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Il Sud e la paranoia repressiva: la perpetua Emergenza

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Ci sono oggi due piccole guerre sante nelle nostre città meridionali, che affiancano la grande guerra emergenzialista contro la criminalità organizzata, seguendo proprio questo schema: producono il nemico per poi combatterlo. Ed ambedue producono una trasformazione “di guerra” dell’ordinamento giuridico. Sono la guerra allo spaccio e quella all’industria del falso. Dopo lo spacciatore, la retorica dell’emergenzialismo meridionale sta portando sempre di più alla ribalta un altro “mostro”: il contraffattore, o, un po’ più in basso, il venditore di falsi. Più o meno all’improvviso, sull’industria del falso si è abbattuto il vento di guerra dell’emergenza. Di certo, il fatturato dell’industria di oggetti falsi o contraffatti è imponente, ed è assai rilevante la quota dell’Italia meridionale. La necessità di una guerra all’ultimo sangue alla contraffazione sarebbe giustificata, secondo i banditori di questa nuova crociata, da due ragioni principali: la prima, è il danno che quest’industria provocherebbe alle industrie legittime proprietarie dei marchi contraffatti; la seconda, il fatto che essa sarebbe un altro grosso campo di affari della criminalità organizzata e di sfruttamento illegale di manodopera. La crociata emergenzialista procede perciò spedita a proporre, come principale soluzione, la solita, eterna scelta repressiva. Più controlli, più sequestri, più arresti. Repressione che ovviamente dovrebbe abbattersi, in teoria, sia sui produttori che sui venditori dei falsi, ma che, nella pratica, prende di mira soprattutto i secondi. Specie con l’arrivo dell’estate, nelle nostre città si moltiplicano le retate anticontraffazione, che mietono vittime tra i venditori abusivi, migranti e non. Ma il primo a cadere sotto i colpi di questa nuova crociate, è il diritto stesso, che è costretto a integrare in sé ancora una volta una logica di guerra che non gli apparterrebbe, e a trasformarsi in un dispositivo di emergenza perpetua. Quello che è accaduto in relazione al tema del falso è, per questo aspetto, abbastanza clamoroso: si è proclamata una necessità di lotta strenua in nome della legalità, riuscendo a far passare come ovvio il messaggio che l’attività di produzione e distribuzione di oggetti contraffatti sia in ogni caso un’attività illegale. Ma questo, almeno sino a quando non sono cominciati i proclami giustizialisti non era affatto scontato: è stata piuttosto la proclamazione stessa dell’assoluta necessità di questa guerra a spingere una giurisprudenza, inizialmente più che cauta e dubbiosa, ad imboccare strade repressive assai poco convincenti sotto il profilo della compatibilità con i cardini fondamentali dello stato di diritto. È la proclamazione dell’emergenza ad aver prodotto, per convincere tutti a combattere questa guerra, un diritto adatto alle pulsioni giustizialiste: solo che, in questo campo, non c’è stato bisogno di leggi speciali, ma è stato sufficiente far pressione su giuristi e magistrati, per convincerli ad abbracciare alcune interpretazioni restrittive delle norme in materia, sino a non molto tempo fa rifiutate persino dalla Cassazione. In fondo, uno dei modi per cui l’emergenza diventa regola e viene progressivamente normalizzata, è appunto la via interpretativa: ed è attraverso svolte giurisprudenziali che la ragion giuridica si sta progressivamente piegando a sostenere questa nuova crociata. Vediamo più da vicino come è andata trasformandosi giuridicamente, nel corso di questi ultimi anni, la questione della contraffazione. Le norme del codice penale che riguardano la materia sono soprattutto due: l’art. 473, che punisce chi contraffà o altera marchi e segni distinitivi delle opere di ingegno o di prodotti industriali, e il 474, che punisce chi pone in vendita o detiene per vendere tali oggetti contraffatti. Le norme lasciano spazio ad ampie interpretazioni: non sembra affatto evidente che chi vende la borsa di Luisa Vittone stia alterando un marchio, né che con questa sua azione stia effettivamente danneggiando qualcuno. È, infatti, principio generale del diritto penale che l’azione, per costituire effettivamente un reato, non sia solo astrattamente corrispondente alla previsione normativa: deve essere anche dimostrato che essa sia effettivamente lesiva di qualche bene giuridico. Insomma, già non è proprio sicuro che la borsa di Luisa Vittone sia una contraffazione, e non magari un cortese omaggio dell’artigiano napoletano alla sua Musa ispiratrice, ma anche se lo fosse, bisogna dimostrare che vendendola si sta danneggiando effettivamente qualcuno. Il che è molto ipotetico, giacché è molto difficile dimostrare che il detentore del marchio sia danneggiato dal fatto che qualcuno, che mai potrebbe comperare i suoi prodotti, ne compera alcuni simili a prezzi del tutto diversi, e in contesti in cui è proprio difficile pensare ad una diretta concorrenza. Queste considerazioni di buon senso, oltre che di semplice applicazione di principi generali del diritto, sono state sostanzialmente fatte proprie dalla dottrina, e, soprattutto, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Nel 2000 la Cassazione aveva appunto sostenuto che, qualora, per le caratteristiche del marchio, o per le caratteristiche della merce, risulti chiaro a un compratore mediamente diligente che quell’articolo non possa provenire effettivamente dalla ditta “imitata”, allora non può esserci alcun reato, perché la condotta “è assolutamente inidonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma”. Con molto buon senso, la Cassazione stessa ha osservato che gli acquirenti delle bancarelle oramai sanno bene quello che comprano, ed è difficile pensare che non sappiano di non stare acquistando prodotti originali. Parole sante. Con un difetto: che sono invise a chi, invece, vede dappertutto rischi per i grandi marchi, e a chi ha intenzione di trovare una nuova via “legale” per iniziare una crociata persecutoria contro venditori ambulanti e migranti, nel nome della ripulitura securitaria delle nostre città.

Università di Salerno

Questo testo è un breve sunto di uno dei saggi del volume “Vento del Sud. Insorgenze meridionali ed esodo dalla modernità”, a cura di Franco Piperno in uscita a settembre 2008 per DeriveApprodi.