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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO

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Capitalismo del secolo XXI: crisi e barbarie

PLÍNIO DE ARRUDA SAMPAIO JR

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1. Introduzione

La crisi generale del capitalismo ha creato una nuova fase storica. L’obiettivo di questo articolo sta nel determinare l’impatto di questa nuova situazione sulle economie latino-americane, dando risalto ai paesi con un maggior grado di sviluppo delle forze produttive. Discuteremo, perciò, della natura della recente crisi e dei suoi meccanismi di propagazione alla periferia latino-americana. Attraverso la comparazione degli effetti della crisi recente con quelli della crisi che ha disarticolato la divisione internazionale del lavoro nella prima metà del secolo XX, caratterizzeremo la specificità della congiuntura attuale, al fine di definire le sfide che dovranno essere affrontate dalle società latino-americane. L’ipotesi soggiacente è che, in maniera diversa da ciò che accadde con la crisi degli anni ‘30, quando l’isolamento dei flussi di commercio e di capitale si fermò, permettendo che le economie più sviluppate della regione dessero impulso all’industrializzazione tramite la sostituzione delle importazioni, la nuova fase storica deve intensificare il processo di inversione neocoloniale che caratterizza tutte le dimensioni della vita latino-americana, colpendo in maniera particolarmente regressiva le economie con un grado di sviluppo maggiore. Mostreremo, infine, che i problemi economici e sociali della regione saranno difficilmente risolti nell’ambito delle economie nazionali, cosa che pone l’urgenza di una nuova agenda economica e politica che ridefinisca i parametri che devono orientare la strategia di sviluppo economico e la politica di integrazione dei paesi latino-americani. Si giunge in tal modo alla conclusione che, nell’approfondire e generalizzare la relazione tra capitalismo e barbarie, il nuovo contesto storico pone l’urgenza della lotta per il socialismo.

2. Crisi e barbarie La crisi finanziaria, scoppiata con l’intensità di un uragano tropicale nella seconda metà del 2008, ha generato uno stato di incertezza assoluta sul futuro dell’ordine globale. La sfiducia nella solidità delle istituzioni finanziarie, provocata dalla caduta a catena delle banche che fino a quel momento sembravano incrollabili, ha scatenato una violenta crisi del credito che ha sconvolto rapidamente le relazioni di produzione e circolazione che protraevano l’espansione dell’economia mondiale. Nell’esporre la fragilità straordinaria del sistema monetario internazionale e le precarie fondamenta che sorreggono la globalizzazione dei mercati, la crisi ha messo a terra i parametri che equilibravano i calcoli economici, lasciando il sistema capitalista sotto la minaccia di una depressione senza precedenti. La rapidità e l’intensità con le quali i problemi finanziari si sono trasformati in problemi economici propriamente detti sono evidenti nelle difficoltà ciclopiche che hanno iniziato a minacciare la sopravvivenza delle maggiori imprese industriali e commerciali del pianeta e nell’espansione esponenziale della disoccupazione in tutto il mondo. Esse rilevano la gravità delle sfide che dovranno essere affrontate nei prossimi anni.

L’origine della crisi economica mondiale si trova nel processo di liberalizzazione che ha slacciato le restrizioni istituzionali che, nei primi anni del dopo guerra, avevano stabilito alcuni limiti all’attuazione del capitalismo finanziario, riducendo, su scala planetaria, l’impatto perverso della concorrenza intercapitalista sull’economia popolare. Nel portare al parossismo la libertà di movimento dei capitali e la deregolamentazione dei mercati, il processo di liberalizzazione guidato dagli Stati Uniti, sulla battuta degli organismi finanziari internazionali, ha creato le condizioni ideali per il pieno sviluppo della speculazione finanziaria, mercantile e produttiva su scala globale. L’era neoliberale ha scatenato una concorrenza sfrenata per il facile lucro, premiando gli speculatori più sfrontati e fomentando un modello di accumulazione del capitale che sarebbe potuto terminare solo in una catastrofe. Il risultato era perfettamente prevedibile: la valorizzazione del capitale fittizio si è completamente staccata dalla valorizzazione produttiva e l’accumulazione produttiva si è sganciata totalmente dalla capacità di consumo della società. In poche parole, la bolla speculativa, che si manifesta da decenni, si è trasformata in una classica crisi da superproduzione, la cui soluzione richiederà un rogo brutale di capitale produttivo, commerciale e finanziario, con tutto quello che questo implica: distruzione delle forze produttive; chiusura delle imprese; nuova ondata di concentrazione e centralizzazione dei capitali; crescita della disoccupazione; aumento della povertà e della disuguaglianza sociale; crisi sociale e instabilità politica. La crisi in corso non è un fenomeno aleatorio, che avrebbe potuto essere evitato con politiche economiche adeguate, ma una conseguenza ineluttabile dello sviluppo proprio al capitalismo. Per ciò che concerne le innumerevoli turbolenze che hanno caratterizzato la complessa traiettoria delle finanze internazionali dall’inizio del movimento di liberalizzazione, al principio degli anni Ottanta, ci sono per lo meno due cambiamenti significativi nel carattere dei problemi economici attuali. Entrambi convergono verso la configurazione di una crisi generale del capitalismo- un fenomeno strutturale che avrà ripercussioni di lungo periodo sulle relazioni sociali e sui nessi internazionali e transnazionali che formano il sistema capitalista mondiale. In primo luogo, la profondità e l’estensione degli squilibri economici e finanziari che devono essere diretti superano quelle delle crisi del passato, in tutte le loro dimensioni e, per i loro effetti sull’insieme dell’economia mondiale, sono comparabili, storicamente, solo all’ecatombe che disarticolò la divisione internazionale del lavoro ed il sistema monetario internazionale negli anni ’30. Non c’è modo di contenere il processo di espansione della crisi, senza sovvertire le basi proprie al carattere liberale dell’ordine economico internazionale costruito negli ultimi quattro decenni sul sistema dei Bretton Woods, poiché al giorno d’oggi tutte le economie si trovano fortemente interconnesse e strettamente dipendenti da quella dell’America del Nord . La cosa, tuttavia, salvo uno svolta insperata degli avvenimenti, sembra ben poco probabile al momento. In secondo luogo, l’impotenza del potere politico nel governare la situazione non permette che si possa intravedere una soluzione rapida ed indolore per l’impasse dell’economia mondiale. Il superamento degli ostacoli dell’accumulazione di capitale esige un’azione coordinata, di carattere transnazionale, che coinvolga tutte le dimensioni del processo economico- quella finanziaria, monetaria, commerciale e produttiva- e che abbia una reale possibilità di concretizzarsi. Retorica a parte, ciò sembra davvero poco plausibile. Lo Stato nordamericano, che dovrebbe guidare questo processo, si è rivelato totalmente impotente nell’affrontare la sfida e non c’è alcuna possibilità che qualche altra potenza imperialista venga ad occupare questo spazio vuoto. In questo contesto, la cosa più probabile è che il mondo rimanga a rimorchio della prepotenza e del provincialismo dell’imperialismo nordamericano, senza un piano strategico che affronti le difficoltà che bloccano il funzionamento dell’economia mondiale. Si illudono coloro che immaginano che un’azione congiunta dei governi dei paesi sviluppati per salvare le banche e l’uso di tecniche anticicliche di aumento della spesa pubblica siano indizi effettivi del fatto che il potere pubblico ha dimostrato capacità nel far fonte alla crisi. Il superamento della crisi richiede trasformazioni di grande profondità nelle forze produttive, nelle relazioni tra capitale e lavoro, nella struttura tecnica e finanziaria del capitale, nella forma di organizzazione dello Stato e nell’equilibrio economico e politico tra i paesi che compongono il sistema capitalista mondiale; cambiamenti che vanno ben al di là dei pacchetti di aiuti finanziari ed economici ad hoc, annunciati gli uni dopo gli altri dalle autorità economiche. Finora, le potenze imperialiste hanno avuto una condotta strettamente reattiva, sempre dietro agli avvenimenti, diretta dall’isteria disperata dei “mercati”- rispondendo, in tal modo (ndt) agli interessi della finanza- senza osare affrontare l’essenza del problema: la gigantesca crisi di sovrapproduzione provocata dal processo di accumulazione del capitale e l’assoluta mancanza di controllo pubblico sull’azione del capitale finanziario. Non c’è alcun indizio del fatto che si tenti di contenere il big business. Tutto il contrario. L’attuazione ideologica preventiva degli organismi finanziari internazionali e delle strutture ideologiche del grande capitale- ovvero FMI, OCSE, Forum di Davos e tutti i grandi media- è stata inequivocabile nell’intimare che non si può, con il “pretesto” della crisi, invertire il movimento di liberalizzazione economica degli ultimi decenni. Non è impossibile che lo sforzo per “amministrare” la crisi, confermando le pressioni all’aiuto economico e finanziario dei grandi gruppi economici internazionali, eviti la frana spettacolare dei mercati, dando a molti l’impressione che i problemi generati dalla paralisi dell’economia mondiale potranno essere delimitati senza ulteriori traumi. E’ la scommessa di tutti i segmenti coinvolti nell’ordine globale. Nel frattempo, la cosa più probabile è che, data l’impotenza dei governi nell’affrontare l’origine del problema, l’ampliamento della crisi si trascini per un periodo indefinito, alternando momenti di panico con momenti di relativo sollievo, in una lenta digestione del capitale finanziario e produttivo superaccumulato. Al di là della propaganda, il fatto concreto è che l’economia mondiale è insensibile di qualsiasi tipo di “regolazione”, capace di imporre limiti all’anarchia dell’iniziativa privata e contenere il carattere ultra-regressivo del modello di accumulazione guidato dalla finanze internazionali, causa fondamentali dei problemi che paralizzano l’economia mondiale.

Coloro che confondono la pseudo-statalizzazione del sistema finanziario in corso con il ritorno della regolamentazione di tipo keynesiano prendono lucciole per lanterne, poiché siamo di fronte tentativo dello Stato di imporre limiti al capitale, ma è il capitale finanziario che sta ultimando il processo di conquista dello Stato, collocandolo sotto il suo assoluto controllo. Sotto pretesto di evitare una crisi sistemica dagli effetti potenzialmente catastrofici, la politica economica sta promuovendo il maggior attacco all’economia popolare della storia. Sotto pressione dominante dei maggiori gruppi economici del pianeta, le risorse che fino a ieri mancavano per finanziare le politiche pubbliche, adesso avanzano, per soccorrere le banche e le grandi corporations in fallimento, senza che niente garantisca, si dica en passant, che il cataclisma sia evitato. Per equilibrare la magnitudo della ricchezza trasferita al settore privato, basta ricordare che, secondo i calcoli della CEPAL, fino alla fine del mese di ottobre del 2008 i maggiori gruppi finanziari del mondo avevano già ricevuto, sotto forma di iniezione di liquidità e pacchetti di riscatto finanziario, un totale di risorse pubbliche equivalente a quasi 7 mila miliardi di dollari, valore pari a quasi due volte il PIL annuale dell’America Latina, più di quattro volte il Pil del Brasile1.

Per non cadere nell’equivoco ed immaginare che il forte intervento dello Stato rappresenti un abbandono del neoliberalismo, è importante sottolineare che l’aiuto al grande capitale non rappresenta in sé una novità nel modello di politica economica, dato che tutte le crisi finanziarie degli ultimi decenni sono state affrontate seguendo la linea di minor resistenza, con scandalose operazioni di “bail out” che coprivano i danni delle grandi corporazioni e sanzionavano il filtro speculativo2. Nella realtà, la deregolamentazione dei mercati e la socializzazione dei danni costituiscono momenti distinti di uno stesso modello ultraregressivo di intervento dello Stato in economia. La vera novità delle misure che sono adottate per affrontare la crisi risiede nel volume di risorse coinvolte nelle operazioni di salvataggio, fenomeno che mette in luce il fatto che la crisi in corso sta approfondendo ancora di più la promiscuità esistente tra l’oligarchia finanziaria a capo delle grandi corporations e le alte sfere dello Stato capitalista. Se poste in una prospettiva storica, le tendenze in corso- la mondializzazione del capitale e delle finanze, la liberalizzazione commerciale e finanziaria, la deregolamentazione dei mercati ed il controllo assoluto del big business sull’apparato dello Stato- appaiono come caratteristiche strutturali del modello di sviluppo capitalista nella fase superiore dell’imperialismo. La crisi radicalizza tali tendenze, portando al parossismo il carattere anti-sociale, antinazionale ed antidemocratico del capitalismo. A tal proposito, la speranza di un cambiamento qualitativo nella direzione della politica degli Stati Uniti, provocata dalla vittoria di Barak Obama, manca di qualsiasi fondamento, dal momento che le basi economiche, sociali e politiche di sostegno ai partiti democratico e repubblicano sono, nella loro essenza, le stesse, la ragione di Stato che presiede le loro politiche non rappresenta alcuna discontinuità significativa3. Allo stesso modo della crisi che scompose la divisione internazionale del lavoro all’inizio del secolo XX, e che comportò un incommensurabile sacrificio umano, prima che le relazioni sociali l’ordine internazionale che sostennero il ciclo espansivo dei così detti “anni gloriosi” si riorganizzassero in un penoso processo di trasformazione che si trascinò per decenni, i problemi che riguardano la globalizzazione degli scambi preannunciano l’inizio di un periodo storico turbolento, il cui finale è completamente incerto. Coloro che sperano una soluzione tecnica ed istituzionale per lo Tsunami che si è abbattuto sull’economia mondiale, sognando le possibilità di in nuovo Bretton Woods e con la rinascita del welfare state, non considerano le condizioni obiettive e soggettive che avviarono la riorganizzazione dell’ordine economico internazionale nel dopoguerra e l’effimera vita del capitalismo keynesiano, le sostanziali differenze rispetto alla situazione concreta generata dalla crisi attuale.

L’assenza di una potenza egemonica capace di guidare la “riforma” dell’ordine internazionale, contrasta radicalmente con la situazione del dopoguerra. Nella crisi che segnò la sorte del liberalismo, la decadenza dell’Inghilterra come centro dell’economia mondiale fu accompagnata da una acuta disputa , che coinvolse varie potenze imperialiste emergenti, per decidere chi avrebbe assunto la posizione di potenza egemonica. L’indescrivibile sofferenza generata da una depressione di lunga durata, l’orrore dell’olocausto nazista, la barbarie di due guerre mondiali e la minaccia del comunismo crearono le condizioni storiche concrete che permisero agli Stati Uniti- i grandi vittoriosi della Seconda Guerra Mondiale- di approfittare della loro incontestata supremazia per formare l’ordine internazionale ai loro interessi, senza dimenticare di accontentare le richieste dei suoi sostenitori strategici, al centro ed alla periferia dell’economia mondiale, con una relativa autonomia dei loro spazi economici nazionali. Ciò permise, per un breve lasso di tempo, che il processo di integrazione all’economia nordamericana del sistema capitalista mondiale avanzasse gradualmente, convivendo, almeno fino alla crisi del dollaro degli inizi degli anni 70, con una relativa protezione dei mercati interni nei confronti della concorrenza di merci importate e con la presenza di una significativa restrizione dei movimenti di capitali4. Furono queste le condizioni concrete che condussero all’emergenza di spazi economici nazionali dotati di un regime di accumulazione centrale e di “centri interni di decisione” relativamente autonomi, con una certa capacità di subordinare la logica di valorizzazione del capitale agli interessi nazionali. Il contesto attuale è radicalmente differente. La decadenza inequivocabile dell’impero nordamericano non scuote la sua assoluta supremazia economica e militare. Il collasso dell’Unione Sovietica e la disorganizzazione del movimento socialista non collocano la borghesia (statunitense ndt) di fronte alla necessità di fare concessioni alle borghesie alleate e molto meno alla classe lavoratrice. Di conseguenza, nell’assenza di una sostanziale svolta nel contesto storico, è abbastanza improbabile che gli Stati Uniti rinuncino unilateralmente ai loro privilegi imperiali a favore di meccanismi sopranazionali di potere. E, intanto, date le nuove caratteristiche del modello di sviluppo capitalista, questa sarebbe una condizione indispensabile per contrastare il rischio sistemico e la disorganizzazione della produzione su scala globale, fenomeni inerenti al processo di mondializzazione del capitale.

La brutale asimmetria nella correlazione di forze a favore del capitale finanziario che caratterizza il capitalismo contemporaneo è uno squilibrio che aumenta mano a mano che l’avanzare della crisi spinge il processo di concentrazione dei capitali. Tale dinamica contrasta anch’essa con ciò che avvenne nell’immediato dopoguerra, quando, per una serie di circostanze , le forze più conservatrici della borghesia si trovavano sulla difensiva, aprendo brecce affinché, in alcune società nazionali, lo Stato borghese potesse trascendere l’interesse puro e semplice del grande capitale e contemplare, almeno parzialmente, gli interessi popolari nella definizione delle priorità che reggono le politiche dello Stato. Alla metà del secolo XX, il trauma ancora molto recente della crisi degli anni 30, il cambiamento nella correlazione di forze generata dalla sconfitta del fascismo, la necessità di promuovere la ricostruzione in Europa ed in Giappone e l’urgenza di stabilizzare la vita economica e politica del “mondo libero” per contenere il rischio comunista permisero la cristallizzazione di un scheletro istituzionale che, senza ferire gli interessi strategici del capitale finanziario, stabilì una serie di limiti alla mobilità spaziale e settoriale dei capitali. Fu sufficiente ad aprire un varco per le politiche economiche di ispirazione keynesiana e per l’avanzare del welfare state che, in un modo o nell’altro, vigevano fino all’inizio degli anni Settanta nei paesi capitalisti più sviluppati. Le condizioni storiche attuali sono ben diverse. Nell’assenza di una vigorosa reazione popolare, che metta in scacco il carattere ultraconservatore del blocco di potere, è un’illusione immaginare la possibilità di politiche che possano affrontare anche solo minimamente l’interesse strategico del capitale finanziario.

Al contrario di quanto accadeva alla metà del XX secolo, infine, la complessa tela di relazioni commerciali e produttive che unifica il sistema capitalista mondiale oggi crea ostacoli insuperabili alla possibilità di soluzioni “nazionali” per la crisi globale. L’avanzare del processo di globalizzazione degli scambi minò le basi oggettive e soggettive che sostenevano le politiche economiche basate su un regime centrale di accumulazione. Il grado di socializzazione delle forze produttive già raggiunto dallo sviluppo capitalista non comporta la possibilità di un ritorno al “nazionale”, poiché ciò implicherebbe una grande perdita di efficienza economica (dovuta ad una minore economia di scala), rappresentando una forte regressione nella divisione sociale del lavoro. Il controllo assoluto dello Stato capitalista da parte dei grandi conglomerati internazionali, inoltre, rende molto poco probabile la possibilità di un regresso protezionista, una volta che il grado di internazionalizzazione del capitale viene reso incompatibile con lo spazio economico nazionale, quale orizzonte di riproduzione ampliata del capitale. Non ci sono, quindi, basi oggettive e soggettive per un ritorno di Keynes. Nell’assenza di forze capaci di trattenere la furia speculativa del grande capitale, la soluzione alla crisi seguendo la linea di minor resistenza- tramite l’esacerbamento dello sfruttamento del lavoro e la lotta autofagica tra i grandi conglomerati multinazionali- tende a rendere il regime di capitale ancora più regressivo e predatorio, poiché è gigantesco il volume di capitale “sovraccumulato” (ndt) che necessita di essere digerito prima che le condizioni per la riproduzione ampliata del capitale possano essere ristabilite. La fine del ciclo espansivo approfondirà e generalizzerà la barbarie capitalista, aprendo un periodo di grandi convulsioni sociali e di inasprimento delle rivalità tra Stati nazionali. Lo sappiamo dalla lunga storia del capitalismo che, quando non si ha un’alternativa concreta al regime di capitale, giorno più giorno meno, con più o meno sacrificio, le condizioni per la ripresa dell’accumulazione del capitale saranno ristabilite ed il capitalismo inizierà di nuovo un ciclo espansivo. I drammatici eventi della prima metà del secolo XX, che lasciarono l’umanità alla soglia dell’abisso, mostrano, peraltro, che nell’era del capitalismo monopolista, le crisi capitaliste provocano grande distruzione e non lasciano margine alla possibilità di trovare soluzioni razionali e civilizzate ai problemi dell’umanità. Non c’è alcun motivo per immaginare che, nel secolo XX, il finale sia diverso. All’ombra dell’ordine borghese, il futuro è scuro. Mai come prima, il regime del capitale sarà accompagnato da una crescente instabilità economica, da un’assoluta irrazionalità nell’utilizzo della ricchezza, dalla disuguaglianza sociale, dalla scalata della prepotenza imperialista e dall’inesorabile annullamento delle conquiste democratiche. E, diversamente da ciò che è occorso con le innumerevoli turbolenze che hanno segnato gli ultimi decenni, questa volta nessuno sarà risparmiato, a cominciare dalla classe lavoratrice nordamericana, che entra nella crisi in una situazione economica e politica particolarmente vulnerabile. Sollecitati dai grandi media a credere che il mondo era entrato in una prosperità senza fine, con la benedizione dell’ortodossia economica, lavoratori e pensionati hanno indirizzato i loro risparmi alla speculazione con azioni ed immobili- e molti si sono indebitati ben oltre le loro possibilità- nella speranza di guadagni patrimoniali astronomici. Coloro che non ne sono usciti in tempo sono rimasti con le briciole in mano e, adesso, si trovano nell’imminenza di restare senza casa, senza pensione e senza impiego. E’ poco probabile che accettino la nuova situazioni docilmente.

3. America Latina: crisi e accelerazione della svolta Neocoloniale Pienamente integrata nei circuiti mercantili, produttivi e finanziari che fomentano la valorizzazione del capitale su scala globale, l’America Latina subirà l’impatto della crisi in maniera raddoppiata. I paesi che più hanno spinto avanti il processo di liberalizzazione dell’economia saranno quelli più esposti agli effetti distruttivi del nuovo momento storico. In un primo momento, la crisi si trasmetterà seguendo il modello storico tradizionale- caduta del commercio internazionale, contrazione dei prezzi delle commodities, paralisi dei flussi di credito e investimento, fuga di capitali, scalata dei trasferimenti di profitto e interessi nei confronti dell’estero. Il divario tra l’improvvisa inversione delle aspettative nelle economie centrali ed il clima di relativa normalità che ha prevalso nella regione (latinoamericana, ndt) nel corso del 2008 e che, in una certa maniera, ancora persiste all’inizio del 2009-soprattutto nei paesi che dispongono del mercato interno di maggiore espressione-, non deve alimentare l’aspettativa che l’America Latina sfuggirà da una brutale contrazione dell’attività economica. Lo scarto temporale tra il movimento della crisi al centro ed il suo impatto alla periferia riflette solo il diverso incatenamento della relazione credito-spesa-rendita tra le economie che costituiscono la “locomotiva” del sistema capitalista mondiale- dove la crisi del credito si ripercuote immediatamente nella domanda aggregata e nelle aspettative degli imprenditori- e quelli che sono i suoi “vagoni”, al rimorchio dell’espansione generata nel centro dell’economia mondiale, dove gli effetti moltiplicatori del guadagno delle esportazioni, nell’ampliare il mercato interno, danno una speranza di vita alla crescita economica. Il fenomeno non è nuovo e fu già ampiamente studiato dalla vecchia CEPAL5. Nella situazione attuale, la falsa impressione che l’America Latina sia immune agli effetti depressivi della crisi è rafforzata dal fatto che la maggior diversificazione dei paesi cui sono destinate le esportazioni è dovuta, in gran parte, al maggior peso delle vendite nella regione stessa e nei mercati emergenti, quasi 40% delle esportazioni. L’illusione aumenta il divario temporale tra la contrazione del livello di attività delle economie centrali e la ritrazione del mercato interno delle economie della regione.

I meccanismi di sdoppiamento della crisi in America Latina tendono a ripetere una dinamica che, con le dovute specificità, nelle sue linee generali non deve discostarsi dal modello conosciuto, combinando strangolamento del cambio, disorganizzazione delle finanze pubbliche, instabilità monetaria, stagnazione della produzione, caduta delle imprese, distruzione delle forze produttive ed ampliamento della disoccupazione. La paralisi del getto di rimesse degli immigrati e l’inversione del flusso migratorio aggraveranno gli effetti negativi della crisi nella regione, coinvolgendo soprattutto le economie più deboli. Se il differenziale nella trasmissione degli impatti depressivi dell’economia non sarà sfruttato per proteggere le economie latino-americane dall’uragano che si avvicina, non ci sarà mezzo per attenuare gli effetti catastrofici della crisi internazionale sulla regione. Nelle economie che presentano una bassa esposizione all’indebitamento esterno ed un volume significativo di riserve monetarie, l’arrivo dello strangolamento del cambio potrà essere differito per un tempo più lungo, rinforzando quell’aspettativa ingenua , che vuole che, in piena era globale, alcune economie si possano “scollare” da tutto e patrocinare un inusitato modello di crescita basata sul “capitalismo in un solo paese”. Se il collasso del commercio internazionale e l’inflessione dei flussi di capitale non dovessero essere invertiti, tuttavia, non c’è dubbio che, un giorno o l’altro, la scarsità di moneta internazionale e la contrazione dei commerci finiranno per manifestarsi, scompaginando la vita economica del continente. Con la crisi nel suo pieno sviluppo, le pressioni dell’imperialismo per gettare il carico della recessione globale sulle economie della regione saranno sempre maggiori. Chiuso il ciclo effimero della crescita nella regione, dopo tre decadi di stagnazione, l’ordine economico internazionale ricollocherà l’America Latina nella routine di Sisifo della stabilizzazione economica permanente. Si illudono coloro che, sognando la possibilità di un nuova corrente di sviluppo estemporanea, immaginano che la crisi economica internazionale possa rappresentare una “finestra di opportunità” che permetterebbe un nuovo aggiustamento dell’ordine internazionale, più favorevole alle economie della regione o, almeno, a quelle che raggiunsero un maggior grado di sviluppo delle forze produttive. L’industrializzazione tramite sostituzione delle importazioni, quella diretta dalla modernizzazione dei modelli di consumo di una esigua porzione di popolazione, spinta dal capitale internazionale, con l’appoggio incondizionato dello Stato, e finanziata dalla concentrazione della rendita e dalla crescente denazionalizzazione delle economie, è un fenomeno del passato. Le premesse storiche oggettive e soggettive che le davano credito non ci sono più . Non c’è, perciò, la benché minima possibilità che l’America Latina ripeta la prodezza degli anni 30, quando, contro tutte le aspettative, i paesi con il maggior grado di sviluppo delle forze produttive e maggior controllo sui centri decisionali interni, reagirono alla crisi internazionale favorendo la formazione dell’economia nazionale. La situazione attuale è radicalmente diversa. I fronti di valorizzazione del capitale dipendono sempre più dall’integrazione dell’economia latino-americana nell’economia mondiale e dall’apertura di nuovi commerci attraverso il sistematico ampliamento delle forme predatorie e parassitarie dell’accumulazione di ricchezze. Negli anni 30, la disarticolazione dei flussi di commercio e del credito internazionale generò un relativo isolamento delle economie periferiche e permise ai paesi che non insisterono nel legare il proprio sistema monetario al modello aurifero- come fu, ad esempio, il caso di Cuba- di raggiungere un maggior controllo sui propri centri decisionali interni6. Oggi, nel conservare incolumi i meccanismi commerciali e finanziari che favoriscono la globalizzazione dei mercati, si mantiene la periferia legata al centro ciclico. Con il compromettere gli strumenti di comando della politica economica, l’ordine istituzionale liberale allontana la possibilità che la crisi internazionale possa sfociare in un maggior margine di manovra per le economie della regione. Nel corso degli anni ’30, il collasso del complesso esportatore e l’interruzione dei flussi finanziari internazionali provocarono, soprattutto nelle economie più sviluppate, spostamenti nella relazione di forze che consolidano le frazioni borghesi più impegnate nel rafforzamento dello Stato nazionale e nell’avanzare dell’industrializzazione. L’alleanza tra questi segmenti e le masse urbane, che iniziavano allora la loro vita politica, creò la base di sostentamento politico che permise la rottura con il vecchio status quo, creando le condizioni soggettive per la cristallizzazione di politiche economiche dirette alla difesa ed all’espansione del mercato interno. Senza il taglio netto con lo Stato liberale oligarchico e la formazione di un nuovo blocco di potere - il patto populista - , sarebbe stato impossibile promuovere lo spostamento dell’asse dinamico della crescita verso l’interno dell’economia nazionale7. Nulla di simile appare all’orizzonte, dato che l’insieme della borghesia latino-americana si trova visceralmente legato all’ordine globale e la crisi tende ad esacerbare la sua posizione subalterna rispetto al capitale internazionale. Fuggono evidentemente da questa caratterizzazione le eccezioni conosciute, Venezuela, Bolivia e, in misura minore, Ecuador; paesi fortemente dipendenti dal profitto generato da enclaves nel settore energetico e che attraversano un processo di forte mobilitazione popolare contro gli effetti regressivi della stabilizzazione neoliberale.

L’impotenza della borghesia latino-americana nell’affrontare l’imperialismo e l’inesistenza di meccanismi endogeni che garantiscano l’autodeterminazione del capitalismo latino-americano fanno sì che la crisi internazionale rinforzi la posizione del capitale finanziario, nazionale e straniero, specialmente dei suoi segmenti legati al commercio internazionale ed all’intermediazione finanziaria. In questo contesto, il timore che un aumento della disoccupazione e della povertà generi un quadro di convulsione sociale tende ad accrescere ancora di più il carattere elitario e chiuso del circuito politico, rinforzando le tendenze autocratiche del modello di dominazione borghese nel continente. Senza spostamenti significativi nella composizione del blocco di potere, è abbastanza remota- per non dire nulla- la possibilità di rotture politiche che possano scuotere le fondamenta dello Stato neoliberale nel continente, aprendo spazi ai cambiamenti qualitativi nel modello di intervento dello Stato in economia.

Nella prima metà del secolo XX, la diffusione di strutture elementari della 1° e 2° rivoluzione industriale aprì lo spazio a processi di industrializzazione per sostituzione delle importazioni che tendevano a funzionare come un regime centrale di accumulazione, articolato intorno ad un dipartimento di beni di produzione ancorato a spazi economici nazionali relativamente ben delimitati. Le scale minime di produzione compatibili con la dimensione delle maggiori economie latino-americane e l’esigenza di basi tecniche e finanziarie che si confacevano al livello già acquisito dalle borghesie nazionali permisero, in un primo momento, all’industrializzazione di essere spinta dall’interno, mobilitando le energie economiche proprie della regione. In un secondo momento, a partire dal dopoguerra, quando la necessità di approfondire il processo di sostituzione delle importazioni cominciò a scontrarsi con la ristrettezza del mercato interno e con l’insufficienza del grado di monopolizzazione del capitale nazionale, la subordinazione del processo di sostituzione delle importazioni al movimento di internazionalizzazione dei mercati interni guidato dai grandi trusts internazionali, permise alle economie più avanzate di spingere l’industrializzazione dipendente e sottosviluppata al limite delle sue possibilità. Il modello di accumulazione capitalista contemporaneo, basato sulla mondializzazione del capitale, allontana qualsiasi possibilità di un ritorno allo sviluppo fondato su un regime centrale di accumulazione. Le scale minime di produzione oltrepassano, con largo margine, la dimensione dei mercati nazionali, e le basi tecniche e finanziarie della nuova tappa dello sviluppo capitalista sono molto oltre rispetto alle limitate possibilità della base imprenditoriale della regione. Per avere un’idea del grado di ritardo della struttura del capitale in America Latina, basta ricordarsi che, nonostante il gran baccano fatto intorno all’espansione delle multinazionali latine, la regione conta appena 18 gruppi imprenditoriali tra i 100 maggiori gruppi dei paesi emergenti, inferiori al 2% il numero di imprese a capitale brasiliano e messicano, le due maggiori economie del continente, tra le 2000 maggiori corporations del mondo8.

L’esperienza storica mostra che i nessi che legano l’America Latina all’ordine globale sono straordinariamente resistenti alle crisi economiche e finanziarie. Perciò, se non ci sarà una completa disarticolazione del sistema capitalista mondiale- ipotesi che, al momento, sembra poco probabile- la capacità di difesa della regione dagli effetti distruttivi della crisi dipenderà dalla decisione politica di ridefinire unilateralmente il modo di partecipazione nell’economia mondiale, rompendo i lacci di subalternità al capitale internazionale ed alle potenze imperialiste. Non è ciò che sta accadendo. Al contrario, la crisi internazionale ha intensificato il potere dell’imperialismo nella regione. Il profondo legame della borghesia latinoamericana con l’ordine globale funziona come un vero e proprio blocco politico, istituzionale e mentale che invalida la formulazione di risposte creative alla situazione storica. L’impotenza nel prendere iniziative economiche e politiche che affrontino i canoni dell’ordine globale lascia le economie della regione completamente disarmate nell’affrontare le difficoltà generate dalla crisi. Senza spazio di manovra per affrontare un contesto storico particolarmente avverso, a loro resta solamente sanzionare le pressioni dei centri imperiali esteri e stringere verso una rapida ricomposizione dell’economia internazionale. Partendo dal presupposto che la crisi internazionale è un fenomeno temporaneo, cosa che non giustifica attitudini che possano implicare un recesso dal processo di liberalizzazione, i governi latino-americani hanno risposto alle crescenti difficoltà esterne in maniera reattiva. Per compensare la contrazione del credito internazionale, sono state prese misure topiche con l’obiettivo di ampliare il finanziamento agli esportatori ed evitare che la crisi di liquidità paralizzasse il funzionamento del sistema bancario, senza alterare i meccanismi che legano il sistema finanziario nazionale a quello internazionale. Al fine di attenuare l’impatto recessivo della contrazione del commercio internazionale, sono state annunciate alcune tenui iniziative destinate ad ampliare la spesa pubblica ed incentivare le spese interne con consumi ed investimenti, senza mettere in discussione il modello di politica fiscale e monetaria che dà priorità agli interessi dei creditori dello Stato ed alla plutocrazia della rendita. Se la diagnosi di una crisi passeggera, che è alla base dello straordinario conservatorismo delle autorità economiche, non si dovesse confermare, in breve sarà evidente la catastrofe che sta dietro l’assenza di una strategia preventiva9.

Coloro che scommettono nella possibilità che salari bassi e silenzio sul deterioramento dell’ambiente rappresentino un vantaggio comparato, non attengono al significato del cambiamento provocato dall’inflessione del contesto storico né valutano correttamente le terribili implicazioni della concorrenza pericolosa della Cina e delle economie emergenti dell’Asia per il futuro dell’industria latino-americana. Alla chiusura di un lungo ciclo di diffusione delle tecnologie, la crisi generale del capitalismo inaugura una lotta per la vita o la morte tra vecchio capitale e nuovo capitale, esacerbando il carattere diseguale e complesso dello sviluppo capitalista. Nel momento decisivo della concorrenza intercapitalista, quando è la sopravvivenza stessa delle imprese che viene messa in questione, il vantaggio pende per il lato che dispone delle migliori armi e della maggior capacità di definire il carattere del terreno di battaglia. Anche se la crisi dovesse toccare le economie sviluppate in maniera generale e l’economia nordamericana in particolare, compromettendo temporaneamente la sua capacità di prendere iniziativa sul piano internazionale, essa non scuote la brutale asimmetria nella distribuzione del potere economico, finanziario, politico e militare ce regge l’ordine internazionale. Le differenze nella capacità di consumo della società, le sproporzioni nelle basi tecniche e finanziarie del capitale e le discrepanze nel grado di organizzazione economica e nel potere bellico degli stati nazionali garantiscono ai paesi sviluppati, Stati Uniti in testa, il controllo assoluto delle finanze internazionali, del ritmo e dell’intensità del processo di introduzione e diffusione delle innovazioni, così come le iniziative politiche e militari che definiranno i parametri istituzionali all’interno dei quali si darà la riorganizzazione dell’economia mondiale. Le potenze imperialiste possiedono, quindi, condizioni molto favorevoli per arbitrare il processo di devalorizzazione dei capitali e per guidare la riorganizzazione dell’ordine internazionale. E, in tale movimento, tendono a stabilire una interlocuzione privilegiata con i paesi periferici che si differenziarono per la dimensione potenziale dei loro mercati, per la loro importanza finanziaria nello scenario internazionale, per la loro capacità di convertirsi in un polo di attrazione delle industrie manifatturiere di minore intensità tecnologica, per il potere di organizzazione del loro stato nazionale, così come per il potere bellico e la loro posizione geopolitica strategica nello scacchiere internazionale. Senza competitività dinamica per competere con le economie che posseggono capacità di innovazione, senza falsa competitività per sfidare le industrie che si dislocano nelle regioni periferiche in cerca di bassi salari e senza uno Stato organizzato per affermare la “volontà nazionale”, le economie latino-americane restano straordinariamente esposte alle pressioni che tendono ad esacerbare la loro posizione subalterna nel sistema capitalista mondiale. Nella mancanza di potere d’iniziativa economica e politica sul piano internazionale, a loro resta solo approfondire l’aggiustamento strutturale che a loro impone essenzialmente tre funzioni nell’ordine globale: aprire lo spazio economico alla penetrazione del capitale internazionale, adattando le forze produttive e le relazioni di produzione alle tendenze della divisione internazionale del lavoro; impedire l’esodo di correnti migratorie che possono generare instabilità nei paesi centrali ed alleviare lo stress prodotto dalle regioni altamente industrializzate nell’ecosistema mondiale, compiendo il triste e paradossale ruolo di riserva di materie prime; polmone e deposito della spazzatura della civiltà occidentale. In questa fase storica, le tendenze alla divisione internazionale del lavoro riservano all’America Latina lo spazio residuale di mero fornitore di prodotti agroalimentare e minerali, o come fonte strategica di risorse energetiche organiche e minerali. Insomma, le condizioni particolari che, nella prima metà del secolo XX, avevano permesso che alcuni paesi della regione spingessero alla formazione di basi materiali per uno Stato nazionale non sono più presenti. Anello debole del sistema capitalista mondiale, zona di influenza degli Stati Uniti, l’America Latina sarà sottoposta a dura pressione per dare un suo contributo alla socializzazione dei danni del grande capitale. Dato che la crisi impone l’eliminazione del parco produttivo in sovrappiù, c’è da sperare in una accelerazione ed una maggior intensità nella tendenza alla deindustrializzazione ed alla specializzazione regressiva che hanno caratterizzato l’aggiustamento strutturale delle economie latinoamericane ai dettami dell’ordine globale. Infine, senza avere modo si proteggersi dagli effetti disastrosi della crisi, l’America Latina si trova di fronte alla minaccia di un’accelerazione del processo di inversione neocoloniale10. Il “si salvi chi può” approfondirà l’indebolimento delle forze produttive della regione e, come conseguenza, intensificherà la sua specializzazione in prodotti della bassa tecnologia nell’economia mondiale; aumenterà la denazionalizzazione delle economie, inasprendo il loro carattere tributario e sussidiario; così come aggraverà la disarticolazione dei suoi centri interni di decisione, tutto si somma per compromettere ancora più il controllo nazionale sullo sviluppo capitalista della regione. Il nuovo contesto storico esacerba, così, l’incompatibilità strutturale tra capitalismo, democrazia e sovranità nazionale in America Latina. Senza rottura con l’ordine globale, i paesi della regione hanno un raggio di manovra minimo, poiché il massimo che possono fare è cercare di minimizzare il ritmo e l’intensità con i quali si avanza verso la barbarie.

4. Crisi, Riforma e Rivoluzione Nel mettere in questione l’unità delle relazioni sociali, internazionali e transnazionali che sostengono il processo di globalizzazione degli scambi, la crisi inaugura una tappa storica che sarà caratterizzata da trasformazioni di grande rilievo in tutte le dimensioni dell’economia e della società. Risultato inesorabile proprio all’espansione stessa del capitale, la crisi rivela il carattere storicamente determinato del modo si produzione capitalista, poiché, col negare la base di esistenza del regime borghese- il lavoro vivo- il processo di valorizzazione del capitale prepara le basi oggettive- la socializzazione delle forze produttive- e le basi soggettive- la crisi generale- per la transizione verso il socialismo. Nello squarciare il velo di contraddizioni e gli antagonismi del modo di produzione capitalista, la paralisi del processo di produzione acuisce la lotta di classe tra la borghesia ed il proletariato. La disputa si polarizza intorno alle vie di superamento della crisi. La soluzione del capitale subordina tutto ad un obiettivo centrale: restaurare le condizioni per la ripresa dell’accumulazione. Nel seno della borghesia, le divergenze mostrano il modo di distribuire l’onere della crisi tra i vari gruppi capitalisti e la disputa in relazione ai nuovi fronti di espansione degli investimenti, che si sostanzia, in diverse concezioni circa il ruolo dello Stato nell’economia, nel modo di partecipare all’economia mondiale, così come della forma di riorganizzazione del processo produttivo e delle relazioni tra capitale e lavoro. La soluzione contro il capitale si organizza intorno alla necessità concreta di resistere a tutti i costi all’avanzare della barbarie e di approfittare della fragilità del regime borghese, per superare il più in fretta possibile il capitalismo. L’alternativa operaia dipende da un salto nella coscienza di classe rispetto alla necessità, alla possibilità ed alle sfide della rivoluzione socialista. Per le peculiarità della sua formazione sociale- società di origine coloniale che caddero nelle maglie del capitalismo dipendente-, in America Latina la lotta alla crisi acquisisce caratteristiche proprie, combinando la necessità di affrontare i problemi concreti generati dalla crisi generale del capitalismo- l’aggravarsi della barbarie- con i problemi storici ereditati dal passato coloniale e sottosviluppato- la segregazione sociale e la dipendenza esterna- e con i problemi che sorgono al decorrere dell’imperativo di superrare il regime del capitale- la transizione verso il socialismo. In un primo momento, la reazione concreta contro la crisi si confonde con la necessità di evitare l’avanzare del processo di inversione neocoloniale- unico mezzo per evitare la scalata paurosa della barbarie. La rottura con i meccanismi che subordinano le economie periferiche all’ordine globale colloca, in seguito, l’urgenza di vincere la situazione di dipendenza e sottosviluppo- unico mezzo per affermare la “volontà politica” della società nazionale e sopravvivere all’inevitabile rappresaglia della “comunità internazionale”. Infine, il confronto con l’imperialismo genera la necessità di liquidare il capitalismo e dare inizio alla costruzione del socialismo. Il problema è, quindi, fondamentalmente politico. Il superamento delle difficoltà generate dalla crisi internazionale implica un concatenamento di trasformazioni economiche, sociali e culturali che entra in diretta contraddizione con gli interessi strategici delle potenze imperialiste, del capitale internazionale e delle borghesie latino-americane- la tripletta che sostenta il modello di accumulazione e di dominazione capitalista nel continente. In queste circostanze, la possibilità di una risposta positiva in America Latina alle sfide collocate dalla crisi dipende fondamentalmente da una profonda svolta nelle basi di sostentamento dello Stato, che permetta la formazione di un blocco di potere fondato sugli interessi delle classi popolari- gli unici soggetti storici che, non essendo compromessi negli scambi della globalizzazione ed essendo le sue principali vittime, sono capaci di condurre alle ultime conseguenze la rottura con i nessi esterni e interni responsabili della situazione di dipendenza e sottosviluppo. L’itinerario delle trasformazioni economiche, sociali, politiche e culturali richieste dalla situazione sarà dettato dallo sdoppiamento stesso della crisi e tende ad incatenare la lotta in difesa degli interessi nazionali e dell’economia popolare- una lotta che esige la rottura con il sottosviluppo- alla lotta contro il regime proprio al capitale- una lotta che colloca nell’agenda la transizione verso il socialismo.

L’impatto della crisi sull’America Latina indicherà il senso delle misure preventive capaci di attenuare i suoi effetti dirompenti sull’economia e la società. Per evitare lo strangolamento del cambio, se ne deve promuovere la centralizzazione e, per impedire che la crisi del credito internazionale sia internalizzata, si devono svincolare i sistemi domestici dal mercato internazionale. Con l’obiettivo di impedire la distruzione del parco produttivo, è di vitale importanza proteggere il mercato interno dalla concorrenza di prodotti stranieri. Per minimizzare gli impatti negativi della contrazione dei mercati esterni sulla produttività dell’economia, s’impone la promozione di riforme sociali che migliorino la distribuzione della rendita ed amplino la capacità di consumo della società. Al fine di risparmiare le energie economiche del paese, è necessario garantire il funzionamento dei settori strategici dell’economia e difendere le imprese nazionali. Infine, è indispensabile invertire l’ordine di priorità che governa le politiche monetarie e fiscali, subordinandole all’esigenza di difesa del lavoro. Dal punto di vista strettamente tecnico, tutte le misure necessarie a salvaguardare gli interessi fondamentali del popolo latino-americano dagli effetti devastanti della crisi si trovano alla portata degli Stati nazionali. Nel frattempo, tale fatto può alimentare illusioni tecnocratiche. Il modo di affrontare la crisi dipende essenzialmente dalla decisione politica di realizzare una rottura profonda con gli interessi interni ed esterni impegnati con la globalizzazione degli scambi. In altre parole, il monopolio statale sulle operazioni con moneta estera, la statalizzazione del sistema finanziario, il controllo statale sui settori inputs di base e sulle infrastrutture, la nazionalizzazione delle imprese multinazionali che hanno boicottato il ri-orientamento della politica economica, la denuncia degli accordi internazionali che vincolano le economie latino-americane all’ordine globale e tutte le misure complementari per far fronte agli effetti dirompenti della crisi e riorganizzare l’economia sono impossibili da prendere senza un profondo svolta delle forze sociali e politiche che danno alimento allo Stato.

Al fine di impedire che l’isolamento generato dalla rottura con l’ordine globale provochi squilibri che destabilizzano il funzionamento dell’economia, generando problemi che disorganizzano il processo di produzione e circolazione delle merci, le misure preventive contro gli effetti della crisi internazionale dovranno essere seguite da trasformazioni più profonde, destinate ad adeguare il modello di sviluppo alla situazione concreta generata dal nuovo contesto storico. La cosa fondamentale è abbandonare la copia degli stili di vita e di consumo delle economie centrali ed adeguare il senso, il ritmo e l’intensità del processo di incorporazione del progresso tecnico alle reali necessità dell’insieme della popolazione ed alle reali possibilità delle economie latino-americane. L’apertura di nuovi orizzonti per lo sviluppo economico della regione pone di nuovo all’ordine del giorno l’urgenza di slacciare la doppia articolazione responsabile della continuità del sottosviluppo- la posizione subalterna nell’economia mondiale ed il regime di segregazione sociale. Perciò, una risposta positiva alla crisi internazionale richiede che si collochino la rivoluzione democratica- lo sradicamento del regime di segregazione sociale in tutte le dimensioni della società- e la rivoluzione nazionale- la fine del controllo imperialista sulla società nazionale- quali compiti immediati del popolo latino americano.

L’assoluta impossibilità di ravvivare lo sviluppo capitalista nazionale pone alle economie latinoamericane la necessità di associare il regresso nazionalista, necessario nel breve periodo per assicurare la difesa dell’economia popolare contro gli effetti perversi della crisi, alla ricerca di nuove forme di integrazione nell’economia mondiale. Nonostante che, tra gli aspetti del capitalismo, l’elevata mancanza di complementarietà delle forze produttive dei paesi latino-americani tende a porli in concorrenza predatoria tra loro, la vicinanza territoriale, i legami storici di unione culturale e, soprattutto, la comunione di una stessa problematica storica- la lotta per il controllo del loro destino- trasformano l’integrazione regionale in una necessità storica incontrollabile- unico mezzo concreto per sopravvivere all’assedio delle potenze imperialiste e sfuggire allo spettro dell’inversione neocoloniale.

Il fallimento del ciclo borghese di integrazione economica regionale, per assoluta mancanza del soggetto capace di favorirlo, rivela che non c’è la minima possibilità che l’America Latina riesca a costruire uno spazio economico regionale capace di affrontare le intemperie della crisi sui binari del proprio capitalismo. Il suo concretizzarsi dipende dagli scontri con il sistema imperialista, i cui sdoppiamenti premono verso cambiamenti che spingono inequivocabilmente la società verso il socialismo. Perciò, nelle circostanze concrete che condizionano il processo storico in corso, l’avanzare del movimento di integrazione latino-americano dipende dal suo moltiplicarsi in un ampio processo di trasformazione socialista che lega la lotta per affrontare i problemi concreti posti dalla crisi, la lotta per il superamento della situazione di sottosviluppo e di dipendenza, e, infine, la lotta per la distruzione del regime borghese e per la costruzione del socialismo.

In breve, l’affrontare la crisi economica deve essere visto come parte di un processo storico di grande complessità che non può essere dissociato dalla problematica della transizione del capitalismo verso il socialismo in condizioni di sottosviluppo e dipendenza. In questa transizione, la cosa fondamentale è garantire l’irreversibilità del processo rivoluzionario, accelerando le trasformazioni nelle relazioni di produzione che assicurino il controllo dei lavoratori sull’economia, approfondendo i cambiamenti culturali indispensabili affinché l’incorporazione del progresso tecnico sia subordinata alle possibilità materiali della regione ed alle reali necessità della popolazione, fomentando lo sviluppo delle forze produttive al fine di conquistare il più rapidamente possibile la sicurezza alimentare e l’autosufficienza materiale della società, incluse le condizioni minime per la difesa contro l’aggressione militare imperialista, e, soprattutto, incentivando e promuovendo, con tutti i mezzi, il ruolo protagonista delle masse popolari in modo generale e del proletariato in particolare nel processo politico- unica garanzia effettiva di difesa delle conquiste sociali e di avanzamento della rivoluzione socialista quale processo ininterrotto di trasformazione che tende alla costruzione della società comunista. A coloro che sono scettici in merito alla possibilità oggettiva che la crisi possa devitalizzare la lotta per il socialismo, gli stessi che furono riluttanti fino all’ultimo momento nel credere nella possibilità di una crisi capitalista generale e che ancora sono riluttanti nell’accettare pienamente la sua gravità, non è difficile ricordare: il futuro riserva sorprese inimmaginabili per coloro che non intravedono il carattere contraddittorio del modo di produzione capitalista e la forza creativa della classe operaia. In breve tempo sarà chiaro che la storia non è finita e che le sconfitte dei lavoratori non sono mai definitive perché la lotta contro il capitale è il risultato degli antagonismi generati dallo sviluppo stesso del capitale. L’approfondirsi della barbarie capitalista farà sì che il movimento socialista rinasca dalle ceneri.

1. Plínio de Arruda Sampaio Jr è professore dell’Instituto de Economia della UNICAMP, marzo 2008. Ringrazio la curata revisione del testo fatta dalla mia amica Marlene Petros Angelides. 2. CEPAL 2007- Panorama de la inserción internacional de América Latina y el Caribe - Tendencias 2008, p. 6. 3. Crotty, J. - “If financial market competition is so intense, why are financial firm profits high? Reflections on the current ‘Golden Age’ of finance”, IN: Political Economy Research Institute, Working Papers Series, No. 134, April, 2007 4. E’ abbastanza suggestiva la convergenza nella valutazione di figure che rappresentano spettri diversi del ventaglio ideologico, come Ralph Nader, Noam Chomsky e James Petras, sugli impegni di Barak Obama con le forze politiche e gli interessi economici che sostengono l’establishment dello Stato Nordamericano. 5. Per un’interessante interpretazione della relazione tra Stato nordamericano e capitale finanziario, vd l’articolo di Leo Panitch e Sam Gindin “Las finanzas y el império norteamericano”, IN: Panitch, L. y Leys, C. (ed.), El Império Recargado, Socialist Register 2005. 6. A tal proposito, vedere Furtado, C., Teoria e Política do Desenvolvimento Econômico, cap. 22. Per un’interpretazione storica degli effetti del divario temporale nella forma degli aggiustamenti alle inversioni cicliche delle economie centrali, consultare Formação Econômica do Brasil, cap. 27.Furtado 7. L’impatto della crisi del 1929 in America Latina e le condizioni che permisero l’avanzare dell’industrializza-zione attraverso la sostituzione delle importazioni si trovano sistematizzate in Furtado, C., Pequena Introdução ao Desenvolvimento, cap. 10, e em A Economia Latino-Americana, cap. 11. 8. Per una visione panoramica dell’impatto della crisi nella divisione internazionale del lavoro sulla correlazione di forze nei paesi latino-americani, consultare il lavoro di Cardoso, F.H. e Faletto, E., Dependência e Desenvolvimento na América Latina, specialmente i capítoli IV e V. Santiso, J. - “La emergencia de las multinacionales”, IN: Revista de la CEPAL, 95, agosto, 2008, p. 19 e 20. 9. CEPAL, 2009 - “La reacción de los gobiernos de América Latina y el Caribe frente a la crisis internacional” - Una presentación sintética de las medidas de políticas anunciadas hasta el 30 de enero de 2009. 10. Sul piano materiale, il processo di inversione neocoloniale si concretizza nella disarticolazione dell’industrializza-zione diretta al mercato interno e nella rivitalizzazione del complesso primario-esportatore, basato sullo sfruttamento di manodopera a basso costo, in grandi prosperità specializzate nella monocoltura, con tecniche di coltivazione che provocano un grande depredazione dell’ambiente. La lettura critica dei lavori della CEPAL sui cambiamenti produttivi negli ultimi decenni fornisce abbondante prova delle caratteristiche d tale processo. Per una versione sintetica vd. CEPAL, La transformación productiva: 20 años después”, mayo, 2008.