: più esso è forte più riesce a rafforzare gli anelli della motivazione iniziale dei lavoratori e della fedeltà all’organizzazione(...). Solo qualora lo stipendio scende al di sotto di una soglia minima esso può compromettere la percezione di equità e di soddisfazione del lavoratore e della sua volontà di restare nell’organizzazione”. Queste considerazioni, che mettono in risalto l’importanza delle relazioni, delle motivazioni ideali, del lavoro “di cura” nel Terzo Settore, sono sicuramente riferibili ad alcuni aspetti e ad alcune situazioni di certe imprese e di certi dipendenti, però non possono essere utilizzate per capovolgere il nesso causale tra salario ed efficienza lavorativa. Il problema è forse capire di cosa si parla quando si fa riferimento a questa “soglia minima” salariale sotto la quale viene percepita l’equità del trattamento riservato al lavoratore. Altre ricerche mettono in evidenza, proprio in riferimento a questo problema, quanto la creazione di posti di lavoro nel Terzo Settore risulti in maggior parte occupazione sostitutiva e non aggiuntiva, nell’ambito del complessivo processo di outsourcing, esternalizzazione e privatizzazione in atto. A questo aggiungiamo anche i livelli di partenza con cui si accede nei posti di lavoro, il livello di formazione e scolarizzazione e, soprattutto, il tipo di contratti utilizzati, sempre più precari ed a tempo determinato. Secondo il censimento del 2001, le istituzioni no profit operano con 629.000 addetti retribuiti, ossia il 3% dell’occupazione nazionale. Il 75% delle risorse retribuite è costituito da lavoratori a tempo pieno, seguono i collaboratori con il 12, 7% e i dipendenti a tempo parziale con il 10, 1%. I dipendenti a tempo pieno risultano concentrati nelle fondazioni e nelle organizzazioni con ‘altra forma giuridica’, mentre i dipendenti a tempo parziale sono più presenti nelle cooperative sociali. La varietà dei livelli salariali nelle organizzazioni del Terzo Settore è molto accentuata soprattutto a seconda delle dimensioni economiche delle organizzazioni, più che per il settore di attività. Il valore aggiunto portato dal no profit nel PIL nazionale è tutt’altro che irrilevante, soprattutto se si considera il campo in cui si creano servizi e prodotti, riuscendo a soddisfare in maniera più adeguata numerosi bisogni rispetto allo Stato ed al Mercato. Ciò non toglie che il Terzo Settore, dal punto di vista della retribuzione salariale dei suoi occupati, presenti una media più bassa rispetto ad altri comparti, coinvolgendo così non solo lavoratori estremamente motivati e portatori di un alto capitale sociale, ma anche coprendo la fascia di quei lavori sottopagati e ‘neoservili’ che altrimenti verrebbero, soprattutto al Sud, ricacciati nella disoccupazione.
3. Gli attori della governance e la
partecipazione alle decisioni
Il Terzo Settore, quindi, ha difficoltà a porsi come baluardo sociale per i lavoratori e i destinatari dei servizi, che sono portati, il più delle volte, ad adattarsi all’offerta presente sul mercato. Allargando il fuoco dell’analisi e uscendo dalle problematiche interne al Terzo Settore, ci si trova a inquadrarlo nel complesso meccanismo della governance, alle cui regole fluttuanti deve continuamente rifarsi, aggiornando le prassi su criteri sempre più difficili da seguire. Cosa accade, dunque, al Terzo Settore nel mare della governance?
Il concetto di governance, come è stato già rilevato nel precedente articolo (Proteo, n. 3/2007), presenta opacità in molteplici punti e la stessa applicazione del modello di riferimento si traduce in una serie di innumerevoli casi disparati difficilmente riconducibili alle iniziali indicazioni europee. Le stesse esperienze di governance locali, prodotte proprio dalle linee generali europee che incoraggiavano, per l’appunto, la nascita di realtà disseminate sui territori relativamente autonome e autovalorizzanti, assumono contorni molto diversi a seconda dei luoghi e degli attori coinvolti nei tavoli concertativi. Ciò, ovviamente, dipende dalla natura degli attori, delle relazioni che si innescano o che preesistono agli accordi, dal contesto sociale ed economico di riferimento e dal ruolo svolto dall’amministrazione pubblica (de Leonardis-Bifulco).
Per governance si intende, in linea di massima, una forma governamentale che persegue il passaggio dal rowing allo steering (focalizzando le politiche sulla definizione degli outputs finali e non solo sulla proprietà dei fattori che li producono), profilando indirizzi, finalità e obiettivi e, in questo, sebbene in forma soft, producendo indicazioni normative che tendono a qualificare, per una determinata area d’azione, gli attori sociali includibili. Bisogna, però, fare un passo indietro e soffermarsi sulla composizione dei tavoli da cui queste linee provengono per poi analizzare il campo d’azione del Terzo Settore all’interno della cornice della governance.
La legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali n. 328 del 2000, “assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione”. La programmazione e l’organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali compete agli enti locali, alle regioni ed allo Stato secondo i principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, responsabilità ed unicità dell’amministrazione. Secondo la 328, gli enti locali, le regioni e lo Stato, nell’ambito delle rispettive competenze, devono riconoscere e agevolare il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, delle organizzazioni di volontariato ecc. I soggetti pubblici, assieme ai soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi (organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati), sono chiamati a provvedere alla gestione ed all’offerta dei servizi. In tal modo, il sistema integrato di interventi e servizi sociali si presenta come un fattore di promozione della solidarietà sociale, con la valorizzazione delle iniziative delle persone, dei nuclei familiari, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità e della solidarietà organizzata, nonché della partecipazione attiva dei cittadini.
Ai comuni spetta definire i criteri di valutazione dei soggetti in condizioni di povertà o con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro, nonchè i soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali, accedono prioritariamente ai servizi e alle prestazioni erogati dal sistema integrato di interventi e servizi sociali.
Questo il quadro previsto per legge. Possiamo trarne alcune valutazioni: per prima cosa, si nota che il Terzo Settore viene legittimato come attore all’interno di un tavolo di programmazione, definizione e attuazione delle politiche sociali sui territori. Si presume, infatti, che esso rappresenti le esigenze dei soggetti deboli e le loro istanze per una partecipazione attiva alla vita sociale e per una qualità di vita migliore. Tale elemento è tutto da verificare, non può essere dato per scontato dal momento che non esistono deleghe: è un atto di fiducia, un atto irrazionale, su cui si basano gli accordi.
Si nota, inoltre, che l’amministrazione pubblica è tenuta a favorire l’avanzamento di attori privati nella gestione di questioni pubbliche (cioè collettive).
Ciò significa che l’amministrazione pubblica non è più il referente dei soggetti svantaggiati e che la sua partecipazione ai tavoli di programmazione non occupa una posizione di rilievo nelle decisioni finali. L’ente pubblico non è più supra partes, e deve farsi valere allo stesso modo degli altri attori. Il ruolo che un’amministrazione può svolgere, però, non è del tutto cancellato: gli enti locali possono decidere i margini entro cui le azioni degli attori si devono svolgere, i criteri da seguire e le finalità.
Ricapitolando: nel modello di governance si prevede la partecipazione orizzontale di più attori nelle concertazioni con ricadute locali; il Terzo Settore partecipa a questa programmazione accanto all’amministrazione pubblica, così come ad altri soggetti (imprese, sindacati ecc.); le amministrazioni pubbliche, però, possono mettere dei freni ad evitare aggregazioni di potere e disuguaglianze nelle erogazioni di servizi, così come nella gestione del personale. Infatti, nella 328/2000 si fa riferimento alla selezione degli operatori e ai criteri in base ai quali essa deve essere attuata: “Gli enti pubblici, fermo restando quanto stabilito dall’articolo 11, promuovono azioni per favorire la trasparenza e la semplificazione amministrativa nonché il ricorso a forme di aggiudicazione o negoziali che consentano ai soggetti operanti nel Terzo Settore la piena espressione della propria progettualità, avvalendosi di analisi e di verifiche che tengano conto della qualità e delle caratteristiche delle prestazioni offerte e della qualificazione del personale.” Agli enti pubblici locali spetta la verifica di quanto accade all’interno dei soggetti operanti nel Terzo Settore, e questo certamente non è un elemento irrilevante, il problema però è chiaro: con che regolarità avvengono questi controlli, e, soprattutto, con quali criteri un ente pubblico valuta la qualità delle prestazioni e la trasparenza dei rapporti di lavoro? Oltretutto, come fare per “garantire ai cittadini i diritti di partecipazione al controllo di qualità dei servizi, secondo le modalità previste dagli statuti comunali”?
Conclusioni
Non è secondario ricordare l’impulso dei movimenti alla trasformazione dei modelli imperanti per ritrovare una linea di possibile azione per la salvaguardia dei diritti. E, in effetti, negli ultimi anni, e non a caso, c’è stato un ritorno dell’ondata movimentista, capace più che mai di cogliere i mutamenti e di farsene carico standoci dentro. il problema attuale, però, è la difficoltà a ricavare spazi di ascolto e confronto, sponde che sorreggano la fragilità dei movimenti, problema che, per gli anni passati, non si presentava allo stesso modo, poiché resistevano altre forme di soggettività politica, altre prassi. Su piccola scala, invece, concezioni municipaliste funzionano, laddove si radicano in una tradizione di “attivazione” dei soggetti locali che risale alla radice delle motivazioni degli individui.
La stessa esperienza del Terzo Settore offre spunti per ricalibrare le asimmetrie riscontrate: “L’esperienza di quelle Onp che sono piccoli fragili laboratori di autogoverno, intanto può gettare un’imprevista luce di speranza sulle vie della politica, ingessate nell’impotenza nella delega e nell’apatia, se e solo se riesce ad accostare in modo nuovo questa priorità organizzativa e potenzialmente politica alla natura economico produttiva della cooperazione. È come se, sorprendentemente, proprio dalla forma di scambio e di iniziativa che sono caratteri del mercato - da sempre considerato luogo di egoismo e alienazione - dovessimo trarre oggi una lezione di empowerment che serve per ripensare i ruoli attivi, l’iniziativa, l’autogoverno nel sociale, che le teorie politiche non sono più progettate a pensare”. (Bazzicalupo)
A partire da iniziative di spesa pubblica e di gestione amministrativa degli indirizzi riguardanti le organizzazioni del Terzo Settore e le politiche sociali, si riscontra un meccanismo perverso del legame tra potere politico e imprese sociali, subordinate al finanziamento pubblico gestito sotto forma di ricatto clientelare. Invece, ciò che dovrebbe costituire la peculiarità di queste esperienze nell’ambito del Terzo Settore, e che andrebbe verso la direzione dell’autogoverno come autopromozione delle risorse e dei finanziamenti, appare come l’elemento rimosso di tutta l’intera faccenda. Se da un lato il ruolo delle amministrazioni pubbliche andrebbe rivisto e riposizionato nella direzione di indirizzi più vicini alle esigenze reali delle persone, al tempo stesso, non si può rischiare di ricadere in una logica assistenzialista ne’ di ricalcare le disfunzioni del pubblico già note, neanche, però, per questo, abbracciare in maniera acritica il modello neoliberista del mercato. I soggetti del Terzo Settore, piuttosto, potrebbero recuperare la forza legata alle motivazioni che li hanno portati ad essere, per la riconquista di un ruolo nella società che sia di promozione di logiche attive, di autogestione. Lavorando per riconquistare una maggiore forza nella contrattazione, si uscirebbe dal ricatto del controllo politico, evitando di ricadere nella gestione privatistica che tende a ridurre i costi e la qualità del lavoro. Il Terzo Settore, quindi, costituisce un grosso potenziale represso, trovandosi ad agire su questioni cruciali come l’ambiente, la cultura, la formazione, la cura, che, se espresso, potrebbe dare avvio a una prassi politica diversa. Questo processo dovrebbe essere attivato tramite un processo di autocomprensione da parte delle stesse organizzazioni che operano, a vario titolo, nel Terzo Settore, che vanno, appunto, perdendo l’originaria mission che li ha visti nascere con uno statuto diverso e non incorporabile nei vecchi modelli di gestione.
Laboratorio Diana - Salerno