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Psicofarmaland, quando il pazzo non c’è più.

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L’economia degli psicofarmaci e le multinazionali della salute

20 - 22 settembre 2007, Napoli, Hotel Royal Continental: la location sul mare rappresenta il nuovo appuntamento del più redditizio parco tematico del mondo, lo Psicofamaland. Un parco itinerante che si trasferisce di città in città, di nazione in nazione, di continente in continente, raccogliendo i favori della stampa locale, nazionale ed internazionale e del suo pubblico, una massa sempre crescente di esperti pronti a trasferire in nuovi e vecchi stores che conquistano il territorio delle scienze e della medicina i miracolosi prodotti e le strabilianti notizie che il parco, nei suoi diversi appuntamenti, elargisce con munifica giovialità. L’evento napoletano è preparato, come sempre, con cura: quella che appare più una società di intermediazione scientifica che un’associazione di ricercatori, la Società Italiana di Psichiatria Biologica, si fa carico di organizzare la show finanziato da Abbott, Angelini, Astrazeneca, Boehringer Ingelheim, Bristol - Myers Squibb, Eli Lilly, Glaxosmithkline, IFB Stoder, Innova Pharma, Italfarmaco, Janssen Cilag, Lundbeck, Novartis, Pfizer, Sanofi - Aventis, Servier Italia, Wyeth. I nomi possono dire poco ai non addetti ai lavori, ma una volta entrati nel parco ci si accorge immediatamente della familiarità di tutte queste sigle: gli stand infatti presentano tutti quei prodotti che, quotidianamente, vengono assunti da milioni di persone per risollevare il proprio morale depresso, vincere i “momenti no” della vita, raggiungere la felicità. Ed accanto a questi prodotti si assiste ad una proliferazione di gadget ed di una straordinaria quantità di eventi. Gli organi d’informazione danno grande risalto all’appuntamento, svelando all’incolto pubblico che a Napoli ci sarà “un evento scientifico con 2500 studiosi da tutto il Mondo”1, ed anticipando, tra l’altro, l’enunciazione di uno strabiliante vaticinio del Professor Kendler: “Depressione, il rischio in un gene”2. Eccitato dalla summa di notizie, deliziato dalla gentilissima accoglienza, sommerso da miriadi di materiali informativi, chi scrive partecipa alle prime giostre già preparato all’emozionante stupore che il progresso scientifico riuscirà a produrre attraverso il disvelamento dei misteri della mente umana. Ma già dalla relazione del Professor Kendelr, resto come un asino cui si mostra innanzi agli occhi la carota per farlo andare avanti, senza che però quella carota gli sarà mai fatta raggiungere. Nella sua Lectio Magistralis, infatti, l’eminente studioso, presenta un’enorme mole di dati, racconta di tanti studi condotti, disegna gli scenari futuri della ricerca scientifica del campo, ma deve mestamente concludere che in tanti anni di ricerca non è stato possibile identificare alcun gene responsabile di malattie psichiatriche ed innanzitutto della schizofrenia, né si è riusciti a dedurre con scientifica certezza quali siano le determinanti neuronali, sinaptiche e subcorticali che determinano l’insorgenza e lo sviluppo patologici. Negli altri appuntamenti proposti le cose sostanzialmente non cambiano: si presentano ipotesi e si tracciano linee di intervento future, ma continuano a mancare dati scientificamente comprovanti la validità delle tesi proposte. Alla fine dell’evento mi sovviene una banale domanda: quello di Napoli è stato un congresso scientifico o un meeting di marketing delle case farmaceutiche? La risposta, molto più complessa di quanto possa apparire, affonda le sue radici non solo nell’evoluzione della prassi di assistenza dei disturbi psichici, ma pure, e forse in maniera addirittura più pregnante, nella modalità di strutturazione della nostra società, nelle risposte che vengono date alle possibilità dell’esistenza, nelle mutanti forme di governo dei viventi, nell’evoluzione neuro genetica della tecno - scienza, negli esorbitanti interessi economici che convergono intorno a questo specifico settore. Nodi che, dagli anni ’50 del secolo scorso, a partire dal terreno ristretto ma ben protetto dei manicomi, lungo i disegni che hanno iniziato ad abbozzare gli psichiatri, si intrecciano l’uno sull’altro fino a costruire le fondamenta di Psicofarmaland. E qui, non solo i termini, ma la natura stessa della “malattia mentale” conoscono un nuovo destino, che coinvolgerà un numero sempre maggiore di donne ed uomini, vecchi e bambini, giovani ed adolescenti. Psicosi, ansia, depressione, disturbo affettivo bipolare, disturbi della personalità, Sindrome da Deficit di attenzione ed Iperattività; neurolettici, ansiolitici, Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina ed antidepressivi triciclici, metilfenidato, stabilizzatori dell’umore e stimolanti, elettroshock e psicochirurgia, camice di forza, corpetti e bracciali per polsi e caviglie. I destini biografici di milioni di persone hanno incrociato ed incrociano, quotidianamente, lungo il reticolato tracciato da queste (e molte altre) espressioni, l’universo del disagio psichico, della nosografia psichiatrica, delle teorie e dei trattamenti proposti. Un universo di nebbie che non si diradano, di folgorazioni di luci fredde, di un cammino che, dalla “liberazione dalle catene”, operata da Philippe Pinel ( questo “grande imprigionamento morale” secondo la definizione di Foucault)3 alle ricerche delle cause genetiche di depressione e schizofrenia, si è intrecciato a quello della “biopolitica”, dell’evoluzione della medicina e della farmacologia (nonché della tecnologia medica), dei movimenti hippy, femministi, sessantottini, della produzione e della pubblicizzazione di massa. Oggi, tuttavia, potremmo celebrare la morte del pazzo. Il pazzo non esiste più. Certo le stime ufficiali affermano che «i disturbi mentali, seppure diversi per qualità e durata, riguardano un adulto ogni cinque, coinvolgendo circa 450 milioni di persone a livello mondiale, 93 milioni in Europa e 2.200.000 persone in Italia. Circa il 50 per cento di tali disturbi si presenta in condizioni di comorbilità e l’esito della patologia è spesso nefasto, dal momento che il numero dei suicidi è di circa 873 mila persone all’anno»4. Al contempo il “Libro Verde sulla salute mentale” della Comunità Europea indica che nella sola Europa quasi 180 milioni di persone soffrono di “mental disorders” (un cittadino su quattro), e di queste ben 18,4 milioni sono “affette” da depressione. I suicidi legati alle patologie mentali determinerebbero un numero di morti superiore a quello dovuto alle vittime di incidenti stradali. Stime destinate a crescere. Se i pazzi non esistono più, quindi, ci sono, in realtà, centinaia di milioni di persone “affected by mental disorders”. La pazzia si è infatti diluita nelle oltre trecento sindromi del DSM IV, il manuale redatto dall’American Psychiatric Association, il Nuovo Testamento della psichiatria mondiale5. I legacci delle camicie di forza sembrano essere sciolti (e tuttavia ancora si assiste a un dilagare di “linee guida per la contenzione fisica dei pazienti affetti da patologie mentali”), la farmacologia, a partire dalla metà del secolo scorso, e via via in modo sempre più imperante, è divenuta la principale metodologia trattamentale in ambito psichiatrico. L’industria farmaceutica ha trovato nell’universo dei “disturbi comportamentali” uno dei settori più floridi (per anni i vari Valium e Prozac sono risultati i farmaci più prescritti e venduti, soppiantati solo nell’ultimo decennio dall’esplosione commerciale del Viagra), per i soli antidepressivi il mercato mondiale, nei primi anni del nuovo secolo, ha raggiunto un valore di poco inferiore ai 20 miliardi di dollari l’anno, le case farmaceutiche hanno investito milioni di dollari nella promozione pubblicitaria dei loro prodotti, lo sviluppo della ricerca genetica e delle biotecnologie assorbe gran parte degli investimenti attuali nel settore. Per alcuni studiosi le classificazioni dei vari DSM, e, soprattutto, la psicofarmacologia che a queste classificazioni è strettamente legata (in rapporti di determinazione reciproca non sempre chiari) hanno fatto sì, secondo un’espressione di Edward Shorter, che « [...] alla fine del ventesimo secolo la “follia” sembra meno terribile»6. L’individuazione delle diverse sindromi psichiatriche quali vere e proprie malattie diagnosticabili e trattabili farmacologicamente avrebbe, secondo quest’opinione, aiutato ad allontanare lo stigma sociale di “pericolosità” e “stranezza” dai pazienti psichiatrici, determinando, anche attraverso il contributo alla progressiva dimissione dai manicomi ed alla restrizione dell’utilizzo di pratiche più invasive ed invalidanti, la trasformazione del “malato di mente” in un comune paziente che, curato, può tornare a vivere in società. Invece, per quanti, da diverse prospettive, criticano l’approccio biologico alla psichiatria7 (o la psichiatria stessa)8, la proliferazione di classificazioni di malattie mentali non avrebbe fatto altro che ampliare il potere di controllo e stigmatizzazione della psichiatria, riproponendo, in chiave biologica o neurologico - genetica, un riduzionismo che ricondurrebbe ogni espressione comportamentale e sociale a motivazioni di ordine “naturale” iscritte ora nei neurotrasmettitori, ora nei geni. I vari DSM non sarebbero altro, quindi, che la trascrizione formale di un’imperante medicalizzazione di quella che, con Illich, si potrebbe definire «una società morbosa nella quale il controllo sociale della popolazione da parte del sistema medico diventa un’attività economica fondamentale; serve a legittimare ordinamenti sociali in cui molti non riescono ad adattarsi, definisce inabili gli handicappati e genera sempre nuove categorie di pazienti»9. D’altro canto, in questa prospettiva, gli stessi trattamenti farmacologici avrebbero una pesante ricaduta iatrogena, favorendo la comparsa di ulteriori patologie sia fisiche che psichiche, mentre si evidenzia che la psicofarmacologia agisce sui sintomi e non sulle cause, e che anzi, spesso, secondo un procedimento definito ex juvantibus10, la determinazione della causa della malattia sarebbe presunta dal beneficio approntato dal farmaco. Chiarificatrice, in quest’ottica, appare l’affermazione, ancora resistente ma ampiamente smentita dai dati di diverse ricerche scientifiche,11 della derivazione serotoninergica della depressione, secondo la quale la depressione dipenderebbe da un basso livello di serotonina nei funzionamenti neurochimici del cervello. In realtà, l’ipotesi non è stata mai dimostrata ed anzi più volte smentita dai dati sperimentali: «Contemporary neuroscience research has failed to confirm any serotonergic lesion in any mental disorder, and has in fact provided significant counterevidence to the explanation of a simple neurotransmitter deficiency. Modern Neuroscience has instead shown that the brain is vastly complex and poorly understood. [...] In fact, there is no scientifically established ideal “chemical balance” of serotonin, let alone an identifiable pathological imbalance. To equate the impressive recent achievements of neuroscience with support for the serotonin hypothesis is a mistake»12. La tesi serotoninergica è piuttosto supportata dal procedimento ex juvantibus, per cui la correlazione tra depressione e scarsi livelli di serotonina sarebbe comprovata dai benefici apportati dai farmaci, nello specifico gli Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina. Comprovazione che presenta, innanzitutto, problemi di logica, visto che, secondo questa prospettiva, si dovrebbe giungere ad affermare che se l’aspirina cura il mal di testa, il mal di testa deriverebbe da scarsi livelli di aspirina nel cervello. Inoltre, studi recenti hanno dimostrato l’efficacia di altre tipologie di farmaci che agiscono su altre classi di neurotrasmettitori, nonché, addirittura l’equivalenza d’efficacia (nell’80% dei casi seguiti in apposite ricerche promosse dalla Food and Drug Admnistration) dei farmaci antidepressivi con dei semplici placebo. Tuttavia, nonostante le smentite scientifiche, l’ipotesi serotoninergica non solo continua ad accompagnare le tesi proposte da Psicofarmaland, ma si assiste all’espansione di questa stessa ipotesi per nuove classi di malattie, con conseguente prescrizione di psicofarmaci: «Although SSRIs are considered “antidepressants”, they are FDA - approved treatments for eight separate psychiatric diagnoses, ranging from social anxiety disorder to obsessive compulsive disorder to premestrual dysphoric disorder» Così «[...] for the serotonin hypothesis to be correct as currently presented, serotonin regulation would need to be the cause (and remedy) of each of these disorders». Tuttavia «This is improbabile, and no one has yet proposed a cogent theory explaining how a singular putative neurochimical abnomarlity could result in so many wildy differing behavioral manifestation»13. Nonostante, quindi, non esistano validazioni scientifiche che fanno dei livelli di serotonina il fattore determinante dell’insorgere e del superamento di presupposti quadri patologici, non solo le case farmaceutiche promuovono i loro prodotti come efficaci, quanto anche gli organi di informazione, più o meno specializzati, rinforzano queste teorie e la conseguente beneficialità della terapia farmacologica, veicolando sia tra gli esperti che nel più vasto pubblico, ipotesi e rimedi mai scientificamente provati. Ed una serie sempre più vasta di comportamenti umani e stati d’animo sembra ricadere in un limbo sospeso tra la normalità e la patologia, uno stato di disordine emozionale ed esistenziale che può essere “aggiustato”, normalizzato dal consumo dei prodotti di Psicofarmaland. Poi, se il disturbo non c’è allora basta crearlo. Il farmaco, per le aziende produttrici, è innanzitutto una merce che deve essere venduta: «[...] proprio questa riduzione a merce» ricorda Agostino Pirella «è stata denunciata qualche anno fa dal Guardian a proposito di un SSRI (paroxetina, nome commerciale in USA: “praxil”, in Italia “seroxat”) che non trovava uno sbocco adeguato. Come si fa per un prodotto qualsiasi, la ditta in questione [...] ha affidato a una agenzia competente [...] la promozione del prodotto. “ Il modus operandi della GlaxoSmithKline - scrive il Guardian - è tipico dell’era post Prozac: promuovere il mercato di una malattia piuttosto che vendere un farmaco”. Attraverso campagne volte ad attirare persone insicure ed in crisi a riconoscersi in una nuova malattia del DSM, il “disturbo d’ansia generalizzato” (GAD) con l’ausilio di pubblicità ma anche con partecipazione a trasmissione televisive di grande ascolto, è stata creata l’attesa per una risposta farmacologica al disturbo che è stato chiamato “fobia sociale” ma anche, con un’elegante metafora, “allergia per la gente”. Una volta preparato il terreno ed ottenuta l’approvazione da parte dell’Autorità, il farmaco è stato gettato sul mercato (ovviamente stimolando anche gli specialisti a prescriverlo). Il Guardian [...] cita i ricercatori che, pur essendo sul libro paga della casa farmaceutica, si spacciavano per esperti indipendenti. Risultato: nel giro di due anni il paxil aveva soppiantato un altro farmaco concorrente come numero due nelle vendite dopo la fluoxetina»14. Di certo, le tesi sulla medicalizzazione sembrano avvalorate dallo smodato accrescimento dello stesso Diagnostic and Statistical Manual [of] Mental Disorders. Nel 1952, anno della sua prima pubblicazione, il DSM I comprende poco più di un centinaio di malattie, oggi, alla sua quarta versione ne individua oltre trecento. Nelle sue pagine sono state segnalate le più svariate possibilità del comportamento umano. Alcune sono state poi cancellate. È il caso dell’omosessualità “deviazione sessuale” che ha smesso di essere una patologia psichiatrica nel 1974, o del disturbo auto - frustrante di personalità (legato al ciclo mestruale) che è assurto al ruolo patologico dal 1987 al 1994, per poi essere accantonato su pressioni del movimento femminista e sostituito con il “disturbo disforico premestruale”, inserito tra le categorie diagnostiche che necessitano ulteriore studio. D’altro canto i gruppi di pressione hanno agito sul DSM anche in senso opposto, come quando nel DSM III viene inserito il “Disturbo postraumatico da Stress” a seguito di una forte richiesta in tal senso dell’influente gruppo dei veterani del Vietnam. La critica di fondo alla psichiatria all’epoca dei DSM e della psicofarmacologia è quindi incentrata su un punto nodale, ben sintetizzato nella postfazione all’interessante testo Psycofarmers: «Al contrario dei rimedi utilizzati [in passato], la nuova farmacologia appare in grado di lenire sintomi specifici senza perseguire l’azzeramento dell’individuo attraverso la narcosi [...] Soprattutto trasforma la nozione stessa di sofferenza psichica, ammorbidendola e diluendola. Dal momento in cui i sintomi psichiatrici sono descritti e disseccati in parti sempre più piccole, si sono difatti moltiplicati e riprodotti in “unità mobili”, non più legate al corpo indefesso del matto, ma libere di circolare nel corpo sociale degli individui “normali”. Gli psicofarmaci, sviluppati dall’industria per de - psichiatrizzare il malato psichico, creano così una nuova attenzione per il “sintomo”, nuove collezioni di disturbi che possono essere oggetto di intervento medico, nuovi modi di intendere individui che sino ad allora erano considerati normali»15. Per Adamo e Benzoni se il DSM pone i sigilli a questa svolta, il suo fulcro resta nella rivoluzione farmacologia iniziata negli anni ’50: le “abbondanti” prescrizioni dei nuovi ansiolitici da parte dei medici di base ad un numero sempre crescente di casalinghe ed impiegati ci dicono come «[...] ancora prima che l’attenzione medica per declinazioni sempre meno chiaramente patologiche del male di vivere sia ratificata dal Manuale ufficiale (il DSM appunto), essa si afferma come prassi e come costume grazie all’evoluzione della farmacologia, nel corso di un processo di progressiva saturazione psichiatrica della normalità»16. Dalla clorpromazina in poi tutti i farmaci psicotropi esercitano i loro effetti attraverso una stimolazione o un’inibizione della neurotrasmissione. I bersagli della psicofarmacologia sono quindi la dopamina, i trasmettitori GABA (acido gamma - amino - barrico) e la serotonina. Tuttavia, gli psicofarmaci quasi mai agiscono su una singola classe di neurotrasmettitori, ed ancora più raramente su un unico dominio funzionale dello stesso neurotrasmettitore: non sono infatti pallottole magiche capaci di colpire un unico bersaglio individuato come unica causa del disturbo. Ed è soprattutto l’azione plurivettoriale degli psicofarmaci la causa primaria dei loro cosiddetti effetti collaterali. Così, già poco tempo dopo la commercializzazione, per la clorpromazina (e per gli altri neurolettici di prima generazione), arrivano i resoconti degli effetti collaterali: rigidità corporea accoppiata a contrazioni e movimenti anomali delle mani e della bocca, con incluse involontarie fuoriuscite della lingua (la discinesia tardiva), gravi disturbi del movimento, aumento di produzione di prolattina con conseguente vera e propria secrezione di latte sia negli uomini che nelle donne (galattorrea), aumento di peso. A questi si associano altri effetti indesiderati, dal deterioramento cognitivo al rallentamento psicomotorio, fino all’idiosincrasia. Molti di questi effetti sembravano essere mitigati con l’introduzione dei neurolettici atipici. Tuttavia è da sottolineare come recenti ricerche hanno fortemente ridimensionato l’opinione che voleva questi farmaci più sicuri e di maggiore efficacia. La successiva svolta psicofarmacologica è quella degli anni 60, quando, riprendendo un’espressione dello psichiatra americano Peter Kramer, inizia l’era della “psicofarmacologia cosmetica”17, l’era, cioè, di quei farmaci comunemente percepiti non come uno strumento utile allo star bene ma quale mezzo per stare meglio18, farmaci che, quindi, si diffondono enormemente, associati, come sono, non più a macrocondizioni patologiche, bensì a condizioni esistenziali della vita quotidiana come possono essere l’ansia e la depressione. Il primo “psicofarmaco cosmetico” è senz’altro il Valium, che già nel 1974 può vantare oltre 70 milioni di prescrizioni. Il Valium è il “figlio” più famoso delle benzodiazepine, prodotti che agiscono sul neurotrasmettitore GABA con effetti ansiolitici, miorilassanti, sedativi ed anticonvulsivanti. Usate dai tossicofili, invece, aumentano gli effetti euforizzanti e stimolanti di cocaina, oppiacei, anfetamine ed alcool, aiutano a controllare la fase euforica nel consumo di droghe lisergiche come l’ecstasy, e alleviano i sintomi di astinenza. La loro scoperta è dettata dall’esigenza commerciale della Roche di immettere sul mercato un farmaco psicosedativo, e dopo la commercializzazione del Librium, il boom commerciale avviene appunto con il Valium, oggi venduto con un bugiardino sul quale l’FDA ha obbligato la dicitura “l’ansia e la tensione associate allo stress della vita di tutti i giorni generalmente non necessitano una terapia con farmaci ansiolitici”. Molteplici gli effetti collaterali che, oltre a dipendenza e sindrome d’astinenza, variano a seconda del dosaggio (da un abbassamento della soglia del sonno con correlato rischio di suicidio ed un calo della concentrazione e dei tempi di reazione con dosaggio corretto, alle amnesie, alle reazioni emotive abnormi, all’aumento dell’ansia, dell’agitazione, dell’irritabilità e di comportamenti violenti ed antisociali con dosi incongrue, fino alla profonda sedazione e coma con conseguente morte per depressione delle vie respiratorie con dosi massicce). Inoltre gli usi prolungati nel tempo ne aumentano la tolleranza, provocano un deterioramento delle competenze cognitive, comportano difficoltà di attenzione e memorizzazione, causano abulia ed apatia. Ma se si volesse cercare un farmaco che realmente ha segnato un’epoca, allora non si potrebbe fare a meno di indagare il successo commerciale, sociale ed artistico del Prozac. Il farmaco che presto diviene un vero e proprio simbolo, in realtà, è l’evoluzione dei primi antidepressivi: i triciclici. Agendo sui neurotrasmettitori delle amine (noradrenalina, dopamina e serotonina) il loro utilizzo contribuisce al diffondersi dell’ipotesi della “natura” aminergica della depressione. In realtà non è chiaro quali siano i meccanismi che sviluppano le manifestazioni cliniche del loro utilizzo, né perché il loro effetto non è immediato ma diluito in un lasso di tempo più o meno ampio (dalle due alle tre settimane). Di certo, la loro azione su più neurotrasmettitori comporta una vasta serie di controindicazioni, come l’aumento della tendenza al suicidio, la comparsa di tremori, brividi, contrazioni, febbre, diarrea, tachicardia (probabilmente dovuti all’azione sulla serotonina), oltre che gli effetti anticolinergici (dovuti all’azione sull’acitilcolina) quali offuscamento della visione, secchezza del cavo orale, ritenzione urinaria, stipsi, aggravamento del glaucoma, sonnolenza diurna, cefalea, aumento dell’appetito e del peso, scompensi cardiaci, accentuazione dei sintomi maniaco - depressivi. Molti di questi effetti sembravano essere stati scongiurati con l’introduzione degli Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina, gli SSRI, di cui proprio il Prozac è il prodotto più celebre. Esercitano la loro azione bloccando il recupero della serotonina (ricaptazione) da parte del neurone che l’ha rilasciata nel processo sinaptico di neurotrasmissione, facendo sì che la serotonina permanga per un lasso di tempo maggiore nello spazio sinaptico. Anche in questo caso l’effetto non è immediato, e seppure si pensava che gli SSRI generassero un minor numero di effetti collaterali rispetto ai triciclici, tuttavia sono spesso causa di nausea, cefalea, insonnia e riduzione dell’appetito e del desiderio sessuale oltre che dell’aumento di una tendenza al suicidio. Inoltre, come anche gli altri antidepressivi, anche gli SSRI generano fenomeni di dipendenza. In realtà, l’universo psicofarmacologico appare avvolto da una nube oscura quando si cerca di verificarne la portata degli effetti cosiddetti “collaterali”. Soprattutto quando, all’interno della routine assistenziale dei servizi psichiatrici si fa uso delle cosiddette politerapie che coinvolgono soprattutto la popolazione con disturbi psichiatri maggiori. Recenti ricerche cui ha partecipato l’Istituto Mario Negri hanno evidenziato non solo l’assoluta carenza di dati di farmacosorveglianza, ma anche verificato come, all’interno delle strutture assistenziali si utilizzino spesso terapie irrazionali con prescrizioni ad uno stesso paziente di più farmaci che contengono gli stessi principi attivi, mentre, « [...] il dato certo (riconosciuto senza dibattito, dai testi di terapia più accreditati) è l’inutilità di combinare più principi attivi della stessa categoria per ricercare una migliore efficacia»19. Non solo, si giunge addirittura a verificare che « [...] la segnalazione esplicita di un’associazione tra farmaci ed effetti collaterali comporta raramente un cambiamento di prescrizione [...] Da notare che solo nella metà dei casi [...] un giudizio esplicito di inefficacia comporta un cambiamento di prescrizione (per lo più quantitativo molto raramente di principio attivo»20. Come dire, se pure la risposta alla terapia non è quella desiderata, e seppure emergono effetti collaterali, la somministrazione di farmaci resta pressocchè invariata. D’altro canto, si deve anche aggiungere come, in realtà, la percezione degli effetti indesiderati sarebbe decisamente più alta se non fosse limitata ai soli operatori sanitari ma, piuttosto, venisse estesa, ad esempio, al nucleo familiare del soggetto psichiatrico. I risultati di un’indagine inserita nell’ambito di un programma di farmacosorveglianza attiva promosso dall’Agenzia Italiana del Farmaco, sono in questo senso inequivocabili.21 La stessa indagine evidenzia la prevalenza delle politerapie, il trattamento con antipsicotici anche per pazienti cui non è stata diagnosticata alcuna forma di psicosi, la forte carenza di interventi personalizzati, la preoccupante prescrizione di dosi superiori a quelle consigliate. Il quadro che emerge ci dice come all’interno di servizi psichiatrici carenti di fondi e personale, nonché inseriti in un quadro di riferimento teorico (nazionale ed internazionale) che punta piuttosto alla risoluzione sintomatica assicurata (almeno in parte) dai farmaci, che non alla presa in carico reale della sofferenza psichica, i prodotti di Psicofarmaland siano utilizzati con una certa carenza di criticità: così, ad esempio, pur nell’assenza di dati affidabili di efficacia, si assiste ad una «elevatissima frequenza di prescrizione di antiepilettici come “stabilizzatori dell’umore”»22. Nel frattempo, come già evidenziato, gli interessi di Psicofarmaland, evadono i campi più prettamente psichiatrici, ed oggi, ad esempio, un’attenzione sempre più rilevante è concentrata sulle competenze e capacità cognitive e della memoria. Si moltiplicano, così, farmaci o prodotti della più svariata natura che promettono il potenziamento di queste funzioni: i giornali annunciano la prossima commercializzazione di un “Viagra per il Cervello”23, in America sono sempre più richiesti gli health food stores dove gli scaffali offrono pillole di tante misure e colori per superare gli “esami della vita”, ed in Internet impazza un mercato vasto ed incontrollato sul quale sarebbe interessante approntare una più vasto studio. E se, purtroppo, nell’ambito delle ricerche sulle funzioni cognitive e della memoria, restano ancora lontani da risultati definitivi e universalizzabili gli studi su patologie organiche conclamate come l’Alzheimer, per altre presunte malattie, come la Sindrome da Deficit di Attenzione ed Iperattività (di cui sarebbero affetti migliaia di bambini), si assiste, da oltre un anno anche in Italia con appositi centri regionali, ad una somministrazione massiccia di farmaci, innanzitutto il Ritalin, uno stimolante a base di metilfenidato che ha effetti piuttosto simili a quelli delle anfetamine24. Seppure agisce principalmente sulla ricaptazione della dopamina, come per la maggior parte degli psicofarmaci, non sono chiare né la gamma completa delle sue interazioni biochimiche né le modalità d’azione. Di certo il Ritalin funziona, agevola la vita di insegnanti e genitori, aiuta il contenimento di comportamenti considerati anormali. Risulta più difficile affermare che “curi” una presunta sindrome. D’altro canto i bambini rappresentano, per il mercato psicofarmacologico, un cliente estremamente affascinante. Il 9 giugno 2006 l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMEA) ha dato parere positivo alla somministrazione di Prozac ai bambini dagli otto anni in su. Secondo l’agenzia, infatti, i benefici sono superiori ai rischi nei casi di depressione da moderata a grave nei quali la psicoterapia non abbia dato frutti. Tuttavia il placet alla somministrazione di Prozac è condizionato “a un protocollo ben preciso”: se il farmaco ha dato prova di avere effetti positivi, deve comunque essere usato solo in associazione a psicoterapia e solo nel caso in cui il piccolo paziente non abbia risposto alle prime 4 - 6 sedute di analisi. La commissione indica anche il dosaggio consigliato, ma a colpire sono soprattutto le raccomandazioni conclusive: se dopo 9 settimane non vi sono segni di miglioramento la cura va sospesa, si chiede a genitori e terapisti di sorvegliare attentamente i ragazzi, soprattutto all’inizio del trattamento, per capire se vi siano tendenze suicide. L’impatto del farmaco sullo sviluppo sessuale e sul comportamento emotivo dei pazienti, nonché la tossicità della molecola, comunque, saranno poi ulteriormente studiati. Sarà Eli Lilly ( la stessa casa produttrice della “pillola della felicità”) a mettere a punto un sistema per raccogliere dati sugli effetti del farmaco nei bambini cui sarà somministrato. Si evince, quindi, che il farmaco può comportare una serie di controindicazioni, fino all’istinto suicida, che la commissione tuttavia considera rischi minori rispetto ai benefici, lasciando il controllo di questi possibili “effetti collaterali” ai genitori ed alla casa farmaceutica. Non volendo indagare l’effettività e la competenza necessari per un reale potere di controllo dei genitori, si deve richiamare l’attenzione sul ruolo delle case farmaceutiche. Secondo un documento del nostro Comitato Nazionale di Bioetica: « [...] l’industria spesso non fornisce ai medici un’informazione neutrale e completa, ma un’informazione già indirizzata creata nei propri uffici; [...] l’industria promuove solitamente i medicamenti più recenti e costosi e a tal fine a volte elargisce ai medici vari tipi di “doni” che inducono nei sanitari un atteggiamento incline all’iperscrizione o alla prescrizione dei farmaci più costosi; l’industria controlla ed indirizza la ricerca attraverso i finanziamenti che elargisce all’Università; l’industria a volte corrompe ricerche non favorevoli o ne impedisce la pubblicazione. In altri casi distorce una ricerca in corso sostituendo gli obiettivi (end points) primari con obiettivi surrogati; i dati bruti delle sperimentazioni clinico - farmacologiche rimangono spesso nelle mani dell’industria e non vengono mai messi a disposizione dei ricercatori che li hanno prodotti; [...] le riviste scientifiche non pubblicano articoli con dati negativi perché di scarso interesse scientifico o commerciale; l’industria condiziona, attraverso la pubblicità, le maggiori riviste mediche, i cui referees spesso hanno rapporti di dipendenza economica dalle aziende; i medici che redigono le rassegne o le linee guida sovente non sono davvero indipendenti dalle industrie; anche le pubbliche amministrazioni spesso non sono indipendenti dalle industrie»25. Nel frattempo, in America, poco più di un anno fa, il Comitato Consultivo del FDA ha sancito l’obbligatorietà, per gli psicofarmaci infantili, di un riquadro nero sulle confezioni che ne esplicitasse i gravi effetti collaterali, mentre nel maggio del 2006 lo Stato del Missisipi ha denunciato la Eli Lilly (la stessa casa produttrice del Prozac a cui l’EMEA chiede i dati sui possibili effetti del farmaco sui minori) per promozione illegale e danni derivanti dall’antipsicotico Zyprexa. L’esplosione di un mercato della salute in continua espansione e sempre meno controllabile non si sarebbe potuta realizzare se, al di là delle evidenti motivazioni di natura economica, non ci fosse, in realtà, un agente culturale di fondo che permette il permeare, sia tra i ceti cosiddetti intellettuali sia tra gli strati più popolari, di un’idea sempre più “patologica” di tutto quanto possa apparire deviante o anormale. E le stesse scienze deputate a farsi carico della sofferenza psichica rischierebbero una “colonizzazione neuro - scientifica”: «La psichiatria rivela tutta la sua precarietà in funzione dei movimenti socio - culturali e degli assetti politici con cui si confronta e ai quali il più delle volte si adatta supina [...] Ma ancora di più quando subisce (rischia di subire), sul piano scientifico una sorta di colonizzazione. [...] se si immagina un asse orizzontale lungo il quale si dispiega il sapere psichiatrico, possiamo porre a un suo estremo le articolazioni con la filosofia [...] e con le altre discipline umanistiche e all’altro quelle con le scienze biologiche. Qui sta il rischio della colonizzazione della psichiatria da parte delle discipline neuro - scientifiche che ne rappresentano il volto naturalistico», ed in questo rischio di colonizzazione un ruolo fondamentale viene giocato proprio dalla psicofarmacologia: « [...] oggi nessuno dubita dell’importanza della psicofarmacoterapia, ma è inaccettabile che essa venga considerata l’unico mezzo valido di cura. Così come non è ammissibile che la causalità dei disturbi psichici venga ricondotta ai suoi soli fattori genetici e/o alla disfunzione di questa o quella struttura encefalica. Così facendo ci si rassegnerebbe a quella che ho chiamato la colonizzazione neuro - scientifica della psichiatria. E si peccherebbe di un riduzionismo che mira a identificare tout - court il cervello con la mente, mettendo in sordina il dibattito psicologico, filosofico, etico e teologico che da decenni è in corso sui rapporti tra le due suddette entità categorialmente distinte»26. In realtà, la psichiatria si iscrive appieno in quelle pratiche del governo del sé che, in epoca moderna, seguendo la lezione di Foucault, possiamo definire come presa in carico della soggettività attraverso adeguate tecniche comportamentali. Tecniche che, oggi, necessitano di un aggiornamento dovuto alle profonde modificazioni sociali che, riconoscendo nel consumo l’unica ideologia dominante, hanno via via determinato l’instaurarsi di quella che è stata definita la società del rischio: «Sul piano più propriamente politico, abbiamo assistito, nel corso degli ultimi decenni, al progressivo smantellamento di un certo modello di “governo del sociale”, quello appunto garantito dall’azione combinata dello Stato sociale, fondato sull’egemonia del lavoro salariato, e dello stato di diritto, basato sul riconoscimento e la tutela dei diritti individuali. Il ritorno del mercato come solo, grande regolatore sociale, fa oggi riemergere antiche paure ed inquietudini, espone gli individui alle vecchie ossessioni legate all’erosione delle protezioni ed alla vulnerabilità delle condizioni materiali e immaginarie dell’esistenza. E il prodotto di quella che è stata chiamata la “società del rischio”, la società neoliberale informata dal motto “vivere pericolosamente” non è più la pura e semplice esclusione, assicurata un tempo dalle grandi istituzioni totali»27. Questa società basata sull’insicurezza è una società atomizzata e precarizzata in cui la costruzione identitaria richiede nuove tecnologie e nuove modalità di “presa in carico” delle individualità somatiche: «Da un lato, vi è stata una crescita esponenziale della domanda di forme di protezione e securizzazione alternative, innestata sul circuito della fornitura privata di soluzioni compensatorie. Dall’altro, la rottura del patto sociale che è conseguita alla riduzione dello Stato a semplice macchina amministrativa al servizio del mercato, ha accelerato la nascita di una società dell’insecuritas contrassegnata dall’aumento dell’atomizzazione e dell’anomia, dalla precarizzazione tanto delle relazioni di lavoro quanto di quelle affettive e relazionali, e infine dalla proliferazione di nuovi rischi e nuovi pericoli. E tutto ciò ha favorito la nascita e la diffusione di nuove tecnologie e di nuove modalità di presa in carico e di gestione della vita e di quei viventi che sono i soggetti chiamati a vivere secondo un tipo di individualità accuratamente fabbricata e con cui è urgente misurarsi di nuovo criticamente»28. Ecco allora emergere il discorso della medicalizzazione che, se da un lato produce sempre nuove categorie di devianti, dall’altro dà vita a processi sempre più capillari di soggettivazione e, quindi normalizzazione, proprio perché svanisce un netto confine tra normalità e patologia, lasciando il posto ad una fluidità esistenziale dove ogni volta ci si potrà scoprire “normali” o “anormali”, “sani” o “malati”. D’altro canto, come già sosteneva Gilles Deleuze si è compiuto il passaggio (o meglio la sovrapposizione) delle società disciplinari e di quelle del controllo: «Certo non si fa altro che parlare di prigione, di scuola, di ospedale: queste istituzioni sono in crisi. Ma, se esse sono in crisi, lo sono precisamente, in lotte di retroguardia. Stanno prendendo piede, seppure a tentoni, nuovi tipi di sanzione, di educazione, di cura. Gli ospedali aperti, le èquipe curanti a domicilio ecc. sono apparsi già da molto tempo»29. Il passaggio a queste nuove forme di controllo che quali nuovi dispositivi non cancellano quelli disciplinari, ma ad essi si sovrappongono modificandoli e modificandosi, crea non poche difficoltà di ricognizione e comprensione del reale e delle nuove modalità di assoggettamento cui sono sottoposte le singolarità. Il “clima” di pericolo che viene costantemente alimentato, l’arretramento dello stato sociale, l’elevata conflittualità intersoggettiva assopita però in un assoluto disinteresse dell’altro o piuttosto nella creazione di nuovi “mostri” mediatici da mettere in prima pagina, sono elementi funzionali a queste nuove forme di governo delle singolarità. La psichiatria, quale scienza che agisce concretamente sulla vita dei singoli corpi e sul loro destino è parte in causa di questi processi. Essa agisce nella percezione dell’alterità che va a definire “sana” o “malata” sì da escludere responsabilità della società stessa naturalizzando i sintomi e ponendo, consequenzialmente l’altro ad una distanza abissale. Lo affermano già Franco e Franca Basaglia nell’ introduzione all’Asylum di Goffman: «Dal momento della liberazione di Pinel, dalle carceri della Bicêtre, dov’erano confusi con la colpa e il peccato, si è assistito ad una sorta di dilatazione scientista in cui l’area delle devianze e delle malattie mentali si è andata mano a mano enfatizzando, assorbendo il terreno stesso, da un lato, della delinquenza, e dall’altro del disadattamento. La nostra società attuale preferisce definirsi “malata” anziché riconoscere nelle proprie contraddizioni il prodotto del sistema su cui si fonda. In un certo senso, la malattia deresponsabilizza sia la società che il singolo; il terreno delle competenze risulta confuso, soprattutto nella misura in cui la malattia conserva in sé una parte oscura di colpa, e la colpa una traccia della malattia»30. E questa deresponsabilizzazione necessita di nuove singolarità da escludere: «[...] ora è stata smascherata la funzione dei malati mentali come uno dei “capri espiatori” di un sistema che ha bisogno di aree di compenso per sopravvivere, e si tenta di correre ai ripari attraverso la liberalizzazione degli ospedali psichiatrici. La faccia sociale della malattia mentale potrà forse incominciare a mutare attraverso la nuova cultura che verrà creandosi e, forse, sarà possibile incominciare ad occuparci della malattia in quanto tale. Ma, in questo caso, quale sarà la nuova area di compenso, qualora il malato mentale venga riabilitato e reintegrato nella nostra attuale società? Un sistema fondato sull’ideologia dell’opulenza non può risolvere né smascherare le sue contraddizioni, che le ideologie sono appunto deputate a nascondere. Quali saranno dunque i nuovi out da escludere e da coprire?»31. I rischi sono proprio quelli di una nuova forma di medicalizzazione che oggettivizza, naturalizzandola le forme di “devianza”: «Basterebbe assorbire - e ce ne sono già le indicazioni - nella sfera delle devianze ogni disadattamento, ogni segno di rifiuto nei confronti del tipo di società in cui si è costretti a vivere, e farli cadere sotto la giurisdizione psichiatrica, per costruire scientificamente un nuovo alibi, che converta in patologia ciò che è aperto segno di dissenso verso una vita invivibile, che può ancora essere diversa. [...] Tutto ciò può essere facilmente tacciato di ovvietà. Non è una novità individuare e rifiutare la sopraffazione dell’uomo sull’uomo; non è una novità cercarne le cause, rifiutando di coprirle ancora sotto il pregiudizio. Ma finchè la sopraffazione e la violenza sono ancora l’ovvio leitmotiv della nostra realtà, non si può che usare parole ovvie, per non smascherare sotto la costruzione di teorie apparentemente nuove il desiderio di lasciare le cose come sono»32. Il giro di giostre di Farmacoland non si ferma, il consumo di psicofarmaci in nazioni come l’Italia continua a salire33, i nuovi consumatori sono soprattutto i più giovani: Il viaggio, appena iniziato, del nuovo secolo è ancora tutto da realizzare, per molti versi la destinazione sembra essere Il mondo nuovo di Huxley. Rodotà, in suo ultimo lavoro, afferma che « [...] questo brusco ricondurre il corpo in una dimensione che ne esalta solo l’immediata materialità, fisica o elettronica che sia, riduce la possibilità stessa di una sua integrale conoscenza, fatta di processi biologici complessi, di relazioni con l’ambiente, di rapporti con gli altri esseri umani. Il corpo esce dalla vita, e la vita abbandona il corpo»34. A noi, se è concesso lanciare un invito, restano i versi di Bertold Brecht: «E - vi preghiamo - quello che succede ogni giorno/ Non trovatelo naturale./Di nulla sia detto: è naturale/ In questo tempo di anarchia e di sangue, / di ordinato disordine, di meditato arbitrio, /di umanità disumanata, /così che nulla valga/come cosa immutabile».

dottore di ricerca in bioetica, Università di Napoli Federico II Le nuove frontiere della psichiatria biologica, in “Il Mattino”, speciale dedicato all’evento, 20 settembre 2007. Depressione, il rischio in un gene, in “La Repubblica Napoli”, 20 settembre 2007. M. Foucault, Historie de la folie à l’age classique, tr. It. di Franco Ferrucci, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 2004 p. 437. Cfr Relazione della 316a seduta della Commissione Parlamentare italiana di Igiene e Sanità, martedì 14 febbraio 2006. È allo studio un aggiornamento del manuale con una quinta edizione prevista per il 2011. E. Shorter, A history of psychiatry. From the era of the Asylum to the age of Prozac, John Wiley e& sons, London, 1997, tr. It. di A. Noseda, a cura di C. Mencacci, Storia della psichiatria. Dall’ospedale psichiatrico al Prozac, Masson, Milano, 2000, p. 319. Per una critica complessiva, efficace e dettagliata, all’approccio biologistico della psichiatria si rimanda a F. Di Paola, L’istituzione del male mentale, critica dei fondamenti scientifici della psichiatria biologica, Il Manifesto, Roma 2000. Per una critica diretta specificamente agli stessi presupposti scientifici di tale approccio, invece, il testo di maggiore efficacia resta S. Rose, The 21st Century Brain. Explaining, Mending and Manipulating the Mind, Jonathan Cape - Random House London, London 2005, tr. it. di E. Faravelli, Il cervello nel ventunesimo secolo. Spiegare, curare e manipolare la mente, Codice edizioni, Torino, 2005. Per questa “critica radicale” si rimanda soprattutto alle opere di T. Szasz. I. Illich, Limits to medicine - medical nemesis: the expropriation of health, Marion Boyars, London, 1976, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Mondadori, Milano, 1977, p. 51. Bignami G., Disease Models and Reduction Thinking in the Biomedical Sciences, in S. Rose (a cura di), Against Biological Determinism, Allison and Busby, London 1982, pp. 94 - 110. Si veda, per una prima disamina della questione, J. R. Lacasse, J. Leo, Serotonin and Depression: A Disconnect between the Advertisments and the Scientific Literature, open - access article, in “Plos Medicine”, November 8, 2005, consultabile sul sito http://medicine.plosjournals.org. Idem. Idem. A. Pirella, Salute mentale e poteri del mercato. Il dominio della psicofarmacologia e le sue contraddizioni, relazione consultabile sul sito www.giulemanidaibambini.it. P. Adamo, S. Benzoni, Psycofarmers, , Isbn, Milano, 2005, p. 278 Idem, p. 279 P.D. Kramer, The new you, in Psychiatric Times, march 1990, pp. 45, 46. Cfr. P.D. Kramer, Listening to Prozac: A Psychiatrist Explores Anti - Depression Drugs and the Remaking of Self, Fourth Estate, London, 1993. AA.VV., Epidemiologia dell’appropriatezza e della sicurezza dei trattamenti farmacologici nella prática assistenziale dei Servizi Psichiatrici Territoriali», in corso di pubblicazione. Idem Cfr. Farmacosorveglianza dei farmaci antipsicotici con la partecipazione dei familiari, in Bollettino d’informazione sui farmaci XIII n.3, 2006, AIFA - Ministero della Salute. AA.VV., Epidemiologia dell’appropriatezza e della siucurezza dei trattamenti farmacologici nella prática assistenziale dei Servizi Psichiatrici Territoriali», cit. Cfr. Langhreth R., Viagra for the brain, in “Forbes”, 4 febbraio 2002. Per l’ampia raccolta di dati e documenti, nonché per gli spunti di letteratura che offre si rimanda, per un approfondimento sul tema dell’ADHD, al portale www.giulemanidaibambini.org della campagna nazionale di farmacosorveglianza attiva “Giù le mani dai bambini”. Cfr., Conflitti d’interessi nella ricerca biomedica e nella pratica clinica, documento approvato nella Seduta Plenaria dell’8 giugno 2006, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Comitato Nazionale per la Bioetica. Su questo tema si vedano pure M. Angeli, The truth About the Drug Companies. How they deceive us and what to do about, tr. it. di S. Viviani, Farma&Co. Industria farmaceutica: storie di ordinaria corruzione, Il Saggiatore, Milano, 2006; J. Blech, Die Krankheitserfinder. Wie wir zu Patienten gemacht werden, S. Fischer Verlag GmbH, Frankfurt am Main, tr. it di E, Bacchetta, Gli inventori delle malattie. Come ci hanno convinti di essere malati, Lindau, Torino, 2006; J. Law, Big Pharma. How the world’s Biggest Drug Companies Control Illness, 2006, tr. It. di S. Suigo, Big Pharma. Come l’industria farmaceutica controlla la nostra salute, Einaudi, Torino, 2006; T. S. Szasz, Pharmacracy: medicine and politics in America, 2003, tr. It. F. Saba Sardi, Farmacrazia. Medicina e politica in America, Spirali, Milano, 2005. A. Giannelli, Follia e psichiatria: crisi di una relazione, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 21 e sgg. M. Bertani, Istituzioni psichiatriche, in Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, vol. I, a cura di F. Barale, M. Bertani, V. Gallese, S. Mistura, A. Zamparini, Einaudi, Torino, 2007., pp. 586, 587. Idem, p 587 G. Deleuze, Pourparlers (1972 -1990), Les èditions de minuit, Paris, 1990, tr. it. di S. Verdicchio, Pourparler (1972 - 1990), Quodlibet, Macerata, 2000, pp. 236, 237. F. Basaglia e F. Ongaro Basaglia, Introduzione a E. Goffman, Asylum, , Asylum. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, Anchor Books, Doubleday & Company, Inc., New York, 1961, tr. it. di Franca Basaglia, Asylum. Le istituzioni totali. La condizione sociale dei malati di mente e di altri internati, Einaudi, Torino, 1968, p. 20. Idem, pp. 20, 21. Idem, p. 21. Cfr. A. Codignola, Psyco Boom, in “L’Espresso” 27 settembre 2007. S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano 2006.