Lo spauracchio della “gobba pensionistica”, ovvero come si fabbrica un’opinione pubblica
Giorgio Gattei
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Ruando, l’anno prossimo, si tornerà a discutere di “riforma”
delle pensioni (ma fino a quando bisognerà “riformarle” queste benedette
pensioni pubbliche? Evidentemente fino a quando non arriveranno a zero...),
saremo nuovamente ossessionati dallo spettro della “gobba”pensionistica.
Ancora una volta ci scaraventeranno addosso l’inoppugnabile dimostrazione
statistica per cui, se non metteremo prontamente mano a qualche provvedimento di
contenimento delle pensioni a venire, il rapporto tra erogazioni e contributi
crescerà a tal punto da minacciare la stabilità dei conti pubblici. E per
evidenziare la gravità di questo tracollo ci mostreranno l’andamento del
rapporto della spesa pensionistica sul PIL che, senza interventi, salirà
inesorabilmente dal 13,6% del 2000 al 16% del 2030 (in seguito però calerebbe,
bontà sua, fino al 14,7% del 2045). E l’orchestra dei mass-media sarà così
ben concertata che tutti ne saremo talmente angustiati che, sindacati per primi,
accetteremo di buon grado di dare un altro taglio alle nostre pensioni, come
già fatto soprattutto dai governi Dini ed Amato [1].
Eppure la possibilità che questa “gobba” si presenti
nell’anno 2030 è pari quella che la fine del mondo coincidesse con la notte
del 31 dicembre 1999. Qualcuno se ne sarà pure preoccupato, eppure quell’“ultimo
capodanno” è passato senza incidenti. Il che pare evidente: che mai ne
possono sapere la Natura, il Cosmo, l’Universo e perfino Dio-padre di
calendari d’invenzione umana, men che meno di calendari gregoriani quale
quello cristiano? Altrettanto è per la“gobba” pensionistica, che è
soltanto una trovata statistica costruita da solerti “ragionieri dello stato”
(visto che i dati a riprova sono di fonte Ragioneria Generale dello Stato [2]) piuttosto che una prospettiva concretamente
possibile, come andremo subito a mostrare. Ma per l’intanto notiamo la
straordinaria lunghezza del periodo di riferimento: da oggi al 2030 è un ben
lasso di tempo durante il quale potrebbe anche succedere di tutto, compresa la
terza guerra mondiale oppure l’impatto con un asteroide. Quindi le previsioni
che se ne deducono paiono piuttosto avere il sapore della fantascienza e come
tali dovrebbero essere considerate - ed a riprova basti pensare a come Stanley
Kubrick ipotizzò nel 1968 il 2001 nel suo celebre film, e adesso che al 2001 ci
siamo quasi arrivati non soltanto non abbiamo trovato alcun monolito
inquietante, ma perfino i viaggi spaziali non sono diventati così consueti come
aveva immaginato il grande regista. Il fatto è che Kubrick aveva estrapolato al
2001 alcune aspettative del 1968 che in parte sono state disattese ed in parte
stanno procedendo con una velocità ben diversa da quella che sembravano allora
mostrare.
Però se la “gobba” è fantascienza, può essere
interessante vedere come è stata costruita. Si sa che sono state necessarie
proiezioni statistiche a proposito del numero dei pensionati e dell’ammontare
medio delle loro pensioni, che il tutto è stato poi espresso in valori monetari
attuali scontandolo del tasso d’inflazione a venire e che infine, per
esprimerne l’incidenza sul PIL, è stata ipotizzata l’evoluzione del
Prodotto Interno Lordo da oggi al 2045,mostrandosi così quella “gobba” del
loro rapporto percentuale alla data del 2030. Ora, non essendo uno statistico,
mi trovo in difficoltà a giudicare l’adeguatezza di stime sul numero delle
pensioni (che coinvolgono questioni demografiche), mentre un’ipotesi sull’inflazione
lungo il corso di un cinquantennio non può che scontare l’imprevedibilità
della politica monetaria. Come che sia, dilettandomi di storia dell’economia,
vorrei soffermarmi sull’ultima ipotesi che è stata adottata, e cioè che la
crescita del PIL che viene supposta costante per tutto il periodo in esame e
pari allo 1,5% annuo. Ma che razza d’ipotesi è mai questa? E quanta validità
può concretamente possedere?
Per capirci qualcosa rivolgiamoci al passato. Che sia la
proiezione della tendenza storica precedente? In effetti essa è suppergiù
equivalente alla media di crescita del PIL dell’ultimo decennio, che nel Documento
di Programmazione Economico-Finanziaria per gli anni 2000-2003 per gli anni
1990-1999 è stata esattamente eguale all’1,3% [3]. Il che pare
una decisione corretta: se dal 1990 la nostra economia è cresciuta più o meno
a quella velocità, non ci vuol molto a presumere che anche fino al 2030 essa
non possa far altro che ripetere quella prestazione. Se però ci volgiamo più
indietro nel tempo vediamo che lo stesso DPEF documenta come le prestazioni dei
decenni precedenti non siano state affatto così scadenti: negli anni ‘80 (che
furono peraltro gli anni della corruzione e del “craxismo”) l’economia
nazionale realizzò una crescita media del PIL del 2,2%, e nel decennio ancora
precedente (quegli anni ‘70 che sono stati di crisi economica e sociale, di
terrorismo e di minaccia di “sorpasso” PCI-DC) il PIL crebbe alla velocità
del 3,6%, per non parlare poi dei mitici anni ‘60 in cui si toccarono cifre da
capogiro: oltre il 5% di media annuale. Mettendoli tutti in successione questi
risultati mostrano una tendenza della crescita del PIL a rallentare, sicchè
anche quella stima dell’1,5% potrebbe rivelarsi esagerata non essendo
garantito che l’andamento economico non continui a peggiorare. Eppure questa
ipotesi pessimistica non è stata presa in considerazione: perchè mai? Perchè
la bassa prestazione dell’economia italiana negli anni ‘90 ha spiegazioni
contingenti straordinarie. Essa è stata soprattutto la conseguenza della crisi
valutaria del 1992 e della stretta deflazionistica indotta dall’adesione ai
parametri di Maastricht, ma ormai, col cambio della lira stabilmente ancorato
all’euro ed i conti pubblici riportati all’ordine, è prevedibile che quell’effetto
di trascinamento verso il basso della crescita del PIL si sia esaurito
consentendogli almeno di mantenere il livello raggiunto.
Ma perchè non pensare che essa possa crescere? Le previsioni
dello stesso DPEF per i prossimi quattro anni danno in effetti valori del PIL in
aumento: il 2,2% nel 2000, il 2,6% nel 2001, il 2,8% nel 2002, il 2,9% nel 2003.
E questo diverso andamento è stato giustificato nel documento governativo con
la forte ripresa del processo di accumulazione e favorita dal più dinamico
contesto mondiale ed europeo, dal conseguente miglioramento delle aspettative di
domanda e, dai più bassi tassi reali d’interesse e, last but not least,
dalle politiche governative volte sia ad incentivare gli investimenti privati
sia ad accelerare l’accumulazione di capitale pubblico [4]. Nessuna
di queste favorevoli condizioni è stata però considerata dei nostri “ragionieri
dello Stato” (che comunque il loro rapporto l’hanno pubblicato nel 1996
quando queste tendenze non erano ancora presenti - ma allora non sarebbe il caso
che lo rivedessero questo loro rapporto, cambiando innanzi tutto la previsione
di crescita del PIL?), i quali potrebbero ribattere che l’ipotesi di sviluppo
da loro adottata è di ben più lungo periodo di quella del DPEF e che quindi le
buone previsioni fino al 2004 potrebbero essere contraddette dal successivo
decorso della nostra economia. Giusto. E questo ci porta ad interrogarci sulla
“situazione di fase” in cui si trova adesso l’economia italiana in
rapporto con l’andamento generale dell’economia mondiale.
Al proposito esiste una teoria, piuttosto accreditata all’estero
ma disprezzata da noi, che giudica l’economia capitalistica interessata da un
movimento ondulatorio con fasi cicliche di durata cinquantennale: durante
venticinque anni l’economia vivrebbe una fase di sostanziale prosperità (fase
A), mentre durante i successivi 25 anni sperimenterebbe una sostanziale
stagnazione (fase B). E’ questa la teoria dei “cicli lunghi” elaborata
dall’economista russo Nikolaj Kondratiev (1892-1938) a partire dalle serie
statistiche del secolo XIX [5] e poi prolungata da diversi altri a tutto il
Novecento ed estrapolata anche oltre il 2000 sulla base della congettura della
persistenza di questo movimento ondulatorio. Ma consideriamo i periodi che sono
stati riconosciuti nei due secoli ormai trascorsi (avverto che per comodità le
date sono state approssimate e arrotondate, essendo qui sufficiente dare una
idea del generale andamento ciclico):
Fasi A: |
1795-1820 1845-1870
1895-1920 1945-1970 |
|
|
Fasi B: |
1820-1845 1870-1895 1920-1945 1970-1995 |
La somma di una fase A e della fase B seguente costituisce un
“ciclo lungo” che quindi, almeno a partire dalla Rivoluzione industriale (ma
non perchè antecedentemente al 1795 non ce ne siano stati altri, ma perchè i
dati statistici per riconoscerli quantitativamente sono insufficienti [6]), sono stati finora quattro, mentre la proiezione al
futuro darebbe un quinto “ciclo Kondratiev” (nella letteratura economica
questi cicli lunghi hanno preso il nome del loro primo scopritore) scandito
nelle due fasi di prosperità prolungata fino all’incirca al 2020 e,
successivamente, di ristagno [7].
Ora cosa succede all’economia durante un ciclo lungo? Che
nelle fasi Ala crescita del PIL _ particolarmente accelerata, mentre la stessa
crescita rallenta nelle fasi B. Un indice aggregato del saggio annuo di crescita
del PIL per i 16 maggiori paesi industrializzati, sia pur con tutte le riserve
statistiche del caso, permette di valutarne quantitativamente le prestazioni a
partire almeno dall’ultimo quarto del secolo scorso [8]:
1894-1913 |
3.14 |
1948-1973 |
4.89 |
1871-1893 |
2.45 |
1914-1947 |
2.38 |
1974-1981 |
2.36 |
dove si vede che mai, nel lungo periodo, l’economia
mondiale ha progredito ad una velocità di crescita del PIL così bassa come
quella ipotizzata dai nostri “ragionieri”. Ma l’Italia, si dirà, non è
il mondo. E allora andiamo a vedere come si è comportato il nostro paese più o
meno in quegli stessi periodi. Abbiamo una precisa ricerca in proposito da cui
emergono questi risultati [9]:
1897-1913 |
2.77 |
1950-1971 |
5.38 |
1870-1897 |
0.48 |
1913-1950 |
1.66 |
1971-1982 |
2.53 |
che dimostrano come, almeno per le fasi di prosperità lunga
(quale quella che la nostra economia si prepara a vivere fino al 2020), una
proiezione dell’1,5% di crescita media annua del PIL appaia assolutamente
ingiustificata.
Ma perchè siamo così sicuri che nel prossimo quarto di
secolo si presenterà una fase A? Chiediamoci qual’è il “motore” di
codesti cicli lunghi. L’interpretazione più accreditata lo individua nella
potenza d’innovazioni epocali “strategiche” che intervengono a mutare l’intera
maniera del produrre e definiscono un nuovo “paradigma tecnologico”a
diffusione generalizzata e valido per un periodo così protratto nel tempo da
dislocare l’intero sistema economico su di un gradino più alto d’efficienza.
La fase A segna quindi il periodo durante il quale una nuova“costellazione
produttiva” si fa strada progressivamente nell’economia (si parla allora di“salto
tecnologico”), mentre la fase B ne documenta lo“stallo” successivo quando
quel “paradigma” ha ormai esaurito la propria carica innovativa, l’economia
ristagna ed il capitale si rivolge soprattutto verso le attività finanziarie e
speculative in attesa di un nuovo “salto di paradigma”. Storicamente, le
grandi innovazioni epocali che hanno scandito la successione dei cicli lunghi
sono state, nell’ordine, la macchina a vapore all’inizio dell’Ottocento,
lo sviluppo delle ferrovie alla sua metà, il motore elettrico all’alba del
Novecento e la diffusione dell’automobile al tempo del “miracolo economico”.
E ora, dopo lo “stallo” prolungato del quarto Kondratiev,che cosa ci
aspetta?
Sicuramente adesso (ma non perchè lo imponga la cronologia
dei cicli lunghi, bensì perchè appare ormai a tutti evidente) siamo sulla
soglia di un soprassalto straordinario d’attività economica indotto dall’irruzione
del nuovo “paradigma informatico” nella produzione e negli scambi. E’
questa la new economy (che è poi piuttosto una net.economy) che
può arrivare a conciliare la crescita con l’assenza d’inflazione - mentre
invece la crescita inflazionistica è stata la maledizione che ci ha
perseguitato dagli anni ‘70 in poi - mediante un incremento straordinario di
produttività. Sebbene sulle caratteristiche ed il funzionamento di questa new
economy ancora si discuta, che cosa potrà mai voler dire in termini di
prestazione produttiva? Che l’economia riprenderà a correre e per un lungo
periodo di tempo offrendo una prospettiva economica che ha fatto dire a Tommaso
Padoa Schioppa, consigliere italiano alla BCE, che fra un secolo gli storici
descriveranno questa nostra epoca come una nuova rivoluzione industriale [10].
E’ ovvio che questa è naturalmente soltanto una previsione
(ma non sono pure previsioni quelle della Ragioneria Generale dello Stato?) e l’occasione
non è stata ancora colta. Ma se non sarà disattesa, come tutto l’agitarsi
intorno ad e-commerce ed e-finance sembra voler dimostrare, allora
l’Italia potrebbe trovarsi davanti ad una sorta di secondo “miracolo
economico” che assicurerebbe un livello di crescita del PIL sicuramente
superiore a quello modestissimo conosciuto negli anni ‘90. Ed invece i nostri
benemeriti “ragionieri” che hanno fatto? Escludendo qualsiasi ipotesi di
sviluppo, ignorando i “lavori in corso” nella maniera del produrre, hanno
vincolato la crescita del PIL fino al 2030 proprio a quella miserabile
prestazione. Il che appare una operazione assolutamente mistificante se
confrontiamo la loro cifra risibile con quelle che l’economia italiana
potrebbe conoscere se soltanto ripetesse gli exploits degli anni ‘70 ed
‘80 (che non sono stati peraltro decenni particolarmente“facili”), ma alla
rovescia - e quindi a crescere -come è tipico di una fase A di un “ciclo di
Kondratiev”:
|
2000-2010 |
2010-2020 |
"quinto Kondratiev" |
2.2 |
3.6 |
Ragioneria dello Stato |
1.5 |
1.5 |
Come si vede, nella loro previsione “ad encefalogramma
piatto” non esiste alcun briciolo di tendenza esponenziale per una economia
pur sottoposta ad evidente trasformazione produttiva (ma li leggono mai i
giornali “lor signori”?), bensì soltanto la conferma dello slogan idiota:
“oggi come ieri come domani”.
L’obiettivo di un calcolo siffatto ha comunque una precisa
giustificazione politica. La crescita del PIL pesa al denominatore del rapporto
che misura l’incidenza relativa della spesa pensionistica e se quel
denominatore crescesse, il rapporto potrebbe ridursi e la “gobba”delle
pensioni sparire alla vista. Ma se la“gobba” non si mostrasse più, come
giustificare l’urgenza di mettere mano ad una ennesima riduzione delle
pensioni, perchè è poi solo di questo che si tratta? Ecco allora il trucco di“congelare”
il denominatore cosicchè, aumentando comunque il numeratore per l’aumento (in
numero ed in ammontare) delle pensioni, la “gobba” si possa presentare con
la maggiore evidenza possibile a svolgere la sua funzione terroristica. Poi,
fatto il calcolo, sarà compito dei mass-media divulgarne ossessivamente l’immagine
presso l’opinione pubblica così da predisporne il consenso a quei tagli. E’
una operazione “di regime” che il giornalaccio “La Repubblica” ha già
cominciato a mettere in opera, riportando le cifre della Ragioneria Generale
dello Stato il 14 febbraio u.s. sulle pagine di “Affari e Finanza” e poi
presentandole addirittura in grafico il 15 marzo seguente. Per quante volte
ancora dovremo vedere riportate quelle cifre e quel grafico? Ma tant’è ed al
lettore, non a conoscenza della manipolazione statistica che ha portato a tanto“veritiero”
risultato statistico, non verrà mai l’idea di denunciare quel grafico e
quelle cifre come FALSI!
[1] Sui tagli finora introdotti
vedi la meticolosa ricostruzione di R. Martufi e L. Vasapollo: Le pensioni a
fondo, Roma, 2000.
[2] Ragioneria
Generale dello Stato, Tendenze demografiche e spesa pensionistica: alcuni
possibili scenari, Roma, 1996.
[3] Ministero del Tesoro, del
Bilancio e della Programmazione economica, Documento di Programmazione
Economico-Finanziaria per gli anni 2000-2003, Roma, 1999,p. 25.
[4] Idem, p.12.
[5] Cfr. N. D. Kondratieff,Les grands cycles de la
conjuncture, Paris, 1992.
[6] Qualcuno
comunque ci ha provato a retrocedere nella scansione dei cicli lunghi ai secoli
precedenti alla Rivoluzione industriale: cfr. A. GunderFrank, World accumulation
1492-1789, London, 1978.
[7] Cfr. S. V. Dubovsky, The model of the Kondratiev
cycle,Moscow, 1992, datt.
[8] Nostra elaborazione da A.
Maddison, Le fasi di sviluppo del capitalismo, Milano,1987, p. 109.
[9] M. Gallegati, Domanda aggregata e rapporto
capitale-prodotto nei cicli di Kondratieff. Un’analisi dell’evidenza
empirica italiana, in “Note economiche”, 1987, n. 3,p. 273.
[10] “La
Repubblica”,21 febbraio 2000.