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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO

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REINALDO CARCANHOLO
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Interpretazioni del Capitalismo Attuale

REINALDO CARCANHOLO

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“Tutte le nazioni capitaliste sono periodicamente prese dalla pazzia: quella di cercare di fare soldi senza ricorrere al processo di produzione.” K. Marx

1. Introduzione: il capitalismo speculativo Senza alcun dubbio il capitalismo che conosciamo è cambiato molto nelle ultime tre o quattro decadi e ciò è stato segnalato da molti autori, e sono apparse molte interpretazioni su questa mutazione. Secondo noi, per quanto possa essere grande la mutazione osservata, c’è qualcosa che il capitalismo non è ancora riuscito a inventare: come creare ricchezza economica, creare eccedenza e, in particolare, creare profitto a partire da niente. Non è mai riuscito e mai riuscirà a produrre ricchezza e anche la sua stessa remunerazione a partire dal fumo. La ricchezza economica é e continuerà ad essere il risultato del lavoro, del lavoro produttivo. Ma non è questo ciò che l’osservazione diretta e immediata della realtà ci suggerisce e ci indica. Nel capitalismo attuale abbiamo la chiara convinzione che le rendite speculative sono il risultato della natura stessa del capitale, di qualche sua proprietà miracolosa1. Il capitale speculativo parassitario è, in verità, la forma che il sistema ha trovato capace di questa prodezza e questa, anche se apparente, propria della dimensione apparente della realtà, non é una semplice illusione, come potremmo pensare. Si tratta, é certo, di una manifestazione apparente e in una certa maniera é illusoria. In realtà, é e non é, allo stesso tempo, illusoria. Questa è la grazia del capitale speculativo. Questo sembra capace di generare il suo stesso rendimento, ma non è diverso da un parassita. Vi è, lì, una curiosa dialettica: ciò che non é, sembra che sia. Ciò che é, ha la capacità di apparire a tutti noi come se non fosse. Si può comprendere questa dialettica solo appellandosi ai concetti di capitale fittizio e di profitti fittizi, che di certo sono e non sono fittizi allo stesso tempo. E questo non è uno scherzo, nè un gioco di parole: è la dialettica del reale. C’è un certo accordo tra molti autori sul fatto che una delle caratteristiche fondamentali della fase attuale del capitalismo é la finanziarizzazione, cioè una certa predominanza della finanza rispetto le attività realmente fondamentali del capitale2. É il caso di François Chesnais e Gerard Duménil, tra molti altri. Alcuni autori hanno anche utilizzato, con un grado maggiore o minore di profondità teorica, il concetto marxista di capitale fittizio per analizzare questa fase. La difficoltà nell’utilizzo teoricamente adeguato del concetto di capitale fittizio sta nel fatto che questo presuppone una soddisfacente conoscenza e, in presenza di questo, una adeguata interpretazione della teoria del valore di Marx. Senza queste, il concetto perde di significato e in capacità di spiegare correttamente la realtà. Se inteso in maniera soddisfacente, si comprende che il capitale fittizio esige remunerazione e non contribuisce per niente alla produzione di eccedenza economica, di plusvalore. E la domanda che sorge da questa constatazione é la seguente: chi produce questo plusvalore in volume sufficiente per soddisfare le esigenze del capitale, incluse quelle del capitale fittizio? Tale domanda acquista ancora più rilievo se consideriamo che ciò che si conosce come ristrutturazione produttiva nel capitalismo contemporaneo avrebbe, secondo alcuni, ridotto il ruolo del lavoro nella produzione capitalista, per lo meno in ciò che si riferisce al lavoro formale e a quello legato direttamente alle attività produttive industriali. Con questo, come suggeriamo, si arriva anche a negare il ruolo del lavoro come centrale nella produzione della ricchezza, il che, ovviamente, dal punto di vista della teoria marxista del valore é privo di senso. In questo modo, prendendo in considerazione un’adeguata interpretazione della detta teoria, la caratteristica fondamentale della fase attuale del capitalismo, nella nostra opinione, è la contraddizione, che si approfondisce ogni volta di più, tra la produzione e la appropriazione dell’eccedente economico mercantile, del plusvalore nelle sue differenti forme. É per questo che il concetto di lavoro produttivo (inteso come quello che produce plusvalore o eccedente nella forma mercantile e incorporabile dal capitale) acquista rilievo nell’attualità. É vero che certi autori, anche vicini alla teoria di Marx, nonostante considerino la finanziarizzazione una caratteristica fondamentale della fase capitalista attuale, identificano come sua contraddizione principale quella che esisterebbe tra la proprietà e la gestione del capitale; contraddizione tra le frazioni della società detentrici delle diverse forme di títoli di proprietà sul capitale sostanziale3 e l’altra, che sarebbe incaricata della gestione professionale delle imprese. É il caso specifico di Duménil e Lèvy. A parte il fatto che l’identificazione degli interessi contraddittori tra queste frazioni proprietarie e quelle che gestiscono il capitale, come contraddizione principale del sistema, porta, almeno in certi casi, alla possibilità di prospettive di uscite riformiste alle difficoltà del capitalismo attuale, questa può essere il risultato dell’ignoranza o del disprezzo nei confronti della teoria marxista del valore. Riassumendo la nostra interpretazione della fase attuale del capitalismo, che denominiamo capitalismo speculativo, presentata in altri lavori, possiamo dire che, negli anni ‘70 e fino all’inizio degli ‘80, la tendenza alla caduta del saggio di profitto indicò una acuta manifestazione, in particolare negli Stati Uniti e in Europa. I nuovi investimenti produttivi presentavano una prospettiva di ridotta remunerazione e i capitali, in parte considerevole, per questo, hanno cercato la speculazione come via d’uscita alternativa. Questa tendenza è stata sancita dalle politiche neoliberiste (espressione degli interessi del capitale speculativo) e ha avuto come controparte indispensabile l’instabilità del cambio e il debito pubblico degli Stati (tanto quelli del primo mondo che della periferia). Il capitale pensò di aver trovato il suo paradiso: la redditività senza necessità di “sporcarsi le mani con la produzione”. E questo di fatto è avvenuto; ma purtroppo per esso, per poco tempo. É vero che le remunerazioni del capitale, a partire dall’inizio degli anni ‘80, tendevano a crescere. E allora, come è stato possibile? Se da un lato, il ritmo dell’accumulazione del capitale produttivo (o sostanziale), nell’insieme del mondo capitalista, si riduceva e si ampliava paurosamente allo stesso tempo il tasso di crescita della massa del capitale fittizio, speculativo e parassitario, come fu possibile la crescita dei tassi di remunerazione dei capitali, tanto quella dei capitali produttivi quanto dei parassitari? La spiegazione di questo fenomeno, per essere coerente con la teoria marxista del valore, può essere trovata solo nell’aumento dello sfruttamento del lavoro. E qui dobbiamo occuparci specificamente dello sfruttamento del lavoro produttivo. É vero che, seguendo Marx, possiamo anche parlare di sfruttamento del lavoro non produttivo. Anche se l’aumento di questo tipo di sfruttamento non permette di aumentare l’eccedente o il plusvalore prodotti, riducendosi la porzione relativa appropriata dei lavoratori improduttivi, si amplia il margine destinato alla remunerazione del capitale. Così, per noi, la spiegazione starebbe nell’aumento, a livelli senza precedenti, dello sfruttamento del lavoro, sia per mezzo del plusvalore relativo, del plusvalore assoluto (estensione della giornata, aumento delle giornate, intensificazione del lavoro), sia del supersfruttamento dei lavoratori, oltre allo sfruttamento dei lavoratori non salariati. Senza dubbio le politiche neoliberiste del periodo hanno costituito il fattore principale affinché si ottenesse un aumento dello sfruttamento del lavoro. É vero che quest’aumento senza precedenti, ancora indispensabile per il sistema, non sarebbe sufficiente per spiegare la crescita del tasso di remunerazione del capitale a partire dall’inizio degli anni ‘80. Il nostro punto di vista è che, mentre si ampliava esageratamente lo sfruttamento del lavoro, si espandeva anche ciò che denominiamo profitti fittizi. Ma questo ha come conseguenza un grande problema che consiste nel fatto che, anche se i profitti fittizi risolvono la difficoltà in modo circostanziale, lo fanno solo aumentando la contraddizione principale (produzione/appropriazione), generando un’ulteriore crescita del capitale speculativo. Alla fine, la nostra conclusione é che, anche se questa fase speculativa potrà durare ancora qualche tempo, alla fine tenderà a scomparire. Potrà solo sopravvivere con un incremento addizionale dello sfruttamento del lavoro. Una eventuale sostituzione di questa fase speculativa con una nuova, che ricostruisca la predominanza del capitale produttivo, presupporrà livelli mai visti di sfruttamento. Così, non c’è possibilità di un ritorno a un capitalismo meno violento di quello che vediamo oggi. Il futuro del capitalismo aggraverà la tragedia umana che si vive attualmente nel pianeta solo. Affermare il contrario vuol dire vivere nel mondo delle illusioni. È stato a partire da questa nostra visione del capitalismo attuale che abbiamo avuto l’opportunità di scontrarci con le idee di alcuni autori che consideriamo importanti attualmente. Essi hanno la caratteristica di prendere esplicitamente in considerazione la teoria marxista del valore o, perlomeno, di non negarla nei loro testi. Su due delle interpretazioni che analizziamo, di Duménil e Lèvy e di Chesnais utilizzeremo testi non molto attuali4, anche se crediamo che le loro posizioni non siano cambiate molto. Sugli altri due, Virginia Fontes e Michel Husson, le nostre considerazioni si baseranno su testi recenti: nel primo caso, su un articolo non ancora pubblicato, nel secondo, pubblicato fino ad ora solo in francese.

2. Duménil e Lévy Le principali idee derivate dalle rilevanti ricerche de Duménil e Lévy sul capitalismo, realizzate già da tempo, appaiono in qualche modo riassunte nell’articolo sul quale si basano le nostre considerazioni5. Questi autori affermano che il periodo iniziato dopo la crisi strutturale degli anni ‘70 e inizio degli ‘80 (che in un’altra occasione essi denominano più incisivamente “periodo neoliberista”) si caratterizza per la ritornata egemonia della proprietà del capitale sulla sua gestione. Il periodo precedente, entrato in crisi e chiamato “compromesso keynesiano”, è durato pochi decenni. La fase attuale del capitalismo, di ripresa della egemonia di quello che chiamano “finanza” (la finanziarizzazione), presuppone modifiche alla forma della proprietà sul capitale, con il suo trasferimento nelle grandi istituzioni finanziarie, gestite della professionisti specializzati. Gli autori affermano che il controllo della produzione, sia come delle stesse decisioni sulla allocazione dei capitali, tende a rimanere sempre più sotto la responsabilità dei gestori professionali. Così, il periodo attuale si caratterizza per la ripresa, attraverso il sistema finanziario, dell’egemonia della proprietà, egemonia perduta durante il “compromesso keynesiano”. Il lavoro empirico e la analisi dei suddetti autori sono di grande significato e indispensabili per capire vari aspetti importanti della fase attuale del capitalismo. Intanto, anche se esplicitamente si propongono di realizzare una interpretazione marxista, pochi dei concetti di questa teoria sono effettivamente da essi utilizzati, eccetto i più generici sulle forze produttive e le relazioni di produzione. Nella analisi, quando la lotta di classe é chiamata a compiere un qualche ruolo, si restringe la contrapposizione tra proprietari e gestori del capitale che, anche se importante per la comprensione della storia del capitalismo dall’inizio del XX secolo, non può, da un punto di vista marxista, essere considerata principale o fondamentale. Vi è in questo modo una sovrastima di questa contraddizione e quindi il ruolo dei lavoratori, soprattutto di quelli produttivi, anche se nominata in alcuni passaggi del testo, riceve un trattamento generico e senza molto rilievo nell’interpretazione. Se la lotta di classe appare nel testo in maniera poco adeguata, la teoria del valore, nucleo centrale della interpretazione di Marx sul capitalismo, non é menzionata mai esplicitamente. I suoi concetti di valore, plusvalore, plusvalore extra, sfruttamento, trasferimento di valore non sono menzionati neanche una volta. É vero che il termine capitale compare in maniera ricorrente, ma senza che mai venga citato il suo reale contenuto e meno ancora il suo movimento dialettico. Queste considerazioni critiche sul manifesto orientamento marxista della interpretazione di Duménil e Lévy non possono ridurre la rilevanza delle loro analisi per la nostra comprensione del capitalismo. É vero che il lavoro di Duménil e Lévy non contribuisce ad eliminare le influenze eclettiche, né a risolvere dubbi sollevati dalla critica borghese e piccolo-borghese alla teoria di Marx. Ma questo non è mai stato il proposito di questo loro testo e, così, essi non possono essere criticati per questo. All’interno degli obiettivi che si sono proposti, contribuiscono al pensiero contemporaneo sul capitalismo; la loro coraggiosa scelta esplicita per la prospettiva di Marx sfida i giovani, e tutti gli altri, a conoscere più profondamente la teoria marxista. E questo è già un grande merito. Forse la parte meno stimolante del testo, dal punto di vista marxista è quella delle conclusioni, che, per gli autori, sono inevitabili data la scelta, nella loro analisi, per l’opposizione tra gestori e proprietari del capitale. Nonostante considerino la eventualità che le attuali contrapposizioni del capitalismo possano giungere ad essere risolte attraverso una grande crisi economica nel centro del sistema, ammettono anche la possibilità che alcune delle caratteristiche “evolutive” del sistema, sorte a partire dalla egemonia finanziaria e dalla politica neoliberista, possano sopravvivere a partire da una estinzione graduale di questa egemonia e di questa politica: una specie di ritorno a un capitalismo che permetterebbe certe concessioni ai lavoratori; un ritorno agli anni d’oro, a un capitalismo più umano, se mai questo è esistito. Si tratta, in verità, di una visione molto ottimista del futuro e, a nostro modo di vedere, irreale.

3. François Chesnais Il testo di Chesnais6 riprende la sua conosciuta e consacrata tesi secondo cui il periodo capitalista attuale si caratterizza (in modo simile, su questo aspetto, al testo degli autori menzionati anteriormente) per il dominio della “finanza” sulla “industria” o, in termini più adeguati per noi, del capitale speculativo su quello produttivo, risultante dalla politica di deregolamentazione e liberalizzazione promossa dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra dalla fine degli anni ’70 e dall’inizio degli anni ‘80. Anche se sottolinea nella sua analisi la contraddizione che esiste tra i gestori dei fondi d’investimento, che configurerebbero l’interesse proprio del capitale speculativo, e i dirigenti delle imprese produttive (la gestione produttiva), non smette di risaltare gli effetti di quest’ultimo: a) sulla forma di organizzazione della produzione, più esatta per quanto riguarda la redditività (anche questa idea è presente in Duménil e Lévy), e b) sull’insieme dei lavoratori, in ciò che implica un aumento del livello dello sfruttamento. Così, nella sua interpretazione, il conflitto di classe, specialmente quello fondamentale, non rimane assente; al contrario, è un aspetto centrale. L’articolo di Chesnais menzionato chiarisce la sua prospettiva sulla “mondializzazione”, aspetto che, secondo le sue stesse parole non era così chiaro in scritti precedenti. É qui giustamente che si configura uno dei due punti più alti dell’articolo: la sua prospettiva è tributaria di una visione dialettica della totalità e, in essa, anche se intuitivamente, sono presenti gli elementi fondamentali di un’adeguata teoria del valore che gli permette di capire, in profondità, il mondo capitalista attuale. L’altro punto positivo è costituito dalla sua interpretazione, come risultato della sua tesi generale, delle ragioni della crescita sperimentata dagli Stati Uniti durante la seconda metà degli anni ‘90, delle limitazioni di questa crescita e della impossibilità di immaginare lo stesso fenomeno per altri paesi. Ma una volta la prospettiva della totalità e la teoria del valore costituiscono i pilastri che conferiscono rilevanza e garantiscono l’adeguamento del pensiero di Chesnais. Un punto debole del suo testo, secondo noi, è il suo richiamo alla teoria della regolazione. Il formalismo della terminologia regolazionista, lungi dal permettere un maggiore approfondimento della sua tesi, rende difficile la comprensione ai suoi lettori. É vero che l’autore non arriva ad affermare chiaramente la rilevanza della concezione regolazionista, fermandosi a metà strada quando dichiara che essa costituirebbe una seria e arricchente sfida al “marxismo mummificato”. Sembrerebbe suggerita, qui, la ineludibile necessità di richiamarsi a questo tipo di teoria. Se, in effetti, questo era l’obiettivo ci sembra negativo. Per superare le limitazioni del pensiero marxista contemporaneo é meglio, senza dubbio, un ritorno sostanziale e adeguato al vecchio maestro: a Marx. D’altro canto, conviene affermare che Chesnais ha acquisito prestigio internazionale tale da non avere alcuna necessità di aderire al regolazionismo e per apparire, nell’epoca contemporanea, con tutta l’originalità che gli è propria; oltre ad esso, il keynesismo che traspare nel suo pensiero non arriva a pregiudicare la profondità della sua analisi e se fosse abbandonato implicherebbe un progresso ulteriore. D’altra parte, si osserva, fino a un certo punto, un trattamento insufficiente di certi concetti fondamentali come capitale, capitale-denaro, capitale fittizio. Questi, anche se usati con proprietà in molti casi, non arrivano ad essere esplicitati chiaramente e, così, si perde qualcosa del loro potere esplicativo. Forse ciò è il risultato del carattere conciso del testo e la verità é che non compromette più di tanto la argomentazione. Dall’altro lato, meno accettabile è l’uso di nozioni imprecise (per lo meno se mettiamo da parte il pensiero neoclassico) di produttività del capitale o produttività di fattori. É vero che non avremmo nulla contro l’uso di queste nozioni imprecise come semplici indicatori empirici di certi fenomeni, ma sarebbe necessaria una esplicita menzione a ciò e un riferimento teorico, anche se breve, la sua limitazione. Anche Duménil e Lévy non sono esenti dal peccato dell’uso di queste, ma con più attenzione. Riassumendo, spogliato della sua terminologia regolazionista, l’articolo di Chesnais rappresenta un apporto altamente significativo, all’interno di una prospettiva marxista, per la comprensione del capitalismo attuale, nel privilegiare la lotta tra le classi fondamentali, nel sottomettersi alla prospettiva dialettica della totalità e nell’incorporare come sostegni dell’interpretazione, anche se in forma più intuitiva che cosciente, elementi fondamentali di un’adeguata teoria del valore. Oltre a ciò, ultimamente Chesnais ha fatto progressi nell’uso della teoria di Marx per sostenere la sua interpretazione e questo é ciò che mostra il recente articolo di Rosa Marques e Paulo Nakatani7. D’altra parte, nel nuovo lavoro, ancora più recente, scritto da Chesnais8 e non considerato in questo articolo segnalato, l’autore giunge fino a utilizzare il concetto, che appare per la prima volta, di profitti fittizi, anche senza tutta l’ampiezza che noi assegniamo ad esso. In questo nuovo lavoro, nonostante esprima come preoccupazione speciale il tema della produzione di plusvalore, ossia di chi produce questa ricchezza necessaria per la remunerazione del capitale, pensiamo che si commette un equivoco teorico. L’autore afferma, infatti, che è nei paesi più avanzati, e particolarmente negli Stati Uniti, che il tasso di plusvalore é il più elevato, ma che, se pensiamo alla massa del plusvalore, è dalla Cina e dall’Asia che proviene la maggior parte della remunerazione del capitale mondiale. Vediamo come argomenta: “Naturalmente, continuano ad essere i paesi a capitalismo avanzato (e soprattutto gli Stati Uniti) i luoghi nei quali il tasso di plusvalore... é il più alto del mondo. La produttività del lavoro é molto alta e il tempo di lavoro necessario molto basso, e una delle ragioni di ciò é l’importazione massiccia di ‘beni salari’ molto economici... Ma se consideriamo il quadro in termini di ‘massa’ e non di ‘tasso’, la maggior parte del plusvalore che permette la riproduzione del capitale adesso proviene dall’Asia e soprattutto dalla Cina”. (idem - trad. nostra)

Così, per lui, il tasso di plusvalore più alto del mondo si ritrova nei paesi capitalistici “più avanzati” e una delle ragioni è l’importazione di beni di consumo per i lavoratori a prezzi molto ridotti. Questo significa che i prezzi di questi beni sono inferiori a quelli corrispondenti ai valori? Ma, allora, quello che succede non è che il tasso di plusvalore in quei paesi è più alto, ma che essi ricevono masse di valore trasferite dai paesi esportatori di quei beni, che sono soprattutto i paesi “meno avanzati”. Vi è, senza dubbio, una scarsa comprensione della teoria marxista del valore, forse spiegabile in parte dalla prospettiva eurocentrica dell’autore.

4. Commento all’interpretazione di Virginia Fontes L’articolo di Virginia Fontes, denominato “Marx, espropriazioni e capitale monetario - note per uno studio del tardo imperialismo”9, specialmente nella sua ultima parte, é fondamentale per intendere l’attuale fase del capitalismo, specialmente in ciò che si riferisce alla relazione che esiste tra il capitale speculativo e il capitale produttivo (capitale funzionante nelle sue parole). La sua lettura permette anche che si tengano presenti alcuni equivoci di interpretazioni contemporanee che, o non hanno nessuna relazione con la teoria economica di Marx oppure, rivendicandola, non si rendono conto che è fondamentale nella teoria marxista del valore. L’autrice ha una particolare preoccupazione: sottolinea che l’enfasi che alcuni analisti contemporanei del capitalismo collocano sul predominio della speculazione conduce a dimenticare le relazioni sociali fondamentali che sono alla base della organizzazione capitalista. Tali relazioni si sostentano nelle diverse forme dello sfruttamento del lavoro. Così, l’articolo enfatizza la questione dell’espropriazione e dell’espropriazione del plusvalore come base per l’esistenza del capitalismo, in qualsiasi momento della sua esistenza. Insiste su un aspetto che é fondamentale: il plusvalore, estratto tramite lo sfruttamento diretto del lavoro é la fonte originaria di ogni remunerazione del capitale (includendo gli interessi o le rendite speculative). Potremmo aggiungere qui, per integrare, che è da questo sfruttamento, e pertanto dal plusvalore (aggiungendo l’eccedente mercantile non salariale) che deriva anche la remunerazione e, addizionalmente, i costi del lavoro improduttivo, delle attività improduttive, siano esse realizzate dal settore privato o da quello pubblico. É vero che la citata autrice non prende in considerazione il nostro concetto di profitti fittizi e, soprattutto, non considera le sue implicazioni per le prospettive future del capitalismo. Forse per questo il suo articolo non arriva a mettere in discussione questo problema che é assolutamente rilevante dal punto di vista teorico e, principalmente, dal punto di vista politico. Quindi, criticare il citato articolo perché disconosce il concetto di cui sopra sarebbe uno sproposito, considerando che la generalità degli autori che studiano il tema o non lo conoscono o sono in disaccordo con esso (con qualche eccezione10). Nell’articolo di Virginia Fontes, il capitale a interesse è chiamato capitale monetario. Questo può condurre a una certa difficoltà, perché per capitale monetario si può intendere tanto il capitale a interesse quanto il capitale fittizio. Di più: il capitale monetario può essere riferito anche a un livello più elevato di astrazione, alla semplice forma funzionale del capitale industriale (nella terminologia di Marx), forma questa che é il punto di partenza del ciclo del capitale denaro (si vedano i primi capitoli del libro II del Capitale). Quest’ultima confusione, tra il capitale denaro come forma funzionale e il capitale a interesse come forma sostantivata, non é molto problematica per un’eventuale analisi concreta, perché i concetti si collocano a differenti livelli di astrazione. La difficoltà maggiore sta nella possibilità di identificazione e di confusione tra ciò che di fatto è capitale a interesse e capitale fittizio. La distinzione tra questi due concetti, specialmente se consideriamo le due modalità del capitale fittizio (I e II), è fondamentale per capire la logica del funzionamento della fase attuale del capitalismo. Ed é giustamente a partire da lì che sorge una questione che ci sembra importante: una cosa é l’esistenza del capitale a interesse prestato a un’impresa, sia essa produttiva o commerciale; altra cosa è il capitale fittizio che controlla il capitale produttivo, determinando il comportamento dei gestori del capitale in azione. Nel primo caso, il capitale a interesse è l’aspetto dominato dal capitale industriale, essendo parte di esso; nel secondo, si oppone al capitale industriale, che è il polo dominante. Queste situazioni costituiscono tappe differenti del capitalismo e la transizione tra di esse necessita di una spiegazione storica e teorica. In realtà, l’interpretazione di Virgínia Fontes, anche avendo come riferimento un’adeguata prospettiva sulla teoria marxista del valore, presenta un punto di vista diverso da quello che noi utilizziamo per comprendere la tappa attuale del capitalismo. Quindi pensiamo che, molto più che di prospettive alternative, si tratta di punti di vista complementari. E questo, per una ragione semplice: perché hanno come base la stessa teoria del valore. Se siamo di fronte a punti di vista complementari e non alternativi, in che senso la prospettiva dell’autrice contribuisce alla nostra comprensione della società attuale, all’interno della visione che già abbiamo del problema? In primo luogo, la lettura del lavoro permette di comprendere che il predominio del capitale “monetario” su scala mondiale esacerba la centralizzazione del capitale, ma allo stesso tempo stimola l’estensione dello spazio delle relazioni capitaliste e, quindi, dell’estrazione del plusvalore. Concentra e centralizza, ma al tempo stesso permette una ampia dispersione del capitale che direttamente estrae plusvalore e si rende protagonista dello sfruttamento. Lei afferma che il citato predominio “stimola simultaneamente la concentrazione e la dispersione del capitale funzionante.” (VF)11 Il controllo esercitato globalmente dal “capitale monetario” permette e stimola l’esistenza di una molteplicità di forme di sfruttamento del lavoro, compito lasciato nelle mani del capitale produttivo sostanziale. Il capitale speculativo controlla il funzionamento e la logica dell’economia mondiale, si appropria voracemente del frutto dello sfruttamento, ma non si sporca le mani con essa: “Innumerevoli attività, apparentemente distanti dei grandi monopoli e disperse in una miriade di “imprenditorismi”, si legano al capitale monetario tramite vincoli diversificati di finanziamento. In questo ambito l’attività di estrazione del plusvalore è spinta a realizzarsi a partire da imprese di trasporti varie. La loro estrema diversificazione attraversa tutta la rete sociale, rinnovando espropriazioni, approfondendo la divisione verticale del lavoro e imponendo nuove forme di subordinazione del lavoro al capitale. A questo potremmo dare il nome di diffusione delle relazioni sociali capitaliste in tutti i livelli della vita sociale, imponendo forme di estrazione del plusvalore spesso in condizioni estreme a lavoratori tendenzialmente spogliati di ogni diritto. Al tempo stesso, la grande proprietà si concentra attraverso l’intensificazione di fusioni e acquisizioni d’imprese, che concentrano in pochi grandi monopoli internazionali gigantesche masse di capitali”. (VF) Ciò permette che lo sfruttamento dei lavoratori raggiunga gradi elevati, in particolare del plusvalore assoluto, sia attraverso l’estensione della giornata, spesso tramite l’imposizione di più di un impiego al lavoratore, sia tramite l’intensificazione del ritmo di lavoro (che implica un aumento del plusvalore assoluto). Permette anche la nascita o la rinascita di forme di sfruttamento estreme, apparentemente non capitaliste o addirittura non salariali, proprie di forme intermedie di sussunzione e distanti dalle forme reale e formale. E qui dobbiamo ricordare il concetto di supersfruttamento sviluppato dal maestro Ruy Mauro Marini. “...la autonomizzazione del capitale monetario sul piano internazionale permette di approfondire la sua attuazione come stimolatore di attività funzionanti, imponendo l’estrazione di superlavoro (plus-valore) tramite diversificate forme giuridiche per il salariato”. (VF) E qui aggiungiamo che questa estrazione di superlavoro, raggiungendo anche forme non salariali o apparentemente non salariali, non sfocia propriamente in plusvalore ma in un eccedente mercantile, un eccedente-valore, assorbibile dal capitale sottoforma di profitto, profitto commerciale, interessi, rendita della terra o qualsiasi altra forma di appropriazione dell’eccedente. Il compito di estrarre direttamente il plusvalore o l’eccedente mercantile rimane sotto la responsabilità non solo delle imprese capitaliste grandi o medie, ma anche di piccole imprese, molte volte con caratteristiche apparentemente non capitaliste. Il compito di realizzare direttamente lo sfruttamento: “... si spalma su un amalgama di piccole imprese (ma attivamente funzionanti), che si comportano come vasi comunicanti. Il comportamento del capitale-merce si estende all’insieme delle attività di sussistenza nella vita sociale. Trasforma così ugualmente grandi e piccole imprese in ‘capitale funzionante’, in estrattrici di plusvalore”. (VF) L’articolo di Virginia Fontes permette di capire che la relazione tra le citate forme di capitale è lontana dal costituire una contraddizione fondamentale e neanche antagonista tra la proprietà e la gestione del capitale; tra il capitale azionario e la rendita. La contraddizione fondamentale continua ad essere tra capitale e lavoro. Anche gli agenti del capitale, i suoi gestori, proprietari o meno delle porzioni maggiori di capitale produttivo, beneficiano della speculazione e sono beneficiari della rendita e della speculazione. “...ma la contraddizione tra i diversi tipi di capitale è stata fino a qui diluita attraverso l’incorporazione selettiva di grandi e medi funzionanti alla proprietà generica del capitale monetario, anche se in forma subalterna”. (VF) Il fatto è che anche piccoli produttori e salariati medi arrivano a beneficiare in modo più marginale, per lo meno nelle congiunture favorevoli, dalle rendite speculative. Virginia Fontes contribuisce anche su un altro aspetto: chiarendo che il dominio su scala mondiale del capitale speculativo crea o riafferma aspetti significativi della apparenza del sistema: “Il predominio attuale del capitale monetario su scala internazionale si accompagna, alla generalizzazione di due miti, entrambi frutto della sua percezione unilaterale: quello secondo cui è nella gestione intellettuale (soprattutto nella complessa gestione di rischi e di tassi, nella gestione internazionalizzata di capitale monetario), che si produce il profitto e il secondo mito, complementare al primo, secondo il quale il lavoro vivo non avrebbe alcuna funzione nella vita sociale”. (VF) “Di fatto, per i superproprietari del capitale monetario e per i loro agenti, il lavoro ha smesso di compiere il ruolo centrale, una volta che da esso sono lontani fisicamente e intellettualmente”. (VF) Il lavoro appare ora come fattore che non costituisce la fonte originaria dell’eccedente e questa funzione si trasferisce alla conoscenza e alla tecnologia. Il lavoro manuale appare come qualcosa in estinzione e come già non molto importante per la produzione della ricchezza. Il profitto appare come il risultato della capacità di gestione intellettuale. Questa apparenza acquisisce contorni di realtà assoluta e indiscutibile. L’informazione diventa un nuovo feticcio nella società capitalista attuale, al fianco di tutti gli altri, specialmente accanto alla “santissima trinità”: i feticci merce, denaro e capitale (quest’ultimo è il padre di tutti). “Il relativo distanziamento prodotto dalla autonomizzazione del capitale monetario di fronte alla molteplicità esponenziale di attività concrete di lavoro che determina e delle quali si nutre appare come totale scollamento tra la ricchezza e il lavoro, come la fine del lavoro. ...un’estrema valorizzazione del lavoro intellettuale (o cognitivo) si diffonde, oscurando i processi reali ...” (VF) “Lavoro cognitivo”! Bell’espressione carica di contenuto ideologico, espressione di preconcetti e incomprensioni sul ruolo del lavoro manuale. “Capitalismo informazionale”! Cosa?! I lavoratori manuali già non sono più necessari nell’attuale mondo capitalista o, per lo meno, quasi non sono necessari. Questo è ciò che Virginia Fontes demistifica, mostrando chiaramente l’origine della forza di questa apparenza. Il capitale ha trovato il suo paradiso. Non è più necessario sporcarsi le mani di carbone come nel XIX secolo, o sentire l’olezzo della benzina o del diesel come nel secolo scorso. Il capitale riesce a produrre profitto distante dalla produzione, lontano dal sudore, dalla puzza e dalle mani callose dell’operaio di fabbrica o del lavoratore dei campi. “Il capitale monetario si presenta socialmente come un capitale al di sopra degli altri, che non si ‘sporca’ le mani nel processo produttivo, compito che impone agli agenti funzionanti, siano essi o meno proprietari diretti dei mezzi di produzione, é bene ricordare.” (VF) “La ‘pulizia’ deriva dal fatto che, allontanandosi dalla produzione diretta, non si sviluppa immediatamente con le forme brutali di estrazione del valore che intensifica.” (VF) Nella sua analisi Virginia privilegia, è vero, la contraddizione tra proprietà e gestione del capitale, e sottostima, anche se ce l’ha presente, quella che esiste tra la produzione e l’appropriazione di plusvalore ed eccedente mercantile. Evita i sifoni del riformismo presente in altre interpretazioni che privilegiano tale contraddizione, anche se non propone conclusioni, per lo meno esplicitamente, sulle potenzialità del futuro del capitalismo. Anche se la contraddizione che appare nella sua interpretazione è quella tra proprietà e gestione, ha chiaro che la contraddizione fondamentale nel capitalismo attuale continua ad essere quella tra capitale e lavoro e questa sua idea deriva dalla forza della sua convinzione nella teoria marxista del valore e, principalmente, su un’interpretazione adeguata di questa.

5. L’interpretazione di Michel Husson Nel recente articolo denominato “Finance, hyper-concurrencie et reproduction du capitale12, Michel Husson discute il ruolo del processo di finanziarizzazione dell’economia capitalista attuale e nella sua interpretazione presenta un grafico molto interessante. Constata che a partire dall’inizio degli anni ‘80, all’interno del dominio neoliberista, nei principali paesi dell’OCSE, la crescita del tasso di profitto, o meglio, il ritorno a livelli elevati di questo tasso, non si accompagna nella stessa misura quella del ritmo di accumulazione del capitale. La distanza è particolarmente significativa. Il suo grafico mostra anche che il totale dei salari scende in relazione ai rendimenti finanziari, mentre in media l’investimento mantiene la sua proporzione più o meno costante nella rendita nazionale. “Se astraiamo le fluttuazioni cicliche la nuova fase si caratterizza nel seguente modo: recupero del tasso di profitto senza effetti sulla accumulazione, crescita mediocre e debole evoluzione della produttività”. (MH, p. 3) E conclude: “É legittimo chiamare finanziarizzazione questa distanza tra profitto e accumulazione, quando il profitto non accumulato corrisponde principalmente alla distribuzione delle rendite finanziarie. Ma é molto più discutibile partire da questa constatazione per proporre una periodizzazione del capitalismo che si sostenta solo nel finanziamento dell’accumulazione”. (MH, p. 3) Apparentemente, in questo passaggio, ci sarebbe una critica all’idea di privilegiare nell’analisi la contraddizione proprietà/gestione del capitale, per lo meno come criterio di periodizzazione del capitalismo. La sua interpretazione del processo che chiama di finanziarizzazione é molto differente dalla nostra prospettiva. Egli è in questo articolo particolarmente preoccupato di sottolineare il fatto, con cui concordiamo pienamente, che il valore solo può essere creato nella produzione e non dal settore finanziario, speculativo. Riferendosi a una delle interpretazioni esistenti attualmente sul capitalismo afferma: “L’euforia delle borse e le illusioni create dalla nuova economia hanno dato l’impressione che si può arricchire dormendo, una volta che la finanza è ridiventata una fonte autonoma di valore. La tesi della “scelta di portfolio” postula che i capitali scelgono continuamente tra investimento nella sfera produttiva o nei mercati finanziari speculativi e che essi decidono tra i due in funzione dei rendimenti relativi sperati. Questo punto di vista può avere la virtù di essere critico, ma ha il difetto di suggerire che esistono due mezzi alternativi di creare valore. Nella realtà, ci si può arricchire nella Borsa solo sulla base di un’appropriazione operata sul plusvalore, quindi il meccanismo presenta limiti - quelli dello sfruttamento - e il movimento di valorizzazione della borsa non si può auto-alimentare all’infinito”. (MH, p 5) Husson ha tutte le ragioni, perché esiste solo una forma di creare valore: nella produzione e, ancor di più, per mezzo del lavoro produttivo13. L’autore non riconosce il concetto di profitti fittizi e, così, non possiamo concordare con la sua idea secondo cui non ci si può arricchire nella Borsa su una base che non sia quella dell’appropriazione del plusvalore. L’apparenza delle operazioni delle borse valori non lascia dubbi. Ci si può, si, arricchire su basi speculative, senza che esista plusvalore; per puro movimento speculativo del prezzo degli attivi. Se il prezzo dell’insieme delle azioni cresce, tutti si sentono più ricchi di prima. Oltre a questo, alcuni si possono arricchire anche per appropriazione di capitale fittizio di proprietà di terzi. É ciò che succede quando, tramite movimenti speculativi, perdono dei piccoli operatori poco informati e guadagnano i grandi speculatori, i veri capitalisti finanziari. Capita spesso. Alcuni potrebbero obiettare che si tratta di un arricchimento apparente. E questo è indiscutibile. Chi può affermare che l’apparenza non é una delle dimensioni della realtà e che si tratta, pertanto, di pura illusione? Nella verità, l’apparenza é reale e anche l’appropriazione speculativa lo è, anche se dobbiamo fare qualche precisazione. Husson ha ragione quando afferma che il meccanismo di arricchimento degli speculatori presenta dei limiti, ma questo limite non è ridotto alla dimensione del plusvalore. Se non fosse così, il volume del capitale speculativo che circola nel mercato mondiale non avrebbe potuto arrivare alla quantità così elevata di oggi. Questo limite è molto più flessibile e si trova a disposizione del mercato nell’accettare la crescita del capitale tramite l’espansione del capitale fittizio, tramite l’accettazione (appropriazione) del profitto fittizio. Ovviamente ciò non significa pensare che la soluzione per questo tipo di profitto (che, allo stesso tempo e dialetticamente é illusorio ed é reale) non presenta limiti né problemi. Al contrario la remunerazione del capitale per mezzo del profitto fittizio é solo complementare, esige allo stesso tempo gradi addizionali di sfruttamento del lavoro. D’altra parte e oltre questo, il vero problema si configura per il fatto che tale soluzione implica automaticamente crescita ulteriore del capitale fittizio (nel caso, speculativo parassitario), il che aggrava la contraddizione produzione/ appropriazione. In ciò si configura un crescente problema e una difficoltà del sistema. Ammettere l’esistenza di remunerazione del capitale per mezzo di profitti fittizi, slegati dalla produzione del plusvalore, non significa neanche, almeno per noi, abbandonare la teoria marxista del valore, teoria questa a ragione rivendicata fortemente da Husson. Al contrario, tale teoria si trova solidamente configurata come base per la comprensione del fatto che la contraddizione principale dell’attuale capitalismo è costituita dall’opposizione tra produzione e appropriazione di ricchezza mercantile (in particolare, ma non esclusivamente, di plusvalore). Usare la teoria di Marx per capire l’attuale tappa del capitalismo implica necessariamente collocare questa contraddizione al centro dell’analisi. In altre occasioni, e molto tempo fa, abbiamo avuto l’opportunità di affermare che le domande fondamentali della teoria marxista del valore sono: chi produce, chi si appropria e come si trasferisce il valore. I suoi concetti fondamentali sono, pertanto: produzione, appropriazione e trasferimento di valore. Il disconoscimento del concetto di profitti fittizi da parte di Husson appare chiaro nel seguente passaggio dello stesso articolo: “A meno che si accetti la finzione dei guadagni virtuali, la crescita della sfera finanziaria - e dei rendimenti reali che essa può concedere - é possibile solo nella forma dell’aumento del plusvalore non accumulato, e tanto una come l’altra hanno limiti che sono stati già raggiunti”. (MH, p. 6) Tenendo contro dell’interpretazione che Husson dà della “finanziarizzazione”, che implicazioni o che effetti sul capitalismo attuale ha per lui l’espansione del capitale speculativo? In primo luogo il citato autore sottolinea che l’espansione dell’attività finanziaria ha ampliato gli spazi di accumulazione del capitale, creando un mercato veramente mondiale, dando ragione alle espressioni come globalizzazione o mondializzazione. Allo stesso tempo, ha facilitato il processo di eguagliamento dei tassi di profitto. In due piccoli passaggi del suo testo ciò appare chiaro: “La funzione principale della finanza é abolire, per quanto possibile, i limiti degli spazi di valorizzazione: essa contribuisce nel senso della costituzione di un mercato mondiale”. (MH, p. 9) “La finanziarizzazione ha per effetto il superamento dei limiti settoriali e geografici dell’eguagliamento dei tassi di profitto. ...La finanziarizzazione é ciò che permette la mobilità dei capitali”. (MH, p. 9) Così, Husson vede nella finanziarizzazione il meccanismo di rafforzamento del movimento di capitale e della concorrenza e è per questo che questo processo, invece di costituire una difficoltà aggiuntiva per il futuro del capitalismo, sembra risultare favorevole. “La finanza é il mezzo che rafforza la concorrenza favorendo le movimentazioni di capitale: questa é la funzione principale che essa esercita... La caratteristica principale del capitalismo contemporaneo non risiede così nell’opposizione tra un capitale finanziario e un capitale industriale, ma nell’attivazione della concorrenza (iper-concorrenza) tra capitali permessa dalla finanziarizzazione”. (MH, p. 9) Curiosamente, nella sua analisi, anche se la rivendicazione della teoria marxista del valore è una costante, nessun riferimento alla tendenza decrescente del tasso di profitto è presente e non ricopre neanche nessun ruolo nell’interpretazione sul capitalismo attuale. Egli completa la sua analisi quando considera che tutto questo processo generalizza la concorrenza tra i lavoratori del mondo intero, suggerendo questo come meccanismo capace di aver prodotto e di continuare a produrre un aumento del tasso di sfruttamento in tutto il pianeta, aspetto con il quale concordiamo interamente: “La mondializzazione capitalista consiste fondamentalmente nella generalizzazione della concorrenza tra i lavoratori su scala planetaria, attraverso il movimento di capitali. Dire che lo spazio di valorizzazione si estende all’insieme dell’economia mondiale implica anche che le norme di sfruttamento tendono a universalizzarsi... Tale risultato sembra evidente: la ricerca di un tasso di profitto massimo implica quella di un tasso di sfruttamento il più elevato possibile”. (MH, p. 9) In ciò che si riferisce all’effetto della finanziarizzazione sullo sfruttamento del lavoro c’è una vicinanza tra la prospettiva di Husson e quella di Virginia Fontes. Così, la conclusione di Husson é che la finanziarizzazione ha compiuto e compie un ruolo positivo per il funzionamento del capitale. “La finanza non é un ostacolo al funzionamento normale del capitale, ma lo strumento del suo ritorno a un funzionamento puro, liberato da tutta una serie di regole e pressioni imposte a tale sistema da decenni”. (MH, p. 1) “La finanza non é un ostacolo al funzionamento attuale del capitalismo, ma uno dei suoi meccanismi essenziali. ... Da questo punto di vista, il capitalismo contemporaneo non si distanzia dalla operazione analizzata da Marx ...Non si pul pensare che esso sia perturbato dalla finanza, quando essa é precisamente uno dei principali meccanismi che permettono che il capitalismo si identifichi sempre più con il suo stesso concetto”. (MH, p. 13) Ma, la sua interpretazione del ruolo positivo della finanziarizzazione non finisce qui. Dà l’impressione, in certi momenti, di cadere in una interpretazione subconsumista ingenua, anche se ciò non sembra totalmente chiaro ed esplicito nel suo testo. Si veda questa passaggio, ad esempio: “Il fenomeno si riferisce fondamentalmente ad una contraddizione essenziale ... che consiste del fatto che il capitale si rifiuta di soddisfare una parte crescente delle necessità sociali, perché questo evolve in una maniera che si allontana sempre più dai suoi criteri di scelta ed efficacia. La finanziarizzazione é, così, una manifestazione associata a questa configurazione, la cui base obiettiva risiede nell’esistenza di una massa crescente di plusvalore che non trova opportunità di essere accumulata in maniera ‘produttiva’ e genera, pertanto, la finanziarizzazione come mezzo per dirigere tali masse di valore in direzione del consumo dei detentori di rendite”. (MH, p. 17) La remunerazione speculativa del capitale ha una funzione di favorire la realizzazione del plusvalore per mezzo del consumo finale dei detentori di rendite? E’ questa l’idea? Non possiamo concordare. In verità, l’assenza del concetto di profitto fittizio e la constatazione dello sfasamento tra la massa di profitto del capitale e il volume d’accumulazione porta l’autore a un equivoco, a credere che i rendimenti del capitale speculativo, se non vengono destinati all’accumulazione produttiva, devono essere necessariamente destinati al consumo. In questa interpretazione manca il fatto che dietro questo profitto speculativo, non esiste assolutamente plusvalore, o eccedente reale che debba essere consumato o accumulato in qualche modo, sia dal capitale produttivo, sia dal capitale di commercio. Questi profitti fittizi, e non é facile da capire, solo possono avere come destinazione l’aumento della potenza del capitale fittizio, del capitale speculativo parassitario. La difficoltà proviene dal fatto che in apparenza ogni possessore di capitale fittizio o ricevitore di profitto fittizio può convertire la sua proprietà in un capitale di altro tipo. Questa apparenza fa si che si generi l’illusione che si tratta di una remunerazione che o é accumulata in maniera sostantiva/sostanziale o deve essere consumata. L’equivoco di Husson sembra rafforzarsi in questo passaggio: “... sarebbe necessario spiegare perché i beneficiari di rendimenti finanziari non si orientino verso l’accumulazione, e decidano al contrario per il consumo. O, a meno che non si consideri che la sfera finanziaria costituisce una specie di terza sezione14, al fianco di quelle delle produzione e dei beni di consumo, le somme lanciate dai detentori di rendite sono reintrodotte nel circuito e possono completare il ciclo del capitale solo in due modi: consumo o accumulazione. ... Basta mostrare un risultato importante: i rendimenti finanziari (interessi e dividendi) non hanno altra destinazione finale che il consumo o il risparmio. ... Questo risultato elementare é importante da ricordare, perchè significa che non esiste, al lato dell’accumulazione e del consumo, un terzo utilizzo finale dei rendimenti che si vorrebbe chiamare, ad esempio, speculazione finanziaria”. (MH, p. 15) Poi completa il suo ragionamento mostrando che il meccanismo per il consumo necessario del plusvalore sono giustamente i rendimenti speculativi: “...affinché i capitalisti possano consumare plusvalore, è necessario che gli sia distribuito. Ora, questa distribuzione si effettua (a eccezione del consumo dei piccoli capitalisti individuali) sotto forma di rendimenti finanziari. C’è pertanto un vincolo diretto tra la distribuzione di rendimenti finanziari e il consumo del plusvalore”. (MH, p.15) Nonostante i limiti dell’interpretazione di Husson e le nostre opposizioni, una delle sue conclusioni è molto soddisfacente: Intanto recupera l’idea che non è possibile dissociare i fenomeni dello sfruttamento e della finanziarizzazione che appaiono come due componenti di una stessa realtà. Il capitalismo contemporaneo è prima di tutto un capitalismo supersfruttatore: l’aumento del tasso di sfruttamento permette il recupero del tasso di profitto senza generare nuovi spazi di accumulazione proporzionali. Il consumo del plusvalore permette di ridurre questa distanza. In questo schema di insieme, la finanziarizzazione compie una duplice funzione: instaura una concorrenza esacerbata, necessaria per mantenere alta la pressione verso lo sfruttamento; ... la storia concreta ci offre alcune indicazioni sull’ordine dei fattori: la svolta neoliberista é, in primo luogo, una sconfitta inflitta dal capitale al lavoro, nella quale la finanza è stata una leva più che un fattore autonomo. “Lo sviluppo ulteriore della finanza è stato addizionalmente un mezzo per rafforzare questa nuova relazione di forze tramite l’intensificazione della concorrenza, e di soddisfare - per lo meno provvisoriamente - le esigenze della riproduzione”. (MH, pp. 16 e 17) Così, per concludere, i due ultimi punti di vista, quello di Virginia Fontes e quello di Husson, hanno il grande merito di avere come solida base e in maniera coerente la teoria marxista del valore; sono messe a fuoco significative e rilevanti in più di un aspetto. Peccano per il fatto di non prendere in considerazione l’esistenza reale dei profitti fittizi e le implicazioni che ne derivano. L’ultimo articolo commentato pecca, invece, in quanto presenta un’interpretazione basata su una prospettiva subconsumista.

Cioè, il pensiero marginalista ha anche un nome per questa proprietà miracolosa: produttività marginale del capitale.

Ha una opinione diversa ad esempio, l’economista marxista Orlando Caputo. El capitale productivo y el capitale financiero en la economía mundial y en América Latina. In: ¿Hacia Dónde va el Sistema Mundial? Impactos y alternativas para AL y El Caribe. Gambina, Julio y Estay, Jaime. FISyP, Buenos Aires, 2007.

Intendiamo per capitale sostantivo l’insieme formato dal capitale produttivo e commerciale. Entrambi pubblicati in Uma nova fase do capitalismo? François Chesnais, Gérad Duménil, Dominique Lévy e Immanuel Wallerstein. São Paulo e Campinas, Editora Xamã e Centro de Estudos Marxistas (Cemarx) da Unicamp, 119 pagine. Comunque, ci sentiamo obbligati a fare un breve riferimento al testo recente di Chesnais.

Duményl y Lèvy. Superaçao da crise, ameaça de crises e novo capitalismo. (pubblicato nel libro citato, vedi nota nº4) Chesnais, F. A nova economia: uma conjuntura própria à potência econômica estadunidense. (pubblicato nel libro citato, vedi nota nº4)

Marques, Rosa Maria e Nakatani, Paulo. O papel da finança no capitalismo contemporâneo. Anais do XIII Encontro Nacional de Economia Política. SEP, São Paulo, junho de 2007. Cf. também Chesnais, F. La prééminence de la finance au sein du ‘capitale en general’, le capitale fictice y le mouvement conteporaine de mondialization du capitale. In: Bunhoff, S. et all. La Finance Capitaliste. Paris, presse Universitaires de France, 2006. Chesnais, François. El fin de un ciclo. Alcance y rumbo de la crisis financiera. (articolo inedito che sarà pubblicato sul prossimo numero di Herramienta, Buenos Aires). In questo lavoro e in quello citato nella nota precedente, non appare l’uso di terminologia regolazionista.

Articolo ancora inedito, sarà pubblicato prossimamente dalla rivista Crítica Marxista.

Una eccezione é F. Chesnais che, in un articolo recente, accetta il concetto in un senso molto ristretto.

Visto che l’articolo è ancora inedito, ci limiteremo a citarlo in questo modo.

Disponíbile in http://hussonet.free.fr/finamarx.pdf. Accesso in: 14 febbraio 2008 (in questo testo sará citato come MH, p.... - trad. nostra). Pubblicato anche come capitolo del libro La finance capitaliste, Séminaire d’Études Marxistes (Suzanne de Brunhoff, François Chesnais, Gerard Duménil, Michel Husson et Dominique Lévy), Presses Universitaires de France, 2006.

É vero che qualsiasi proprietario di un capitale può scegliere tra un investimento produttivo o un’applicazione finanziaria. Ma questo è vero solo quando si riferisce a un capitale isolato, o meglio, a ogni capitale isolatamente. Se il tema si porta a livello globale la cosa muta. 14 Husson si riferisce sicuramente agli schemi di produzione di Marx, del libro II del Capitale