Sindacalismo di Base: trasformazioni socio-produttive e progetto
Pierpaolo Leonardi
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1. Le trasformazioni socio-produttive
La trasformazione produttiva intervenuta a seguito dell’incalzare
dei processi di mondializzazione dell’economia, dei sempre più incombenti parametri
di Maastricht pone, a chiunque voglia “tenere” sul piano dell’intervento sindacale,
il problema di un’attenta analisi di quanto sta avvenendo e della propria trasformazione
e del proprio adeguamento politico-organizzativo.
La costituzione delle aree e dei blocchi economici, di cui
l’Europa è solo una parte, l’arena della mondializzazione del mercato e la competitività
che ne consegue tra le diverse aree, sono le forze che oggi mettono in relazione
popoli e settori di lavoratori distanti tra loro migliaia di chilometri.
Tale sviluppo incide non solo sui dati quantitativi dell’economia
mondiale, ma anche su quelli qualitativi relativi alle condizioni ed all’organizzazione
del lavoro.
La stagnazione economica, presente almeno fino al 1993 e che
oggi si riaffaccia, è il dato caratterizzante comune a tutte le economie sviluppate
e in termini sociali ha prodotto un aumento della disoccupazione che oggi appare
sempre più dato strutturale e non contingente di fase. Due sono i principali
elementi che hanno portato a questa stagnazione: la riduzione dei consumi e
l’elevato sviluppo tecnologico. Il primo in quanto il mercato riguarda solo
le aree dei paesi sviluppati e solo marginalmente quelle del secondo e terzo
mondo mentre i contemporanei massicci investimenti nelle aree sviluppate non
hanno trovato una capacità interna di sviluppo economico.
Il secondo, cioè lo sviluppo tecnologico, la rivoluzione informatica
e le gigantesche trasformazioni produttive in quanto hanno aumentato a dismisura
il divario tra i paesi sviluppati e tutti gli altri.
Pochissimi stati hanno concentrato al loro interno la stragrande
maggioranza delle ricchezze mondiali e la quasi totalità del sapere produttivo.
Una tale divaricazione si sta producendo anche all’interno
dei paesi ricchi, togliendo alla maggioranza dei lavoratori quelle garanzie
di stabilità salariale ed occupazionale che, fino alla fine degli anni ’80 erano
presenti, in maniera più o meno estesa, nei principali paesi europei.
Il processo di saturazione dei mercati ricchi, le enormi difficoltà
ad allargare il mercato mondiale, le rampanti economie asiatiche capaci di combinare
l’uso di tecnologie avanzate con un basso costo del lavoro, hanno avviato in
Italia e in Europa, una forte corsa all’innovazione tecnologica, riducendo la
quantità di lavoro necessario per unità di prodotto e all’abbassamento continuo
del costo del lavoro, con un’accelerazione al trasferimento dei processi produttivi
laddove il salario è a livelli infimi. Queste due strategie ridurranno sempre
più il numero degli occupati in assoluto e ancor più quello dei lavoratori a
tempo pieno e a salario completo. Le previsioni indicano, per fine secolo, in
30 milioni il numero dei disoccupati in Europa.
Anche di fronte alla ripresa dell’attività produttiva,
del ciclo economico e dei profitti, non si prospettano modifiche sul piano sociale
e dell’occupazione. Le ristrutturazioni tecnologiche ed organizzative hanno
separato la crescita economica dallo sviluppo dell’occupazione in quanto un
numero inferiore di lavoratori produce, nelle nuove condizioni, un maggior numero
di merci e servizi.
La mancata crescita dei mercati, lo sviluppo tecnologico, l’attuazione
delle politiche liberiste stanno quindi segnando anche una svolta profonda nei
rapporti all’interno del mondo del lavoro non solo in termini quantitativi,
cioè rispetto alla ridistribuzione del reddito diretto e sociale, ma soprattutto
in termini qualitativi. Quello che sta emergendo è un mondo del lavoro profondamente
trasformato nella sua composizione sociale, nelle mansioni e nelle qualifiche,
nel rapporto con i mezzi di produzione enormemente sviluppati, nei rapporti
di forza con la controparte e nelle condizioni di acquisizione del reddito non
solo come quantità ma anche nella sua struttura.
Nella sfera della produzione i processi di innovazione sono
velocissimi, accanto allo smantellamento e alla delocalizzazione, più o meno
graduale, delle grandi fabbriche, si hanno processi di mobilità e licenziamenti
che portano gli operai o verso l’assistenza e la pensione, ambedue fortemente
ridotte, oppure verso impianti produttivi riorganizzati in unità più ridotte
e decentrate. Per il momento la grande fabbrica e la grande concentrazione operaia
non scompaiono completamente, ma si trasformano in fabbrica robotizzata e in
terziario avanzato che sono i settori su cui poggerà sempre di più la capacità
del paese di sostenere il livello più alto di competizione e sviluppo (in alcuni
paesi europei come la Francia e la Germania tale processo è ancora lontano dall’essere
completamente attivato). Prende forza quella nuova organizzazione del lavoro
- la lean production o produzione snella - che assegna una particolare
rilevanza alla fase di assemblaggio dei prodotti, alla loro presentazione e
commercializzazione. Questo spiega in parte la diminuzione quantitativa degli
operai della grande industria e l’aumento di figure a metà tra i tecnici, gli
impiegati e gli agenti commerciali.
La riduzione di posti di lavoro nel tessuto industriale, che
aveva già ridotto drasticamente la presenza di qualifiche operaie già nel periodo
dall’ 82 al ‘92, passando dal 77% al 60%, è stata incrementata negli ultimi
anni a livelli vertiginosi andando ad interessare però anche i colletti bianchi;
nel 1994 la perdita di posti di lavoro tra gli impiegati è stata più o meno
pari a quella degli operai.
L’altro fattore determinante è dato dalla ridislocazione internazionale
della produzione di merci.
L’industrializzazione di intere aree come il sud - est asiatico,
l’India, la Cina, il Messico, e l’annessione dell’Europa dell’est nel mercato
hanno indubbiamente allargato su scala mondiale la produzione. Il boom delle
joint ventures nei paesi dell’Est ha reso possibile un processo di delocalizzazione
produttiva che non riguarda più solo le grandi e medie imprese ma anche la piccola
(ormai il 90% delle imprese italiane conta meno di 100 dipendenti), così le
piccole imprese nostrane si trasformano in aziende medio/grandi nei paesi colonizzati
dell’Europa dell’Est e del sud del Mediterraneo.
In Italia quindi la classe operaia industriale si è ridotta
numericamente, ha un livello di specializzazione medio - alto e livelli di reddito
bassi per gli standard occidentali ma livelli di salario ancora alti rispetto
ai lavoratori delle aree semi-periferiche e altissimi rispetto alla nuova periferia
produttiva dove si stanno sviluppando le nuove forme di schiavismo industriale
(India, Asia, Cina ecc.).
L’Italia resta però un anello debole sul piano tecnologico
rispetto agli altri paesi industrializzati; i favorevoli rapporti di cambio
valutario rendono particolarmente appetibile, e per certi aspetti competitivo,
il costo della forza lavoro in Italia. Le disuguaglianze economiche territoriali
tra il nord e il meridione accentuano la convenienza e dunque la competitività
della forza lavoro. Le nuove gabbie salariali, i patti territoriali, tra imprese,
sindacati, enti locali e governo nel meridione, assieme alla totale deregulation
del mercato del lavoro, esalteranno questo fattore.
È quindi possibile che con l’avanzamento del processo di integrazione
economica europea l’Italia, o parte di essa, si converta in zona a bassi salari,
con un livello medio di specializzazione produttiva, un livello medio/alto di
qualificazione della forza lavoro ed un livello alto di infrastrutture - porti,
aeroporti, autostrade, servizi - e quindi in possesso di tutti i requisiti per
essere considerata ed utilizzata come un’area intermedia tra le zone a basso
salario e quelle ad alta tecnologia concentrate nelle regioni hi-tech dell’asse
franco-tedesco.
Se questa è la trasformazione che ha attraversato il settore
industriale, con altrettanta attenzione ed oculatezza si sta ora procedendo
nei due settori che oggi diventano fondamentali: la pubblica amministrazione
e i grandi servizi a rete. La pubblica amministrazione è destinata a diventare
sempre più strumento funzionale agli interessi delle imprese che da tempo lamentano
un eccesso di attenzione al Welfare State, costoso e a loro dire inutile, a
discapito della fornitura in tempo reale di strumenti per la competitività nel
campo internazionale. La ristrutturazione dei servizi a rete sta passando direttamente
attraverso le privatizzazioni con il duplice obbiettivo di socializzare le perdite
e privatizzare gli utili e di garantire le infrastrutture necessarie al sistema
- paese, e cioè in poche parole al sistema delle imprese, anche qui con l’obbiettivo
di renderle competitive.
Così avviene, ad esempio, che la privatizzazione e la liberalizzazione
dei servizi telefonici abbia portato come primo risultato - oltre alla perdita,
per il momento, di 10.000 posti di lavoro - all’aumento delle tariffe telefoniche
sociali, quelle cioè di cui fanno maggior uso le famiglie, e ad una diminuzione
delle tariffe internazionali ed intercontinentali che, come è evidente sono
utilizzate dalle imprese.
2. Sindacalismo di base e progetto
Queste trasformazioni, che abbiamo riassunto per sommi capi,
hanno e soprattutto avranno pesanti ricadute sui lavoratori. Se l’operaio della
catena di montaggio, di linea, è stato il centro del conflitto sindacale nell’epoca
del Fordismo, oggi emergono nuove figure nella produzione e nei servizi, il
“lavoratore unico”, estremamente flessibile, capace, perché scolarizzato, di
cambiare mansioni e svolgere funzioni anche molto diverse tra loro, tenuto all’oscuro
di qualsiasi conoscenza complessiva rispetto al processo in cui viene coinvolto,
privo di qualsiasi tutela e garanzia, da quella sindacale a quelle salariali
e previdenziali.
All’interno di questo processo di trasformazione, che non è
compiuto ma in divenire (la classe operaia della grande fabbrica nasce alla
fine dell’ottocento ma si definisce compiutamente nel secondo dopoguerra), cambiano
e si sviluppano gli strumenti di difesa sindacale che mantengono la loro funzione
ma modificano le proprie forme di organizzazione per entrare in relazione con
i nuovi soggetti e le nuove articolazioni e forme del mondo del lavoro.
Asse portante dell’agire sindacale, nel quadro descritto, non
può più quindi essere quello che aveva come primario referente sociale l’operaio
industriale, per lo più collocato nei grandi impianti produttivi, ma le nuove
figure che emergono dalla trasformazione descritta e oggetto di devastanti modificazioni
sul piano produttivo, salariale, normativo e delle tutele. Questo soggetto,
che abbiamo definito “lavoratore unico”, non si rintraccia nei classici modelli
sindacali fondati sulle “categorie” e tutto sommato facilmente contattabili
perché investiti collettivamente e nella loro interezza da processi di organizzazione
sindacale sui luoghi di lavoro, ma nelle metropoli, sul territorio, nelle
cantine dove si sgobba sul lavoro nero a poche migliaia di lire al mese.
Non c’è altro strumento di tutela di questi lavoratori se non quello di riorganizzarli
a partire dai luoghi in cui essi ora si trovano, costruendo strutture territoriali,
le Camere Territoriali dei Lavoratori, capaci di realizzare processi
organizzativi nuovi e altri rispetto agli attuali - ancora fondati su una lettura
statica e datata dei processi produttivi - dove questo lavoratore unico trovi
strumenti di riaggregazione politico/sindacale altrimenti impossibili, disponibilità
alla lotta e alla solidarietà, servizi legali e vertenziali indispensabili nella
sua nuova dimensione.