Strutturazione internazionale e dinamiche della forza di lavoro. Eccedenza di popolazione e problematiche nel mondo del lavoro. Seconda parte
VICTOR M. FIGUEROA S.
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1. Deficit e sovrappiù della popolazione
Nella logica dell’accumulazione, la soluzione a questo problema deve consistere nel dimostrare che l’America Latina ha minori capacità, rispetto ai paesi sviluppati, di attrarre forza lavoro. Comunque, partendo dalla formulazione più generale di questa logica, emergono immediatamente delle obiezioni. È chiaramente visibile che, in generale, la composizione tecnica e organica media del capitale nella regione è più bassa rispetta ai paesi avanzati, ciò si traduce in una minore capacità di produzione per cacciare forza lavoro. Il contrario dovrebbe avvenire nei paesi sviluppati, in cui il potere dell’accumulazione per creare sovrappopolazione dovrebbe essere maggiore. Il fatto per cui il processo reale di accumulazione abbia ottenuto risultati inversi implica che la spiegazione deve coniugare sviluppi logici e storici che in principio erano in aperta contraddizione.
Come già esposto, l’esercito di riserva è uno degli elementi della relazione tra il capitale e il lavoro, e trova la sua razionalità proprio in questo livello. Lo stesso metodo deve essere seguito per spiegare anche una popolazione in eccedenza, oltre al fatto che la competizione tra capitale e circostanze storiche invadano in ogni modo il fenomeno, fino anche ad occultarlo. Si tratta di ricercare le cause che danno conto di una tendenza, e sono da ricercare nella particolare forma di organizzazione della relazione del capitale nelle società in cui prende piede.
L’origine della popolazione in sovrappiù, in America Latina, deriva dalla congiunzione di due fattori relativi all’organizzazione sociale di produzione: da un lato, il suo carattere capitalista, e dall’altro, la frustrazione per lo sviluppo della divisione che separa il lavoro in generale (scientifico) da quello immediato (operativo). L’assenza di questa divisione sociale del lavoro, in relazione alla grande massa di processi industriali, è ciò che determina il sottosviluppo delle economie. Il sottosviluppo della regione è, quindi, prima di tutto il sottosviluppo della relazione del capitale.
Il lavoro generale determina lo sviluppo delle forze produttive. È stato monopolizzato dai paesi industrializzati, paesi che, in questo modo, non solo si appropriano dello sviluppo avanzato della scienza ma anche delle sue applicazioni produttive; tutto ciò ha provocato il controllo della lavorazione dei processi produttivi e dei nuovi beni, in ogni momento dell’evoluzione capitalista. Ossia, quei paesi si formarono dal controllo del lavoro operativo relazionato alla produzione di frontiera dei processi e dei beni. Quindi, determinano il corso che prende l’industrializzazione e dettano agli altri i modelli che deve seguire la diversificazione industriale.
I paesi industrializzati offrono ai paesi sottosviluppati prodotti del lavoro generale e del lavoro immediato, mentre ricevono da quest’ultimi principalmente prodotti del lavoro immediato, e solo in misura assai poco significativa - che per noi può essere ignorata - anche prodotti del lavoro generale. L’assenza della divisione sociale del lavoro, già menzionata, obbliga a soddisfare le necessità dei processi e dei beni nuovi attraverso il commercio internazionale. E i paesi sottosviluppati devono operare proprio in questo modo, dato che anche per loro, il metodo stesso dell’accumulazione è diventato il plusvalore relativo. È precisamente la differente organizzazione della relazione di capitale, ciò che consacrò l’esistenza di entrambe le categorie dei paesi e la relazione imperialista tra di loro1.
Ogni volta che i paesi sottosviluppati comprano dall’estero sviluppato processi e beni per i propri processi di accumulazione, trasferiscono investimenti. Certo, messa così in generale, questa proposizione è valida anche per qualsiasi categoria di paesi. Però, intanto si tratta di prodotti del progresso la cui lavorazione è controllata dai paesi sviluppati; ci riferiamo ad un acquisto non trova la sua contropartita in una vendita corrispondente dello stesso tipo di beni. La manifestazione più generale di questa proposizione è la tendenza inerente dal bilancio commerciale al deficit, con il suo corollario di indebitamento e le costanti recessioni originate dalla necessità di frenare le importazioni2.
Anche la bilancia commerciale può occultare questa realtà, in particolare, durante i periodi positivi per i prezzi e per il volume delle risorse naturali esportate, come è successo negli ultimi anni con le esportazioni di petrolio, di minerali e di prodotti agricoli da parte della regione. L’evoluzione degli ultimi due decenni - che dimostra come le esportazioni di manifatture tecnologiche della regione siano cresciute - potrebbe generare confusione o creare aspettative senza alcun fondamento. Il Messico, ai principi del millennio principale esportatore della regione, è anche il principale responsabile di questa evoluzione. I prodotti di contenuto tecnologico, medio e alto, si concentrano nella maquila3, e hanno rappresentato, nel 2001, circa il 22% delle esportazioni della regione. Però, questa industrializzazione che si traduce in maggiori esportazioni, ha preso luogo seguendo i modelli del sottosviluppo.
La maquila fa derivare il suo funzionamento dalle importazioni di beni di consumo, quelle che normalmente contribuiscono per più del 70% al valore del prodotto. Nel 2001, l’apporto locale di beni di consumo toccò il suo valore massimo dal 1980, il 2,7% del valore del prodotto. Il valore della manifattura esportata è più alto, molto più alto in questo caso rispetto al valore prodotto internamente. Da ciò risulta che le cosiddette esportazioni di medio e alto contenuto tecnologico sono in predominanza vendite di prodotti ottenuti con la forza lavorativa poco qualificata nel paese esportatore.
Si può ben capire che non solo il lavoro di concezione e pianificazione dei processi e dei prodotti, ma anche una buona parte del lavoro operativo vincolato al primo, rimane concentrato nei paesi sviluppati. Inoltre si avverte, anche se in maniera molto più estrema, che, non solo la creazione di nuove industrie, ma anche il loro funzionamento dipende dalle importazioni di mezzi di prodotti, prolungando più e meno, secondo l’industria presa in esame, il deficit di creatività interno. La de-nazionalizzazione della produzione, nella misura in cui avanza l’accumulazione, aggrava l’incapacità dei paesi di prendere le proprie decisioni economiche. Così come si afferma nei circoli della UNCTAD4:
“La crescente importanza delle reti internazionali di produzione ha fatto aumentare il grado di complementarietà produttiva tra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. Tutto ciò implica che una quota maggiore di produzione ed esportazione nei paesi in sviluppo dipenda dalla decisioni e dagli sviluppi dei paesi stranieri5”.
Il bilancio dei beni suddivisi nelle differenti categorie dovrebbero permetterci di illustrare le tendenze segnalate per l’insieme della regione.
ALyC6 Commercio di beni. Esportazioni
(Milioni di dollari)
Prodotti 1987 1992 1997 2002 2004
Primari 46.906 51.457 85.875 93.371 145.064
Industriali 20.651 32.099 52.526 52.823 72.913
basati su
risorse naturali
Industriali 23.680 60.140 132.055 182.193 218.452
con intensità
tecnologica
Importazioni
(Milioni di dollari)
Primari 14.030 19.999 31,115 32.469 43.981
Industriali 13.740 25.772 49.386 50.685 62.415
basati su
risorse naturali
Industriali 40.180 100.237 217.245 234.499 279.506
con intensità
tecnologica
Fonte: CEPAL7, Divisione del Commercio Internazionale e Integrazione. Allegato statistico di Panorama dell’inserimento internazionale dell’America Latina e dei Caraibi 2005-2006, in http://www.eclac.cl/Comercio.
Il bilancio dei beni latinoamericani si basa sulle esportazioni di beni primari e industriali di risorse naturali. Tra il 1987 e il 1991, nel suo insieme, ha raggiunto un saldo positivo, basato sul contenimento delle importazioni e della crescita. Nei dieci anni successivi, fino al 2001, il bilancio è andato in deficit. A partire dal 2002 e fino al 2006, questa situazione si è ribaltata, grazie alle condizioni che hanno favorito l’aumento dei prezzi e, in misura minore, delle esportazioni primarie, del petrolio, del gas, del rame e di alcuni prodotti agricoli (zucchero, banane e caffè). Come afferma la CEPAL:
“Questa crescita e il miglioramento del bilancio esterno sono avvenuti nei paesi in cui nella struttura dell’esportazione predominano i prodotti basici che hanno avuto aumenti nei prezzi. In altre parole, i risultati sono dovuti ad un fattore esterno: l’innalzamento dei prezzi dei beni che alcuni paesi possiedono in abbondanza”8.
Per tutti gli anni che vanno dal 1987 al 2004, il saldo dei beni industriali è stato negativo; ha seguito una tendenza inerente all’accumulazione della regione, a causa, soprattutto del deficit dei beni di tecnologia medio-alta. L’evoluzione dei saldi per i cinque anni di cui abbiamo parlato è la seguente:
ALyC Bilancio dei beni industriali
(Milioni di dollari)
Prodotti 1987 1992 1997 2002 2004
Totale -9.5888 -33.801 -82.051 -50.168 -50.554
industrializzati
Basati sulle 6.911 6.297 3.139 2.137 10.498
risorse naturali
Di bassa 2,587 -2.632 -10.154 -6.424 -5.896
tecnologia
Di media -11.671 -25.098 -50.483 -30.877 -31.692
tecnologia
Di alta -7.415 -12.368 -24.553 -15.005 -23.466
tecnologia
Fonte: La stessa dei riquadri precedenti.
Risulta evidente che la produzione, nella regione, di beni industriali è molto lontana dal soddisfare le necessità interne. Ancora peggio, il ricorso ai beni prodotti all’estero tende a crescere nella misura in cui avanza l’industrializzazione, proprio perché quest’ultima, in condizione di sottosviluppo, fa crescere la dipendenza di beni industriali prodotti nei paesi sviluppati. Nel 1987, le importazioni di questi beni costituiva il 78,5% del totale; nel 2004, questa partecipazione è salita fino all’87,4%. I beni della tecnologia medio-alta costituivano il 49,2% del totale, sempre nel ‘87; e nel 2004, sono arrivati al 57%. Praticamente tutta la variazione si deve alla crescita dell’importanza, nelle importazioni, dei beni dell’alta tecnologia, che sono passati dal 13,8% al 21,5%, durante questo periodo.
Dobbiamo fare una digressione. Gli organismi internazionali inseriscono tra i paesi “in via di sviluppo” anche le economie dell’Est e del Sud-Est asiatico. Nelle esportazioni manifatturiere, la presenza di questa regione è in forte crescita. Durante il periodo che va dal 1996 al 2001, hanno partecipato con il 30% alle esportazioni mondiali di tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, uno dei settori più dinamici del commercio internazionale. Questa regione vende un po’ meno rispetto all’Unione Europea (34%), però di più degli Stati Uniti (17%) e del Giappone (15%)9. Sembrerebbe, quindi, che la distinzione tra i paesi “sviluppati” e quelli “in via di sviluppo”, non abbia, in questo caso, la sua espressione corrispondente a livello commerciale. Però, in realtà, mettere la Repubblica di Corea, Taiwan, le Filippine, Singapore, la Thailandia e i paesi latinoamericani in un’unica categoria rende ancora più difficile la comprensione dei processi in cui sono coinvolti tutti questi paesi, o meglio, è un’espressione di questa difficoltà.
Non stiamo ignorando differenze sostanziali. Ad esempio, la CEPAL segnala:
“... in contrasto con alcune esperienze dei paesi dell’Asia - nonostante il suo presupposto successo - il settore dell’esportazione messicano non è stato in grado di creare i necessari agganci in avanti e indietro, nell’economia nazionale”10.
Su alcune delle implicazioni di questa realtà nella regione, si dice:
“Salire la ‘scala tecnologica’ è difficile, specialmente quando la base dei fornitori locali di beni è poco sviluppata e, di conseguenza, le imprese localizzate fuori del territorio erogano parti e componenti, così come servizi più sofisticati. In questi casi, i servizi di pianificazione ed ingegneria, di ricerca e sviluppo, di logistica e commercializzazione, tendono ad essere offerti dalle imprese più grandi, senza ulteriori possibilità di trasferimento di tecnologie”11.
Quello che non viene percepito è che i paesi che riescono a “salire” la “scala tecnologica”, abbattendo un gradino dopo l’altro, stanno avanzando verso la divisione capitalista del lavoro; stanno dando luogo all’organizzazione del proprio lavoro generale e stanno cercando di tenersi per sé le conoscenze e le abilità che condizionano la produzione. Non si aspettavano che il settore dell’esportazione fosse “capace di creare gli agganci necessari”, ma si erano imbarcati in alcuni progetti di nazione che li avrebbero elevati in un’altra posizione di fronte ai paesi imperialisti. Sono paesi e zone che si trovano alla soglia dello sviluppo capitalista e si può dire che già hanno ottenuto la rinegoziazione della loro posizione all’interno del mercato mondiale. L’America Latina continua ad essere bloccata sulla soglia dello sviluppo. Tutto ciò rende manifesto che non esiste, in questo stato delle cose, una fatalità nascosta, ma la volontà politica dei governi della regione si commisura di più al suo sostenimento.
Riassumendo, lo sviluppo della relazione di capitale, l’assenza della divisione che organizza il lavoro, generale e scientifico, distinto al lavoro immediato, si traduce in un trasferimento, verso i paesi sviluppati, della capacità di accumulazione per la creazione di occupazione.
Nella regione opera anche il meccanismo dal quale si crea un esercito di riserva. Storicamente, la penetrazione del capitalismo in America Latina, combina i processi dell’accumulazione originaria (separazione del produttore e dei mezzi) con la produzione del plusvalore relativo proprio dell’industria che stava nascendo nel XIX secolo. Questo non vuol dire che l’accumulazione originaria accompagni all’infinito il corso della produzione; al contrario, è stato necessario riorganizzare, in forma non capitalista, le grandi massi di popolazione in eccesso, come è avvenuto attraverso la riforma agraria; o meglio, inviare milioni di lavoratori verso gli Stati Uniti, così come è avvenuto con il programma bracero12 accordato con il Messico (1942-1964).
In relazione agli effetti del processo che ha consolidato il capitalismo sulla popolazione lavoratrice, non esiste un modello unico. Ad esempio, in una paese come il Messico, la relativamente bassa capacità dell’accumulazione di assorbire forza lavoro, insieme alla crescente disposizione di forza lavorativa “libera”, favorisce una evoluzione molto lenta del capitalismo nell’agricoltura e uno sfruttamento intensificato della forza lavoro. Mentre in Argentina, l’ampia disponibilità di terre, unita alla bassa densità demografica, favorisce l’immigrazione, fa espandere il lavoro salariato e promuove l’introduzione di tecniche capitaliste. Ossia, il punto di partenza in un’aerea diventeranno in seguito circostanze popolazionali diverse che avranno un loro impatto sulla successiva evoluzione. Comunque, una volta consolidato il capitalismo, all’interno dei limiti territoriali definiti e in tutti i settori, la produzione tende sempre a creare un esercito di riserva, che sia più alta o più bassa la composizione media del capitale. Nella regione, a questo aspetto del capitalismo si somma il trasferimento di investimenti e di posti di lavoro, conseguenze dell’accumulazione.
È per queste ragioni che la produzione capitalista in un paese sottosviluppato non solo crea un esercito di riserva ma anche una popolazione in eccesso, ossia, una popolazione che va oltre le necessità medie del processo di valorizzazione del capitale, sia nel funzionamento che nello sviluppo.
Con il capitalismo sviluppato si produce una situazione inversa. Mentre con il sottosviluppo, l’accumulazione consuma più di quello che produce, nei paesi sviluppati l’accumulazione produce di più di quello che consuma. L’insufficienza della produzione in un polo si soddisfa con l’eccesso di produzione nell’altro. Di conseguenza, mentre con il sottosviluppo l’accumulazione genera una sovrappopolazione debordante, con lo sviluppo manifesta un’insufficienza nella creazione del suo esercito di riserva. L’organizzazione imperialista della produzione, che costringe alcuni paesi al lavoro immediato e operativo, distribuisce anche, in modo diseguale, l’energia con la quale ciascun polo del sistema genera forza lavoro disponibile. Concentra nel polo sottosviluppato i fondi della forza lavoro che richiedono i paesi sviluppati per la loro espansione.
Sulla base del numero di immigrati latinoamericani negli Stati Uniti, una base che non contempla la migrazione illegale né gli spostamenti temporali, si stima, che nel 2000, c’erano quasi 14,5 milioni di persone, dei quali quasi 7,8 milioni provenienti dal Messico. Oltre 2,7 milioni si trovano in Spagna, Canada, Regno Unito e Giappone13. In questo contesto non si può ignorare che l’emigrazione regionale verso i paesi sviluppati è cresciuta in modo costante negli ultimi decenni. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la principale destinazione, negli anni ’60 si registravano poco più di 820 mila persone, numero che è letteralmente aumentato negli anni seguenti, anche se il tasso di crescita della migrazione sembra ridursi negli anni ’80 e ‘9014. Questa evoluzione può essere interpretata come una risposta a una crescente incapacità dell’economia sviluppata di produrre una popolazione in eccesso necessaria, per cui, la teoria dell’accumulazione, nella sua formulazione più generale, dovrebbe ancora attendere prima di vedersi riflessa nella realtà. Però non è proprio così.
È un fatto riconosciuto che il tasso di disoccupazione nei paesi sviluppati sta crescendo sempre di più15. Attualmente nessuno asserisce che le cifre dal 3% al 4% siano compatibili con la “piena occupazione”. Nel 2005, il tasso di disoccupazione è arrivato fino al 6,6%, incluso il 5,1% degli Stati Uniti e l’8,6% dell’Europa. Nel 2002, la OCDE registrava 8,4 milioni di disoccupati negli Stati Uniti e altri 13,5 milioni nell’Unione Europea. Per la totalità dei paesi dell’OCDE, la somma dei disoccupati arrivava a 36,4 milioni16. La OIT, meno conservatrice17, calcolava che nel 2001 c’erano, nei paesi industrializzati, 50 milioni di disoccupati. Basterebbero questi dati per dimostrare che il capitalismo sviluppato conta su un esercito di riserva più che sufficiente per il suo sviluppo. Però questo non è tutto.
Il lavoro part-time ha acquisito maggiore importanza all’interno del lavoro full-time. Nel 1994 rappresentava l’11,6%, fino ad arrivare al 15,4% nel 2005, sempre nei paesi della OCDE. In queste condizioni una parte ci ciò che viene considerato lavoro part-time è allo stesso tempo disoccupazione, lavoro disponibile e quindi va inteso come riserva lavorativa. La OCDE ha preso coscienza del fenomeno:
“... esiste anche un’offerta potenziale di lavoro tra le persone che sono involontariamente impiegate a tempo parziale”18.
A questo gruppo vanno sommati tutti quelli che, essendo in condizioni di lavorare, semplicemente non partecipano al mercato lavorativo.
Bisogna ricordare che sta crescendo anche il lavoro temporaneo.
“Anche se l’occupazione temporanea è stata generalmente meno dinamica del part-time, la sua espansione provoca preoccupazione, poiché la maggioranza dei lavoratori precari preferirebbero impieghi a tempo indeterminato...”19.
Allo stesso tempo, lo sfruttamento del lavoro è ancora più intenso, in modo che una parte dei lavoratori
“... sta lavorando con una velocità sostenuta e con tempi molto stretti. Coloro che lavorano molte ore al giorno o con un ritmo di lavoro intenso, sono soggetti ad un numero crescente di problemi per la salute, relativi allo stress a alla grande difficoltà di conciliare il lavoro e la vita familiare”20.
La svalutazione dei posti di lavoro in offerta, lo sfruttamento, la crescente percezione che l’impiego sia di volta in volta meno sicuro, infine, tutto ciò che è in stretta relazione con la precarizzazione e la flessibilità lavorativa, non sarebbe possibile se non ci fosse scarsezza di forza lavoro. Altrimenti non si potrebbe spiegare neanche l’aumento della povertà. Nel 2005, negli Stati Uniti, la popolazione che viveva in povertà è arrivata a 37 milioni di persone, il 12,6% del totale21, 5 milioni in più rispetto al 2001 e 6 milioni in più del 2000. Viene stimato che 15,6 milioni si trovano in estrema povertà, il livello più alto dal 197522, ossia, percepiscono un’entrata minore della metà rispetto alla soglia della povertà. Questi sviluppi non sono normali in condizioni di un’offerta limitata di forza lavoro; al contrario, affinché si scatenino, è necessario che questa offerta sia ampia. Il capitalismo sviluppato ha già superato i suoi limiti per la creazione interna del suo esercito di riserva.
È innegabile che per molto tempo, la migrazione ha permesso di supplire alla capacità limitata dell’accumulazione di creare un esercito di riserva nei paesi sviluppati. Però, negli ultimi anni, l’elevato dinamismo della migrazione verso il “Nord”, in particolare verso gli Stati Uniti, ha obbedito solo parzialmente a questa causa. In realtà, da un lato, ha incontrato una ragione importante nell’ordine economico creato dalla globalizzazione. In America Latina, i processi di riorientamento economico hanno debilitato ancora di più la capacità della produzione di creare occupazione. L’apertura commerciale ha obbligato ad elevare i livelli di produttività e della composizione tecnica e organica del capitale, con l’obiettivo di guadagnare competitività, sia nella relazione con i prodotti inviati al mercato mondiale, che rispetto alla capacità di affrontare la competizione di fronte alle importazioni. Queste ultime, hanno ridotto le possibilità di crescita, nella misura in cui si trattava di beni prodotti senza alcun vantaggio per la regione. Il taglio dell’attività economica dello Stato ha contribuito all’espansione della disoccupazione23. Le esportazioni della regione sono cresciute con tassi molto alti, però i livelli di crescita sono rimasti molto in basso rispetto a quelli raggiunti negli anni ’50, ’60 e ’70. Come risultato, la partecipazione alla creazione della ricchezza nelle regioni sottosviluppate che hanno affrontato la globalizzazione senza progetti di nazione, dovrebbe crollare, visto che la produzione appare ora più concentrata al di fuori delle regioni. La OIT afferma che le differenze di entrate tra i paesi con un alto o medio profitto, che era di 8 volte nel 1975, è cresciuto 14 volte nel 2000, mentre questa stessa differenza rispetto ai paesi con redditi bassi, è aumentata dalle 41 alle 66 volte in questo stesso periodo di tempo24.
C’era, quindi, nella regione una maggiore massa di forza lavoro disponibile e motivata dalla mancanza di aspettative locali di emigrazione. Il polo sviluppato dello schema capitalista e le aree che avanzano verso questa condizione - come la Cina e l’India - producevano una maggior quantità di ruoli produttivi all’interno del mercato mondiale. In questo senso, la ristrutturazione della produzione mondiale rendeva necessaria una maggiore mobilità del lavoro verso le aree favorite dal dinamismo e dalle riserve lavorative deficitarie. Questa necessità, creata dal riordinamento mondiale, tende a debilitarsi per i segni di esaurimento della globalizzazione neoliberale della regione, segni rappresentati dall’emergenza dei processi che cercano di trovare nuove strade, come il Venezuela, la Bolivia e l’Ecuador, o che semplicemente vogliono un trattamento diverso dalle potenze, come il Brasile e l’Argentina. Sono processi di fronte ai quali il “Nord” imperialista non poteva non reagire. Dopo un lungo periodo di totale disinteresse per la regione, gli Stati Uniti hanno reagito con il fine di impedire ulteriori radicalizzazioni e una maggiore diffusione della “visione rivale dello sviluppo”. G. W. Bush ha manifestato una particolare e imminente preoccupazione per le
“... decine di milioni di persone che continuano a vivere in povertà in America Latina”25.
D’altro canto, non va ignorato il fatto che anche nel contesto di questa redistribuzione della produzione mondiale, i tassi di disoccupazione, nei paesi sviluppati, sono rimasti molto alti. In realtà, l’immigrazione non è stata utilizzata solo come un mezzo per creare forza lavorativa. Negli ultimi decenni, in particolare sin dagli anni ’80, la funzionalità della migrazione è cambiata. Oltre a proporzionare la forza lavoro per la produzione, ha fornito l’offerta lavorativa, rendendo, così, possibili i processi di flessibilità del lavoro26. In altre parole, è servita anche per i propositi politici governativi. Attualmente, viene posto l’accento sull’importanza che riveste come mezzo per ringiovanire la forza lavoro, però questa aspettativa ha tutto al più una portata limitata e dovrebbe debilitarsi nella misura in cui l’innovazione tecnologica manifesterà la sua capacità di creare forza lavoro, togliendo i timori provocati dall’invecchiamento della forza lavorativa. Di fatto, i governi non manifestano più l’entusiasmo per l’immigrazione e tendono a rafforzarne i limiti, restringendola alla forza lavorativa altamente specializzata e a quelle che rendono servizi temporanei.
Il lavoratore che emigra dalla regione può essere considerato come una figura per la quale l’accumulazione manca di una funzione produttiva, visto che si tratta della produzione in corso o potenziale. I governi non dimostrano interesse a trattenerlo, anzi fanno di tutto per favorire il suo spostamento, in funzione dei problemi che questo lavoratore risolve e dei vantaggi che crea. Fa parte della popolazione eccedente. Si presenta, quindi, come popolazione in eccesso non solo rispetto alla valorizzazione presente ma anche per l’accumulazione futura. La sua situazione, senza dubbio, si ridefiniva poiché emigrava e si inseriva nelle attività produttive del paese sviluppato che la riceve; qui si vedeva la sua vera natura, ossia, essere parte di un esercito di riserva creato in un polo del sistema internazionale per servire nell’altro. Attualmente la sua situazione non è più così chiara, visto che si sa che i migranti stanno accrescendo le fila della povertà e della disoccupazione.
Dal punto di vista del paese sottosviluppato, i vantaggi della migrazione appaiono uno dopo l’altro. Non solo si annullano potenziali tensioni interne, permettendo ai governi di gestire in modo migliore il conflitto sociale, ma si ottengono anche considerevoli vantaggi economici. I migranti, o comunque buona parte di essi, portano con sé la responsabilità del sostentamento della famiglia di appartenenza nel luogo d’origine. Mentre lavora all’estero porta avanti il dovere di inviare denaro. I trasferimenti verso la regione sono cresciuti senza soluzione di continuità e con grande dinamismo, in particolare durante gli ultimi 15 anni. Nel 1990, la cifra era calcolata intorno ai 5,8 milioni di dollari; nel 2005, era di 53.500 milioni. Il valore reale può essere maggiore, visto che le stime non includono gli invii non registrati. È stato anche constatato che il tasso di crescita degli invii sta andando verso il basso27. Però l’importanza delle cifre registrate è di per sé enorme: nel 2005 rappresentava il 2,67% del PIL regionale28. Queste cifre potrebbero essere state sovrastimate, a causa di errori nel computo29, però comunque la grandezza è davvero significativa.
Non necessita di un’ulteriore spiegazione l’interesse che suscitano i trasferimenti di denaro agli organismi nazionali e internazionali e ai grandi enti economici privati, tra cui le banche. Con la scusa di promuovere un impatto migliore dei trasferimenti nello “sviluppo”, tutti questi cercano, seguendo sempre le loro ambizioni, di ottenere il maggiore profitto. Per quanto concerne questo lavoro, bisognerà sottolineare che gli invii di denaro - i quali vengono destinati quasi esclusivamente al consumo (l’80-85%) - ci informano fino a che punto la riproduzione della forza lavoro nella regione porta a termine con carichi di valore creati nei paesi sviluppati (facciamo una astrazione dei flussi di denaro che circolano dalla regione verso l’estero30). Ossia, una parte della produzione interna, equivalente al consumo che si ha grazie all’invio di denaro e che non è soddisfatto con le importazioni, si basa sulle risorse provenienti dall’estero. Nella regione, quindi, la produzione di beni-salario, per il consumo interno, è maggiore dell’entrata generata internamente per questi fini. Questi trasferimenti portano la produzione dei beni-salario oltre i limiti fissati dai salari interni e, quindi, hanno un impatto positivo nella produzione e nell’impiego locale. Comunque, queste entrate non possono essere comparate, almeno non ancora, con i trasferimenti all’estero, per interesse e utilità. Se nel 2004 i migranti hanno inviato alla regione circa 45.000 milioni di dollari, la regione ha pagato in interessi e utili un totale di 65.300 milioni31. Da quel momento, questi movimenti tenderanno a mostrare un segno distinto nei paesi che concentrano il profitto per depositi, però le differenze non sono così importanti come si penserebbe. Nel 2005, il Messico ha ricevuto circa 20.000 milioni di dollari e ha pagato attraverso disponibilità di investimento (utili, dividendi, interessi) 18.312 milioni di dollari32. La vastità dei trasferimenti verso la regione va ad aggiungere nuovi motivi per indurre il governo degli Stati Uniti alla ricerca di meccanismi del controllo della migrazione. L’iniziativa di costruire un muro sulla frontiera con il Messico è assolutamente grottesca, ma è un indicatore del fatto che, in questo paese, la migrazione viene percepita come un problema gravissimo.
Bisogna sottolineare la differente natura di questi movimenti: alcuni costituiscono una sottrazione volontaria del consumo operaio (lavoro necessario) all’estero e apportano alla sopravvivenza di molti, gli altri, un trasferimento di lavoro eccedente (plusvalore) per l’accumulazione e l’arricchimento di pochi; i primi sono espressione della solidarietà, i secondi sono il risultato dello sfruttamento del lavoro e del saccheggio dei paesi subordinati. Nonostante tutto, attualmente la preoccupazione dei governi della regione non è quella di ridurre l’insieme dei guadagni, dei dividendi e degli interessi - che vanno all’estero nel contesto di una irritante disuguaglianza sociale - ma quella di ottenere profitti dalle risorse che gli operai della regione inviano dall’estero per la sopravvivenza delle famiglie.
I trasferimenti di denaro hanno anche altri aspetti positivi, come ad esempio il rafforzamento del conto corrente o l’aumento delle entrate dei governi a causa della riscossione delle imposte, o anche la “riduzione della povertà” - anche quando non sono le famiglie più povere a beneficiarne - senza ulteriori costi per i governi e gli imprenditori. Ma possono avere anche effetti non previsti, come l’indebolimento della competizione delle esportazioni e lo stimolo alle importazioni che sono il risultato di una moneta locale rafforzata. Però gli svantaggi sono solo “danni collaterali” all’interno di un processo, lo sfruttamento della forza lavoro, che riveste un grandissimo affare per i governi della regione.
La questione delle differenze salariali, tra le distinte categorie di paesi, richiede una certa attenzione. Effettivamente, la sovrappopolazione ha qualcosa a che vedere con la determinazione dei salari e, d’accordo con la prospettiva che fin qui abbiamo sviluppato, questo punto va precisato. Come è noto, secondo la teoria di Marx:
“In tutto e per tutto, i movimenti generali del salario sono regolati esclusivamente dall’espansione e dalla contrazione dell’esercito industriale di riserva, il quale, a sua volta, è retto dall’alternanza dei periodi del ciclo industriale”33.
Non è, quindi, l’esercito di riserva quello che regola il movimento generale dei salari, ma l’accumulazione che lo produce in una grandezza che varia in base ai suoi cicli. Nei periodi di espansione la sovrappopolazione decresce, il movimento operaio si rafforza nel momento in cui la competizione tra operai e salari, tende a diminuire; il contrario avviene durante la contrazione. Ossia, il capitale, nel suo movimento, produce distinte correlazioni di classe ed in questo contesto si negozia il livello dei salari.
Che succede, dunque, in condizioni di sottosviluppo, in cui esiste un’eccedenza permanente, in qualsiasi fase del ciclo industriale? Questa massa agisce con una pressione costante verso il basso sul livello dei salari, visto che non può fare altra cosa che debilitare il peso che il lavoro attivo da al bilancio. La popolazione in eccedenza figura in modo predominante tra le cause che determinano che il valore della forza lavoro sia minore in questi paesi rispetto a quelli sviluppati. Questa tesi è di per sé così chiara che, in realtà, bisogna spiegare perché il valore relativo del lavoro non sia più basso di quello che è, o perché ci siano periodi in cui i salari registrano degli aumenti.
L’influenza della popolazione in eccedenza sui salari ha due aspetti fondamentali: uno obiettivo e l’altro soggettivo. Il primo è definito dalla sua presenza nell’organizzazione delle relazioni di produzione e costituisce un carico da cui l’esercito attivo non si può liberare. Il suo effetto, come abbiamo già detto, è ovviamente negativo. L’elemento soggettivo entra in scena perché la sovrappopolazione rappresenta anche un bacino altamente esplosivo di malcontento. È stata sempre presente durante le grandi mobilitazioni sociali e politiche della regione, sia come lavoratori senza terra e senza occupazione nel campo, o come “marginali”, disoccupati che agiscono partendo dai loro movimenti oppure come parte integrante dei movimenti più grandi, proprio come è successo durante il periodo populista. Hanno avuto un ruolo fondamentale nelle mobilitazioni che sono sfociate con la nascita di governi progressisti, in Venezuela, Bolivia ed Ecuador e anche in tutti gli altri processi di resistenza al neoliberismo. È possibile che nessun processo rilevante, culminato con concessione alla classe operaia, registri l’assenza della sovrappopolazione. In generale, il conflitto sociale della regione appare fortemente determinato dalla sua presenza e dalle sue azioni.
Il movimento sociale procede anche attraverso congiunture di avanzamento e di riflusso. La repressione che nella regione ha provocato episodi drammatici, è tanto consistente quanto il malcontento. È il metodo attraverso il quale il capitale impone i limiti alla concessione. Non solo blocca e ostruisce ma molto spesso orienta in senso opposto i processi di miglioramento delle condizioni di vita dei settori popolari. Nella regione, la lotta politica è un fattore predominante per la determinazione del salario. Inoltre, le difficoltà della democratizzazione trovano il loro fondamento nel binomio malcontento-repressione, sempre presente nella vita delle società latinoamericane.
Il basso valore relativo della forza lavoro ha anche altre cause oggettive. Due balzano subito agli occhi: da un lato, una minore qualifica della forza lavoro richiesta da un capitale di composizione media anche inferiore. I cosiddetti “ritardi educativi” visualizzati dai paesi sviluppati - e sui quali molto si è insistito per la necessità di agire nel segno dell’apertura commerciale - rispondono a questa situazione. Dall’altro, una produttività media più bassa richiede una minore intensità di lavoro. Se nei paesi sviluppati è maggiore la produttività del lavoro, lo sarà anche l’intensità. Laddove maggiori sono lo sforzo impiegato e lo spreco di energie durante la giornata, allora sarà maggiore anche il consumo operaio necessario per riacquisire quell’energia. Un movimento operaio che non viene danneggiato dalla presenza della sovrappopolazione sarà sicuramente in una posizione più avvantaggiata per far sì che il maggior consumo delle capacità lavorative sia effettivamente compensato con aumenti sul salario reale34.
Riassumendo, l’emergenza dell’imperialismo ha aperto nuove strade a “la operación de la ley de la población”, distribuendo, in modi diversi, i suoi effetti su ciascuna categoria del paese. Però non è riuscita ad eliminarla. Le tendenze adottate continuano il loro corso e, attualmente, rendono manifesto che non esiste un modo con cui il capitalismo possa disfarsene.
2. Gli eccedenti della popolazione
nelle loro attività
L’ostilità tra l’esercito attivo e la riserva lavorativa appare, in un primo momento, come l’equivalente della dicotomia tra attività e non attività. L’idea di un esercito di riserva che esiste per appoggiare l’accumulazione nel suo sviluppo - che si concretizzerà con l’apertura di nuovi affari e/o l’espansione di quelli già esistenti -, proietta l’immagine di un settore di lavoratori in attesa che si inserirà, da un momento all’altro, nell’accumulazione.
Il lavoratore che non ha accesso al lavoro salariato capitalista e che gode delle libertà che offre la società, continua ad essere proprietario della sua forza lavoro. Ciò nonostante, sa benissimo che le sue capacità non gli servono a niente se non può metterle in pratica, attraverso il lavoro, per ottenere i mezzi necessari per la propria riproduzione. Anche se la sua forza lavoro non realizza beni di consumo, non può continuare a non mettersi alla prova; al contrario, la necessità di sopravvivere lo spinge a produrre qualsiasi bene o servizio. Generalmente, la condizione di disoccupazione tende a sviluppare nel lavoratore la disposizione a crearsi da solo qualche affare o abilità che gli permettano di attuare iniziative indipendenti di occupazione. L’esistenza di una popolazione in eccedenza rafforzerà questa disposizione, poiché diminuisce le aspettative di trovare lavoro e tenderà a moltiplicare le iniziative che permettono al lavoratore di inserirsi in attività alternative e a consolidarle nello scenario occupazionale.
Emergono differenti possibilità. Una di queste è che la popolazione in eccedenza, o parte di questa, attraverso la sua attività, promuova forme di sviluppo del capitale che contengono modifiche della sua struttura teoricamente formalizzata e dominante, conquistando per sé una ridefinizione della sua posizione nella società. Nella regione, questa possibilità è stata pienamente realizzata. Un’altra strada percorribile è che la sovrappopolazione venga stimolata all’esecuzione delle attività senza alcuna relazione con il processo di valorizzazione. Anche questo percorso appare nello scenario latinoamericano. L’osservazione di ciò che la sovrappopolazione fa per la sua sopravvivenza permetterà di determinare la sua relazione con il processo di valorizzazione.
In principio, nessun lavoratore è legato a una relazione con l’accumulazione. Oggi può essere un operaio attivo, domani un disoccupato, dopo un lustrascarpe, ecc., e il proseguimento della sua vita lavorativa ci conferma poco o niente sulla situazione strutturale. Però la presenza dell’attività, la quale rivela anche l’azione di un agente, ci informerà, in modo ragionevolmente convincente, della situazione della sovrappopolazione nella società capitalistica.
Se il lavoratore si trova disoccupato, la situazione sembrerebbe complicarsi. Però, se la disoccupazione raggiunge il 7% e se decidessimo che il livello che conviene agli effetti della valorizzazione è, essendo molto generosi, del 5%, come qualificare il resto se non come inutile agli scopi della valorizzazione? Non si rivela già in questo l’esistenza della sovrappopolazione?
3. Eccedenti relativi al piano
della produzione
e manutenzione dei beni
La sovrappopolazione contiene la possibilità per cui il lavoro salariato si estenda oltre i limiti necessari per una valorizzazione normale. Questa, per poterla considerare come tale, dovrà aver luogo dai canali e dai metodi riconosciuti a livello sociale come legittimi e con il massimo rispetto dei fondamenti dell’accumulazione. Il presupposto fondamentale dell’accumulazione del capitale è la separazione del produttore diretto e dei mezzi di produzione. Questa separazione si proietta come proprietà di questi mezzi da parte di agenti diversi dal produttore diretto, i quali, a loro volta, possono essere agenti pubblici (Stato) o privati. Per il capitalista individuale, una valorizzazione normale è quella che ha come presupposto il rispetto della proprietà dei suoi mezzi e dei prodotti dei “suoi” processi di lavoro. Questa norma sarà valida per la società in generale, in condizioni di predominio del capitale privato.
Il caso è che la valorizzazione, che comincia con un investimento, per poi continuare con un processo di lavoro e culminare infine con l’appropriazione del lavoro in eccesso, può svilupparsi al margine delle norme della valorizzazione normale o può anche trasgredirle. La trovata non è nuova, però, attualmente, si sta sviluppando con gran forza. Il suo agente principale è il capitale pirata.
Era solo prevedibile che l’ansia capitalista del profitto incontrasse nella sovrappopolazione, che essa stessa ha creato, un mezzo in più per la sua realizzazione. Il capitale orientato alla riproduzione pirata ha scoperto che la sovrappopolazione è la fonte ideale per rifornirsi di forza lavoro. Nell’assoluta necessità di fare qualcosa per sopravvivere si annida la disposizione al lavoro clandestino e mal pagato. La riproduzione pirata è un fenomeno mondiale che non riconosce categorie di paesi e che è cresciuta in modo molto dinamico, a tal punto che viene stimato che nel 2006 ricopriva già il 9% del commercio mondiale35. Consiste, dal punto di vista formale, nella creazione massiva della copia di un prodotto qualsiasi da mettere nel mercato e anche nell’introduzione di cambiamenti non autorizzati, che rendono i prodotti operativi in un mercato senza regole.
Il modo di operare di questa industria, per la riproduzione di dischi in Spagna, si può descrivere nei seguenti termini:
“Una rete media di pirateria, secondo i nostri studi, sono otto persone in tre appartamenti con circa 25 masterizzatori. In questo modo si possono riversare nelle strade più di 150 mila dischi. Il costo unitario di registrazione è di 30 centesimi. La redditività netta, senza il materiale, l’affitto e il compenso agli impiegati, si aggira intorno ai 108 mila euro”36.
È chiaro che tra questi lavoratori ci siano molti immigrati. La quantità di beni che sono oggetto di riproduzione pirata è infinito e bisogna aspettare che il processo di ciascun bene offra singolarità, però dal punto di vista della pirateria capitalista troveremo sempre queste tre componenti: mezzi di produzione, lavoro salariato e profitto.
Il processo ciclico di qualsiasi capitale, nella sua forma più elementare, si presenta nel seguente modo: D-M...P...M’-D’. Il capitalista si presenta con il suo denaro (D) nel mercato in cui ottiene merci (M), consistenti nei mezzi di produzione (MP) e forza lavoro (FL). Con queste premesse, abbandona la sfera della circolazione e mette in marcia un processo produttivo (P) da cui risulta una merce (M’) che ha un valore maggiore al valore inverso per far iniziare il processo produttivo. Ora ritorna nel mercato, scambia il suo prodotto con denaro (D’), con il quale potrà cominciare un altro ciclo, questa volta in modo crescente.
Con l’intervento della scienza nella produzione, questo processo è diventato ancora più complesso. Il mercato del lavoro si è sdoppiato in mercato generale e immediato e la stessa cosa avviene ai mezzi di produzione, per questo il lavoro scientifico necessita di laboratori, strumenti, ecc. Sia che le imprese organizzino i propri dipartimenti di ricerca e sviluppo, o che si giovino delle conoscenze e degli studi del progresso tecnologico indipendente, o che, come avviene in America Latina, che li ottengano da altre imprese esistente nei paesi sviluppati, la spesa nel lavoro generale è inevitabile. Da qui risulta che la prima fase del ciclo è diventata questa: D-M (FLg + FLi + MPg + MPi).
In America Latina, l’investimento nella forza lavoro scientifica (FLg) e nei mezzi per il lavoro scientifico (MPg) adotta principalmente la forma di licenziamento o di cessione della proprietà industriale (brevetti di invenzioni, modelli di utilità, pianificazioni industriali, registro di marchi, nomi e lemmi commerciali, ecc.). Per semplificare, chiameremo questo investimento costi di trasferimento (Tr). Nella regione, la prima fase del ciclo si presenta, quindi, così: D-M (FL + MP + Tr). Per il capitale pirata, comunque la prima fase del ciclo continua ad essere D-M (FL + MP), in cui tutto è ridotto al semplice lavoro immediato, di operazione, visto che si è appropriato, senza nessuna transizione, degli sforzi della ricerca, sperimentazione e promozione realizzate da altri. Neanche in seguito opera all’interno di un mercato lavorativo regolato, quindi il suo investimento sembra libero da aggravi e deregolamentazioni relative ai minimi salariali, giornate lavorative, condizioni di lavoro, ecc. Nell’acquisizione dei mezzi di produzione non è costretto a seguire norme qualitative, per questo può diminuire i costi e manipolare i propri materiali.
Non bisogna dimenticare, quindi, che il successo del capitale pirata sta proprio nei suoi prezzi. Questi beneficiano dei “risparmi” che risultano dall’uso del lavoro scientifico e dagli sforzi di promozioni altrui o, a seconda del caso, dai costi di trasferimento in cui sono incappati altri, dal ricorso a materiali di minore qualità, dal pagamento di salari da fame e dall’evasione delle imposte e delle prestazioni.
La riproduzione pirata introduce una seria distorsione nel ciclo normale del capitale originale. Se si tratta di un bene già stabilito nel mercato, l’irruzione del capitale pirata ridurrebbe i suoi mercati. I tagli alla produzione per riuscire così ad adattarsi alla nuova situazione, tagli necessari secondo il capitale pirata, non risolvono alcun problema. I suoi grandi costi vanno distribuiti in una minore quantità di prodotti individuali, ciò che risulterà molto più doloroso vedendo gli investimenti nella promozione e nella ricerca ancora non ammortizzata, sottratti come per magia. Ossia, per affrontare competitivamente il mercato, è spinto a ridurre i suoi prezzi, anche se solo fino ad un certo punto, quindi, è costretto alla re-strutturazione. Si comprenderà facilmente che la situazione è ancora più compromessa per il capitale che soffre l’irruzione della pirateria quando sta cercando di crearsi un mercato per sé.
Il capitale pirata è un capitale parassita; è alimentato dalla creatività e dalla sovrappopolazione, presenti nel processo di accumulazione. La società capitalistica potrebbe svilupparsi benissimo senza di esso, poiché contribuisce a diminuire i suoi costi verso altri capitali, come succede, ad esempio, quando proporziona riparazioni a basso costo. Non esiste una necessità immanente per la riproduzione del capitale che giustifichi la sua esistenza e, al contrario, danneggia l’accumulazione, dato che è spinto a operare nell’ombra. Ostacola il ciclo naturale di qualsiasi capitale e crea canali paralleli per la continuazione del processo. Ottiene dalla sovrappopolazione la sua possibilità di esistenza e dal desiderio di guadagno, la realizzazione di questa possibilità. Per questo, il capitale pirata rappresenta una valorizzazione sovrapposta e anche quando i lavoratori che la rendono possibile, sembrano attivi sotto il comando di un capitale, continuano a far parte della popolazione in eccesso. È il carattere parassitario del capitale per il quale lavorano ciò che determina la loro posizione. La repressione di cui sono obiettivo, non è diretta contro di loro, ma alla disarticolazione dell’impresa.
Nella regione l’operazione di questo tipo di capitale ci offre dei casi lampanti. In Ecuador ha ottenuto credito come grande esportatore di Dvd e Cd non autorizzati e la sua importanza è tale che ha influito nell’uscita dal mercato della multinazionale BLOCKBUSTER37 che era stata messa in discussione per la qualità dei suoi servizi38. Il Perù si mette in luce, a livello latinoamericano, come produttore di libri-pirata, con circa 3 milioni di volumi e più di 3 mila titoli39. La Federazione Internazionale delle Industrie Discografiche qualifica il Paraguay come il maggior produttore di discografia pirata40. A Tepito, Messico D.F., la produzione pirata è arrivata a dimostrare la propria creatività - che a volte è richiesta per far sì che l’affare vada meglio -, dando luogo, tra le altre cose, alle modifiche della serie Sony Play Station, in modo che si possano leggere i giochi piratati41. Infine, il fenomeno è presente anche in molte altre parti e la presenza di una sovrappopolazione così vasta, non fa altro che favorire il suo dinamismo.
Creando una popolazione in eccesso, l’accumulazione crea anche la necessità che appaiono e si diffondano forme di produzione distinte dal lavoro salariato. A volte, questa necessità viene espressa politicamente, obbligando lo Stato ad agire per soddisfarla.
Tra le situazioni in cui lo Stato si mobilita per dare risposta alle richieste della sovrappopolazione bisogna sottolineare l’impulso dell’economia contadina, attraverso le riforme agrarie e i differenti programmi appresi per la sua protezione. La produzione contadina, organizzata in piccoli lotti - inizialmente concepita come sufficiente per la sussistenza di una famiglia e che quindi non ha come obiettivo quello del profitto (anche se ricorre alla contrattazione temporale di piccoli contingenti di mano d’opera) - in alcuni periodi, ottiene anche l’appoggio del capitale industriale che si aspetta che produca una nuova attivazione della produzione agricola e una diminuzione delle materie prime e dei beni-salario, oltre a un miglioramento del commercio estero. Questi risultati erano attesi sia per lo sfruttamento delle terre non impiegate, sia per il fatto che il contadino avrebbe potuto rinunciare al prodotto in eccesso, aspetto che avrebbe permesso di compensare gli svantaggi della produttività. Questa funzionalità, ovviamente, può essere solo temporale, in virtù di ragioni che non possiamo esporre qui42, però nel momento in cui perdura, costituisce un rifugio per un ampio settore della sovrappopolazione che risulta, allo stesso tempo, utile per l’accumulazione del capitale. Attualmente, gli sforzi per la riforma agraria, se vogliono avere successo, dovranno essere orientati all’organizzazione delle grandi esportazioni, basate sull’associazione di produttori diretti.
L’iniziativa della sovrappopolazione si dispiega anche in altri percorsi. Ad esempio, si organizza in piccole officine o imprese per poi inserirsi nei processi di valorizzazione. È molto complicato pensare ad una relazione più o meno esaustiva delle attività delle piccole imprese che operano apportando materia prime per la successiva lavorazione capitalista, come avviene nella pesca, o nelle imprese di costruzione, e che contribuiscono alle fasi intermedie e finale della produzione come, ad esempio, il lavaggio delle carote. Tutti questi lavoratori fanno risparmiare costi al capitalista e offrono percorsi alternativi alla valorizzazione.
Altri contingenti lavorativi raggiungono i propri mezzi di vita mettendo le loro capacità al servizio di lavoratori salariati. Nel settore delle costruzioni, ad esempio, esiste un enorme contingente di forza lavoro che si mobilita per l’edificazione, l’estensione o il mantenimento delle abitazioni familiari. Muratori, elettricisti, fabbri, carpentieri, ecc., molto spesso vengono mobilitati da un maestro per costruire le case dei lavoratori salariati. I loro prezzi sono generalmente molto bassi rispetto alle imprese capitaliste di costruzione, con le quali competono. In questo caso, l’attività non risponde direttamente alle necessità dell’accumulazione, però contribuisce lo stesso alla realizzazione di una grande quantità di prodotti capitalisti come il cemento, l’acciaio, il vetro, il metallo, ecc. Qualcosa di molto simile avviene con i lavoratori della falegnameria per la produzione di mobili per appartamento e altri oggetti di produzione artigianale non capitalista, con cui la sovrappopolazione conquista per sé uno spazio produttivo all’interno della società.
Ci sono innumerevoli casi in cui l’organizzazione non capitalista nasce e si diffonde spontaneamente in virtù degli spazi lasciati vuoti dall’economia dominante. La riparazione di tutta la classe dei beni costituisce un’attività abbastanza diffusa per queste cause. Le officine per la riparazione dei veicoli sono un esempio rilevante. I lavoratori, normalmente, operano, con i propri mezzi di produzione; a volte ricorrono all’aiuto della famiglia, altre, invece, all’appoggio di altri lavoratori con i quali si distribuiscono i profitti. Per quanto riguarda quest’ultimo caso, se il padrone dell’officina non ottiene guadagni sufficienti per l’accumulazione, la sua attività non è capitalista. Però riempie un vuoto all’interno dell’organizzazione capitalista delle riparazione delle macchine.
Il veicolo usato che viene trasferito nei settori con meno profitti, sembrerebbe, in principio, un limite per la realizzazione del prodotto dell’impresa automobilistica, però, in realtà, l’auto nuova gode di un mercato ristretto, diretto ai settori con alti guadagni. In compenso, la produzione capitalista delle parti e degli strumenti di lavoro è favorita dal lavoro di riparazione. Le officine familiari per la riparazione di beni di uso domestico (lavatrici, aspirapolveri, stufe, sistemi di riscaldamento) hanno sviluppato una situazione simile e, anche se il consumo delle riparazioni, non è così importante, permette anche dei risparmi che la famiglia potrà orientare verso altri prodotti capitalistici.
Finora abbiamo visto che la sovrappopolazione, attraverso l’organizzazione non capitalista del suo lavoro, può:
1 confluire nei processi generali dell’accumulazione, così come è avvenuto con la produzione contadina;
2 competere con l’organizzazione capitalista di qualsiasi attività, mentre rende possibile la valorizzazione di altri beni;
3 riempire spazi che l’accumulazione non ha occupato.
In tutti questi casi, i lavoratori si presentano come produttori sussidiari di beni e servizi. Non sono né operai né capitalisti; non producono per altri il plusvalore, né si appropriano del lavoro altrui, e se lo fanno, quell’appropriazione non è sufficiente per l’accumulazione, però si sono inseriti positivamente, per così dire, nella società del capitale e per questo, la società non solo li sopporta, ma li protegge anche, almeno quando il loro contributo è evidente.
4. Eccedenti relativi alla sfera
della realizzazione dei beni di consumo
La forma di organizzazione dell’affare della compravendita di prodotti più adatti per il capitalismo, è quella della grande istituzione commerciale che opera con lavoro remunerato. Questi lavoratori costituiscono ciò che F. Engels chiamò “proletariato commerciale”43. Dato che il grande commercio volge la sua attenzione intorno ai punti di maggiore concentrazione territoriale del profitto e, dato che la sua installazione richiede facilità in termini di spazio relativamente ampio, in principio sembrerebbe che sia obbligato a lasciare aperto un campo vasto per il mantenimento di piccoli affari nei centri urbani e per la nascita di tanti altri che seguono la crescita delle città. Però si tratta di un campo che il grande commercio non abbandona e per il quale compete ogni volta che le condizioni della domanda lo consigliano. Così, appare distribuito anche nei centri urbani sotto forma di punti vendita relativamente piccoli, però che molto spesso hanno un impatto distruttivo sul piccolo commercio. Si calcola che in Messico la localizzazione di queste imprese (Oxxo, Extra, 7-Eleven), in un punto qualsiasi, porta con sé la rovina di cinque piccoli negozi44.
Più lontano è il grande commercio e meglio lavora quello piccolo, dato che offre comodità certe e permette risparmi nei trasferimenti e nei tempi, in particolare, se si tratta di piccoli acquisti. Il piccolo commerciante partecipa al guadagno capitalista e lui stesso potrebbe arrivare ad essere un grande commerciante se il successo dei suoi affari gli permettesse di espandersi fino al punto in cui ha bisogno del lavoro altrui per le proprie operazioni e, in queste condizioni, può ottenere profitti sufficienti per l’accumulazione. Questa, comunque, non è la sua evoluzione più probabile. Da un lato, l’espansione del grande commercio e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, danneggiano i suoi vantaggi; dall’altro, la caduta del valore individuale dei beni di consumo, che è il risultato della crescita della produttività, li obbliga a gestire volumi sempre più grandi di beni per riuscire a mantenere un certo livello di entrate, ciò che presuppone l’ampliamento delle installazioni e l’investimento di ulteriore lavoro. Il problema è che i guadagni non crescono in accordo alla necessità di maggiori spazi; nei fatti, la maggioranza di loro riesce appena ad ottenere le risorse sufficienti per sopravvivere.
Il piccolo commercio è quello che può contare su mezzi propri per la produzione del servizio (installazioni - molto spesso la casa stessa in cui vive; a volte alcuni mezzi di trasporto, strumenti minori di calcolo e di misurazione, ecc.) e contribuisce attivamente alla realizzazione di beni che sono il risultato dell’accumulazione normale, e quindi, chi vi lavora figura come produttore sussidiario di servizi.
La complessità del commercio è molto spesso maggiore.
Negli ultimi decenni nella regione, la figura del venditore ambulante di vecchia tradizione si è moltiplicata. La sovrappopolazione, carente di mezzi propri, è scesa nelle strade delle città per organizzarsi in agglomerazioni di piccoli posti in luoghi determinati, con diverse dimensioni. Grandi “conglomerati” e “paraditas”, come li chiamano in Perù45, fanno parte della fisionomia urbana della regione. A queste concentrazioni va aggiunta la vecchia figura del venditore che si mette in strada offrendo articoli, su vecchi carretti o su moderni furgoni. Generalmente, rappresentano una nuova carica per il piccolo commercio e, non poche volte, competono vantaggiosamente con il commercio capitalista.
Per quanto ci concerne, la moltitudine che vende nelle strade rappresenta qualsiasi cosa, tranne che una massa omogenea. Dal punto di vista della sua relazione con il capitale, la sovrappopolazione presenta, in un primo momento, le seguenti situazioni:
1 quelli che vendono beni ottenuti direttamente dal fabbricante capitalista o dal capitale commerciale;
2 quelli che vendono beni creati dalla produzione pirata.
La tipologia del venditore ambulante è certamente molto più vasta, e ci torneremo più avanti.
I primi condividono i seguenti aspetti. Da un alto, non costituiscono una necessità dalla quale il capitale non può prescindere per completare il suo ciclo. I piccoli produttori sussidiari del commercio erano chiamati a riempire i vuoti dell’accumulazione in questa attività. In questo senso, la vendita ambulante della sovrappopolazione rappresenta un lavoro commerciale. Dall’altro, la sovrappopolazione ha moltiplicato i canali in cui si realizzano i beni. In questo modo, ha aperto strade alternative per la realizzazione e ha provocato, e provoca costantemente, una redistribuzione forzata del profitto commerciale tra la massa dei commercianti. Ciò è stato possibile perché ha offerto prezzi bassi, che beneficiano lo sviluppo continua dell’attività. Può anche operare da questa posizione più vantaggiosa non solo perché cerca di farsi mezzo di sussistenza, invece che di profitto, ma anche perché elude le imposte, dato che opera al margine delle regole che organizzano l’attività. Quindi, quell’attività è allo stesso tempo eccedentaria e irregolare.
Il produttore di un bene che contiene plusvalore ha bisogno di venderlo affinché la propria produzione abbia senso. La realizzazione del prodotto è l’evento massimo dell’attività. Poco gli interessa la condizione sociale del compratore e i fini che questo ha riservato per quel bene di consumo. Inoltre, se il compratore li acquista, in quantità ridotta, per rivenderle egli stesso, si tratterà in quel caso, per il fabbricante, di un piccolo commerciante. Dal punto di vista della funzione che questo venditore compie per ciascuna impresa particolare, il venditore ambulante non ha differenze con il piccolo commerciante; anche lui è produttore di un servizio, attraverso il quale elargisce beni ai consumatori.
Comunque, la situazione del venditore ambulante è specifica. Il piccolo commerciante ha il controllo definitivo (attraverso la proprietà) o, a volte, condizionale (attraverso l’affitto) del suo principale mezzo di produzione, ossia, le installazioni in cui opera; il venditore ambulante, invece, ha come principale mezzo di produzione la strada stessa, su cui non esercita nessun controllo. Lo si può privare della sua attività attraverso il semplice sgombero, al quale è esposto in qualsiasi momento. In realtà, è un proletario che lavora irregolarmente per il fabbricante, portando i beni al consumatore, ed è proprio questo che gli permette di ottenere un guadagno.
Questa figura appare in modo nitido quando il capitale commerciale immette i suoi beni nel mercato di strada, utilizzando i venditori ai quali da una parte determinata del profitto. La situazione non è differente per quelli che cercano di mettere su una massa di risorse per acquisire per se stessi i beni che in seguito venderanno. Il capitalista commerciale, quando vende all’ambulante riduce dai suoi prezzi una quantità corrispondente a ciò che darà al venditore che egli stesso mette sulla strada. Vengono modificati solo i termini d’accordo.
A questo punto merita una nota un fenomeno relativo. Il commercio di beni prodotti all’estero, che siano importati regolarmente o che siano di contrabbando - che è uno dei metodi con cui opera il capitale commerciale -, ha avuto effetti distruttivi su alcune industrie. Per quanto riguarda il Messico, tra le prime furono le industrie dell’abbigliamento, delle calzature e dei giocattoli, ma anche quelle degli elettrodomestici, delle strumentazioni, della bigiotteria, ecc. Adrián Reyes afferma che i messicani consumano all’anno più di 16 mila milioni di dollari in vestiti, dei quali circa 9500 passano nel “commercio informale”. Il numero di fabbriche di vestiti registrate era nel 1985 di 400; verso la metà di questo decennio, ne sono rimaste circa 120. Secondo i dati dello stesso autore, la situazione per il settore calzaturiero potrebbe essere addirittura più grave. Sembrerebbe, quindi, che il commercio ambulante possa essere responsabile della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, per cui la sovrappopolazione starebbe creando disoccupazione, moltiplicandosi essa stessa attraverso la propria attività. In realtà, non è così.
Bisognerà accettare che il fallimento delle imprese è un vento quotidiano del capitalismo. Se le condizioni in cui si produce sono scarse, il risultato più probabile della competizione è il fallimento. Però, dall’altro lato, è un fatto che il capitale commerciale è penetrato nei mercati di strada, cercando di beneficiare dei vantaggi relativi ai costi e ha ottenuto che gli spazi della sovrappopolazione appaiano anche come luoghi appropriati per la competizione capitalista. Quindi, se l’accumulazione determina la sovrappopolazione, questa tendenza, che in seguito appare rafforzata dalla competizione con i paesi che godono di maggiori vantaggi produttivi, è spinta oltre dal capitale che si avvale della sovrappopolazione in lotta per il mercato. La situazione peggiora ancora di più quando si tratta di beni introdotti illegalmente, problema generalizzato in America Latina46. Però questi sono problemi della competizione tra i capitali e della relazione tra gli Stati e, la sovrappopolazione, che non li ha creati, non può fare nulla per risolverli47.
Se i venditori che partecipano alla realizzazione dei beni per il capitale produttivo o commerciale nelle strade si limitassero all’apertura di canali alternativi per la realizzazione, la valorizzazione del capitale pirata non potrebbe esistere senza di essi. Il commercio irregolare è lo strumento appropriato per la realizzazione di questo tipo di produzione. Non è che le transazioni di queste merci siano totalmente estranee ad altre forme dell’organizzazione commerciale (l’impresa capitalista o il piccolo commercio), però normalmente questi agiscono in modo clandestino. Inoltre, a causa dei rischi nella vendita dei prodotti-pirata, i produttori tenderanno ad avvalersi dei settori più vulnerabili e meno protetti della sovrappopolazione, in cui le necessità sono pressanti e il livello di disperazione per il mancato lavoro è maggiore48. Però non è sempre questo il caso; l’operazione di alcuni prodotti richiede una base minima di risorse. Sono i proletari commerciali del capitale pirata.
Partendo da quanto detto finora, si può notare che la sovrappopolazione introduce delle particolarità nel processo reale dell’accumulazione. Il ciclo specifico di molti capitali smette di procedere nella sua forma pura, ossia, come un processo della semplice relazione tra capitale e lavoro salariato. Per questi capitali, l’accumulazione appare come un processo combinato di distinte relazioni, sotto il dominio del lavoro salariato, o se si vuole, della relazione di capitale.
Si può anche apprezzare che l’intervento della sovrappopolazione nell’accumulazione è lontana dal dar vita ad una combinazione idilliaca. Il grado massimo di contraddizione c’è quando viene inserita nella valorizzazione del capitale pirata. Non si tratta di un fenomeno semplice della competizione, ma della distorsione premeditata del ciclo di un capitale qualsiasi, a partire dalla quale di organizza una valorizzazione aggiuntiva. È l’introduzione del saccheggio contro un capitale come condizione necessaria per il funzionamento dell’altro. Al lato estremo, invece, l’unico caso in cui il capitale si vede beneficiato, è quello dell’organizzazione contadina e solo durante il periodo in cui è funzionale all’accumulazione. Negli altri momenti, la sovrappopolazione è un elemento della competizione tra i capitali e, in misura ridotta, il fattore che rafforza l’espansione del capitale.
Diremo che la sovrappopolazione che sembra vincolata, in un modo o nell’altro, a determinati processi di valorizzazione è, precisamente per questo, popolazione eccedente relativa. Sono produttori sussidiari di beni e servizi, proletari commerciali irregolari e in eccedenza o direttamente proletari del capitale pirata. In generale, si tratta di attività che non sono una “condizione di esistenza del modo di produzione capitalista”, anche se possono diventarlo per alcuni capitali.
5. Eccedenti oltre la valorizzazione
del capitale
Abbiamo visto che l’organizzazione non capitalista del lavoro può apparire vincolata all’accumulazione del capitale nonostante la sua forma. Non è corretto, fino a questo punto, quindi, sostenere che si tratti di “attività non capitaliste”49. L’evidenza di questo vincolo è schiacciante a tal punto che uno spostamento al lato estremo, ossia, verso l’idea che tutta l’organizzazione non capitalista del lavoro esista per servire allo sviluppo dell’economia dominante, può sembrare ragionevole. Alejandro Portes ha formulato una conclusione di questo tipo. Afferma:
“All’opposto della proposta dell’OIT-PREALC, il settore informale non è definito, da questa prospettiva, in termini dualistici come un insieme di attività marginali escluse dall’economie moderna, ma come parte integrante di quest’ultima”50.
L’autore si riferisce a ciò che si potrebbe chiamare “informalità popolare”, visto che lui pone la sua origine ad un “eccesso di offerta lavorativa”; proprio questo aspetto ci permette di distinguerla dall’informalità-illegalità, a cui molto spesso e in molte zone, ricorrono gli imprenditori capitalisti. Per l’autore questa informalità è “... parte dell’operazione normale del capitalismo”.
Comunque, le attività “escluse dall’economia moderna” esistono e il loro numero è davvero significativo, se intendiamo questa esclusione come l’assenza dei vincoli necessari sia per la produzione capitalista che per la valorizzazione di qualsiasi capitale.
Tra i venditori ambulanti è possibile distinguere, oltre a quelli già citati, altre figure:
1 quelli che vendono merci rubate;
2 quelli che raccolgono e vendono beni usati (vestiti, strumenti, mobili);
3 quelli che vendono prodotti che si trovano in natura, come la frutta, le piante medicinali, gli animali (conigli, serpenti, topi di campagna);
4 quelli che arrivano al mercato con prodotti dell’orto;
5 quelli che offrono servizi eventuali non indispensabili per le case;
6 quelli che vivono della carità della popolazione.
1. Si tratta di piccoli ladri. Se il furto viene commesso contro un’impresa capitalista e contro un privato, l’effetto economico immediato dell’atto è distinto. Per l’impresa è una perdita netta del capitale e può danneggiare i suoi livelli di occupazione; per il privato significa una distribuzione forzata dei propri profitti e un impoverimento sicuro. In entrambi i casi una terza persona può contare sui mezzi di vita.
Se il privato deve ricomprare il bene rubato (diciamo, il cerchione della macchina), il furto sembrerebbe favorire le industrie di cerchioni, visto che sarebbe necessario mettere in discussione il bene rubato, però non è questo il caso. Un altro privato dovrà soddisfare la stessa necessità nel mercato di strada, invece di farlo nel mercato capitalista. Se il prezzo che quest’ultimo paga gli permette qualche risparmio da dedicare ad altri acquisti, questo avviene solo se la persona che ha subito un furto deve privarsi di altri beni, a causa del furto. L’acquisto di beni rubati è un atto senza senso ai fini della valorizzazione.
Quanto detto prima dovrebbe essere evidente, ma non è sempre così. Un certo funzionalismo ad oltranza, potrebbe sostenere che il furto crea la necessità della difesa e quest’ultima, tra le altre cose, promuove l’industria di beni per la sicurezza (armi, antifurti). E anche quando non è il furto ciò che favorisce queste industrie, bisognerà riconoscere che comunque rafforza le loro necessità. Di fronte a tutto ciò, è necessario asserire che l’impresa che cerca di proteggersi investendo in sicurezza soffre un incremento dei costi; così come per il privato, che sarebbe costretto a rinunciare a parte dei suoi guadagni. Non è il ladro ciò che permette di finanziare queste spese. Anche nel caso in cui avesse bisogno di un’arma, perché in tal caso, a parte che si tratterebbe di un furto più redditizio, la otterrebbe quasi sicuramente con un furto o grazie ai guadagni avuto con i furti.
Da questa prospettiva, è totalmente legittimo affermare che, nella misura in cui il furto risponde alla disperazione della sovrappopolazione, il furto è una creazione della stessa accumulazione. Così si può sostenere che questi atti sono funzionali all’accumulazione.
2. I beni usati venduti per strada e nelle case dei quartieri popolari realizzano il loro valore di cambio in una transazione precedente. Avevano già perso il valore d’uso per il compratore originale. La loro materialità è stata modificata da un consumo parziale, però, in queste condizioni, essi conservano l’utilità con la quale erano stati concepiti, in modo che possano soddisfare le necessità di un terzo. Per questo vengono riabilitati come merci.
Le persone che li comprano (ad esempio, dei vestiti) cercano quasi sempre di risparmiare per poi intraprendere altri consumi (alimenti, ecc.), e quindi si potrebbe affermare che il commercio di beni usati stimola la produzione di altre aree. Salta immediatamente alla vista che tali risparmi sono stati possibile grazie a una mancata vendita dell’industria tessile.
Il prezzo di queste merci dipenderà dallo stato in cui si trovano e dalla domanda che soddisfano. A volte, il venditore vorrebbe che questi prezzi compensassero il lavoro di raccolta, però, in realtà, la sua dedizione è dovuta al fatto che non trova un’altra occupazione.
3. La stessa logica viene applicata per quelli che vendono i prodotti che si possono trovare in natura.
4. Il piccolo orto, ha smesso di compiere la sua funzione in termini di beni salario e materie prime a basso costo. Allo stesso tempo, la sua stessa logica ha portato alla disarticolazione dei mezzi necessari per la vita. Lo schema neoliberale, che ha stimolato la produttività dell’agricoltura capitalista e delle importazioni, ha accelerato questa decomposizione51. La permanenza del lavoratore nell’orto è dovuta alle risorse che è riuscito a trovare al di fuori di questo. Comunque continuano a produrre e si possono incontrare nei mercati di strada. I loro prezzi sono dettati da ciò che ottengono gli stessi beni prodotti in forma capitalista e che si trovano nello stesso mercato. Non vogliono cose in eccesso e, al contrario, regalano la maggior parte del loro lavoro. Le merci che vendono sono le più svariate: grano, frutta, uccelli, qualche animale, fiori, ecc.
Altre attività:
a tra i servizi offerti per la casa ci sono, il lustrascarpe, il lava-macchine, il giardiniere, l’arrotino, ecc., attività che le famiglie, normalmente, fanno da sole e il valore dei mezzi di lavoro è insignificante;
b poi ci sono quelli che promuovono l’appoggio pubblico, ad esempio, il lavavetri, il giocoliere, il mangiafuoco, il pagliaccio, il musicista, il mendicante...
6. E il lavoro domestico?
Con quanto detto precedentemente, crediamo di aver dimostrato che l’accumulazione crea non solo eccedente relativo della popolazione ma anche eccedente assoluto. Nonostante ciò, non avremmo potuto concludere la nostra digressione senza trattare il problema del lavoro domestico. Da un lato, esso rappresenta qualcosa di importante nella mappa lavorativa della regione, dall’altro, normalmente il fenomeno si risolve in modo non corretto, mettendo questo tipo di lavoro all’intero della categoria del “lavoro informale”. Questo trattamento ci dice che niente del suo significato economico contribuisce a rafforzare l’immagine distorta che si ha sul tema.
Come si sa, il lavoro domestico nelle famiglie ricopre un ampia serie di attività fisiche, intellettuali e culturali. Servizi come la sanità e l’educazione sono generalmente previsti dallo Stato, però vengono svolti anche in casa. Questo lavoro è necessario per la produzione e la riproduzione della forza lavoro. In quasi tutte le famiglie di lavoratori, si fa una divisione del lavoro; alla donna spetta il servizio domestico, anche se in parte a questo partecipano anche gli uomini e i bambini.
Il lavoro domestico fa parte del lavoro necessario per la riproduzione del corpo ed è inserito nel valore della forza lavoro. Il fatto che sia il lavoratore al di fuori della casa ad ottenere il guadagno necessario in cambio del “suo” lavoro e non in cambio della vendita di forza lavoro che deve essere prodotta quotidianamente, ci da l’idea che il servizio domestico manca di valore. In questo modo si nascondono le relazioni di dipendenza dell’uomo sulla donna, e si fanno vedere solo le relazioni unilaterali di dipendenza della donna sull’uomo, definito dalle pratiche economiche come l’unico che provvede. Quando a percepire il salario è la donna avverrà il contrario e sarà l’uomo a svolgere i lavori di casa. Si tratta di immagini che scompaiono per la persona che, oltre a ricevere un salario per sé, deve pagare il lavoro per chi cucina, pulisce casa, lava, stira, ecc.
La caduta del valore della forza lavoro, che la globalizzazione neoliberale ha fatto crescere, ha stimolato le famiglie che vivono di una remunerazione a modificare la propria strategia di riproduzione. Non solo la donna, ma anche i bambini, sono entrati nel mercato del lavoro alla ricerca di guadagni che gli permettano di completare le spese. Le famiglie meglio remunerate, in cui l’uomo e la donna sono occupati, sono dovuti ricorrere all’impiego di terzi per il lavoro domestico. Generalmente per la donna, si tratta di districarsi tra un’occupazione e l’altra, dal lavoro domestico a quello dell’impresa. Le risorse monetarie della famiglia cresceranno nella misura in cui le entrate ottenute nella nuova occupazione sono maggiori delle spese per il lavoro domestico. Per fini pratici, le remunerazioni della famiglia non sono equivalenti a ciò che paga il lavoratore, visto che deve trovare i soldi per i lavori in casa che non svolge la compagna.
Quindi, la relazione tra impiegata e datore di lavoro è suscettibile di tensione per la remunerazione. Però non esiste alcuna relazione dello sfruttamento implicato. Quindi il salario non rende l’impiegata una produttrice di plusvalore, come non rende il datore di lavoro un capitalista per il fatto di pagarla. Si tratta di dispute circa la distribuzione del guadagno familiare, non sulla distribuzione dell’eccedente.
Se il lavoro della donna serve all’accumulazione, così sarà anche per il lavoro dell’impiegata domestica, perché rende possibile che questa possa occuparsi di altre attività. La lavoratrice domestica fa parte anche della popolazione necessaria, anche se solo in modo parziale (il lavoro domestico va oltre la giornata lavorativa e ci sono compiti che non possono essere svolti dai lavoratori del servizio domestico, come la pulizia personale, l’educazione dei bambini, l’organizzazione dei doveri, ecc.). Il suo lavoro è parte del processo della produzione e della riproduzione della fonte di ricchezza.
Se la situazione viene osservata dal punto di vista della stessa lavoratrice domestica, è possibile trovare altri aspetti fondamentali. La riduzione del valore della forza lavoro ha danneggiato gravemente le famiglie con guadagni bassi, in cui “il padrone di casa” è sottomesso a condizioni di lavoro precarie. Molte donne si sono dovute mobilitare, cercando di inserirsi nel lavoro domestico. Anche qui si tratta di ottenere una remunerazione che serva a compensare le entrate familiari. La differenza è che queste donne non possono assolutamente tralasciare i propri doveri domestici. Lo sviluppo tecnologico dei mezzi di questo lavoro (lavatrici automatiche, forni a microonde, strumenti per la pulizia, ecc.) hanno sicuramente alleggerito il carico. Nonostante ciò, il lavoro si moltiplica e quindi anche la partecipazione dell’esercito attivo, se esso contribuisce alla produzione di una forza lavoro occupata in attività che sostengono la valorizzazione.
Abbiamo presentato il lavoratore sia quando soddisfa direttamente i processi di accumulazione in corso, sia quando lo fa in modo indiretto, anche se l’obiettivo della propria attività non è la produzione di plusvalore. Il primo fa parte della popolazione necessaria; il secondo, della sovrappopolazione. La stessa divisione è valida per il lavoro domestico (e per l’occupazione domestica, se è il caso), perché produce e riproduce la forza lavoro. Ossia, se contribuisce alla produzione delle forza lavoro necessaria, la popolazione che si dedica a questi compiti forma anche parte della popolazione necessaria. Sarà un’attività in eccesso, se è in eccesso la popolazione che ne beneficia. Quindi, se il capitale decreta la ridondanza assoluta per un settore di lavoratori, ugualmente, avverrà con il lavoro domestico.
7. Per concludere
L’abbondante sovra-offerta lavorativa degli ultimi decenni, che è il risultato dei processi di riorientamento economico della regione, ha attualizzato una questione che, nel passato, aveva già avuto un ruolo importante nelle scienze sociali. Si tratta di un fenomeno che non ha creato la globalizzazione, ma che lo ha comunque aggravato, moltiplicando le sue espressioni. La discussione si potrebbe concentrare sulle sue forme di manifestazione, solo a condizione che il problema delle cause profonde del fenomeno vengano considerate ragionevolmente risolte. Crediamo di aver dimostrato che questa condizione non soddisfa e abbiamo cercato di portare altri elementi importanti per la discussione.
Prendiamo come punto di partenza la stessa osservazione che ha dato luogo ai lavori di A. Quijano e J. Nun, ossia, la presenza di una sovrappopolazione che si estende oltre il livello richiesto dall’espansione del capitale e che non può essere spiegata attraverso il ricorso alla teoria dell’esercito di riserva. Bisogna cercare nel movimento dell’accumulazione per scoprire le cause ultime del fenomeno.
Se la teoria dell’esercito di riserva non spiega il fenomeno, è perché è inserita nello sforzo di dar conto del movimento tendenziale del modo capitalista di produzione. Nel nostro caso, ciò che cerchiamo di fare è di dar conto del suo percorso storico concreto, in cui la mobilitazione di contro-tendenza può avere, e di fatto così è successo, effetti di grande portata sull’organizzazione stessa del capitale e, quindi, sul movimento delle società. È stato in risposta alla propensione di caduta dei tassi di profitto (risposta che include i processi quali l’esportazione di capitali, la formazione di monopoli, la ripartizione delle colonie) che è nata una forma particolare di organizzazione del capitalismo a livello mondiale e una strutturazione delle relazioni del capitale. Il movimento delle distinte modalità che adotta questa relazione non si può spiegare attraverso l’uso diretto delle teorie generali. Serve una teoria intermedia, di approssimazione e deve essere costruita non a partire dalla relazione di capitale nella sua forma più pura, ma dalla modalità specifica che ha acquisito.
Categorie come la sovrappopolazione non hanno potere esplicativo; sono solo delle risorse per designare fenomeni concreti, che devono essere spiegati. La chiave per produrre queste spiegazioni sta nell’organizzazione particolare della relazione fondamentale dei paesi sottosviluppati che, a loro volta, nel contesto dell’imperialismo, si sviluppano in stretta relazione con i paesi sviluppati. Questo è il percorso che tracciamo per affrontare il problema della sovra offerta lavorativa. In un altro modo non sarebbe stato possibile stabilire una relazione ragionata tra la teoria generale e la realtà.
Riconoscere l’esistenza di attività che esistono senza il contatto con l’accumulazione sembrerebbe un indizio delle inclinazioni dualistiche. Si tratta, comunque, di fenomeni distinti. Dobbiamo dire che il dualismo ha come base una verità assoluta: tutte le grandi transizioni contengono elementi di dualità a livello dei modi di produzione. Le nuove forme non irrompono nel vuoto e vengono forzate ad una coesistenza conflittuale con antiche forme sociali. La presenza di queste ultime è l’espressione della transizione. Il dualismo è transitorio e la transizione è la disarticolazione del dualismo. Tutto ciò è corretto dal punto di vista dell’approssimazione astratta. Il problema per noi è che l’economia dominante continua a generare attività la cui organizzazione interna non è capitalista. Le forme non capitaliste si trovano lì, non perché il capitalismo non le risolve ma perché le sta creando proprio il capitalismo.
La transizione a cui era necessario rivolgere l’attenzione era quella della relazione del capitale. Dalla sua analisi si capisce che il capitalismo è stanco poiché ha dato vita, nella regione, alla divisione tra lavoro generale e lavoro immediato. Operare nello sviluppo delle forze produttive generato all’estero, non negava la sua condizione di produzione capitalista, però lo condannava a svilupparsi come capitalismo sottosviluppato. Una volta stabilita questa conclusione, la spiegazione della sua scarsa capacità di creare posti di lavoro, o ciò che ora si percepisce come potere di creare disoccupazione, non dovrebbe presentare ulteriori difficoltà.
Niente di quanto detto precedentemente nega, e provarlo sarebbe assurdo, la presenza di nuclei della popolazione latinoamericana nei modi di vita differenti dal capitalismo. Le cause che ci informano dell’esistenza di una sovrappopolazione, sono valide quando si tratta di dar conto dello scarso potere del capitalismo di sradicare questi modi di vita. Quindi appaiono come un’ulteriore dimostrazione del fallimento della transizione dualistica.
Di tratta di eredità di un passato precapitalista e non sarebbe corretto inserirle nelle categorie vincolate alla sovrappopolazione, visto che non hanno origine nell’accumulazione. Non abbiamo fatto riferimento alla popolazione indigena, che si trova ancora di più in condizioni di povertà, emarginazione, esclusione, vulnerabilità. Però, queste forme sociali non sono una condizione propria della società sottosviluppata.
Si calcola che nella regione vivano tra i 33 e i 40 milioni di indigeni. La maggior parte d loro si trova in Perù, Messico, Guatemala, Bolivia ed Ecuador. Il loro peso relativo all’interno dei paesi è maggiore in Bolivia, Guatemala, Perù ed Ecuador52. Secondo il CEPAL esistono 671 popoli indigeni riconosciuti dagli Stati53.
Le popolazioni indigene costituiscono spazi simbolici ed economici specifici. Cercano di vivere in armonia con la natura e si sottomettono alle leggi come se fossero dettate per loro. Vivono dei boschi, del mare, dei fiumi e della terra. La caccia, la pesca, la raccolta di frutti, le coltivazioni organiche, sono attività spontanee della terra. La natura vive con loro. Gli aspetti ecologici del loro territorio influiscono sulla formazione e sul sostentamento delle loro culture e delle loro identità. Il rinnovamento culturale ha come obiettivo primario la protezione della natura, che passa di generazione in generazione. I frutti della natura possono essere solo oggetto di appropriazione collettiva e il solo metodo per ottenerli è quello della cooperazione. Quindi, i sentimenti di uguaglianza sono spontanei. I dirigenti non hanno alcun motivo per porsi in cima al resto della comunità.
Si tratta di un ordine sociale contrario a quello del capitalismo, il quale, anche se non ha potuto disarticolarlo, lo ha sicuramente danneggiato, soprattutto attraverso il saccheggio delle terre e la distruzione dell’ambiente. Come contropartita, offre agli indigeni cacciati, case insieme alla sovrappopolazione o occupazioni come il lavoro domestico. A volte per questo, preferiscono sognare il passato mentre ricordano il futuro.
Gli indigeni costituiscono il bastione più solido della lotta per la difesa dell’ambiente. Sono essenziali per la diversità culturale. Però dobbiamo dire che il capitalismo non verrà sconfitto da queste considerazioni. Se non si è ancora dimostrato più aggressivo è a causa della sua debolezza e, in termini di offerta lavorativa, non ha interesse a far proseguire un mercato lavorativo sovraffollato. Gli indigeni hanno compreso che la difesa dei propri modi di vita è intimamente vincolata all’organizzazione e alla lotta. Sono condizioni che alimentano la speranza.
Gli sviluppi che abbiamo presentato non contengono una promessa positiva per il futuro della sovrappopolazione, in quanto abbiamo asserito che continuerà a crescere. È l’evoluzione che la dinamica dello sviluppo e del capitalismo suggeriscono nell’attualità. Però questo non significa negare che la politica mitighi queste possibilità. Una redistribuzione delle entrate orientata a ridurre le attuali disuguaglianze sociali, la negoziazione di un nuovo trattamento con i paesi sviluppati, una riattivazione dei mercati interni, potrebbero portare a questo. In un contesto in cui le disuguaglianze e il malcontento sociale rendono difficile la governabilità, sono una necessità. Non è difficile scoprire i limiti di queste politiche: sarebbero orientate non a raggiungere la soppressione ma a garantire la continuità di un sistema che definisce la disuguaglianza e lo sfruttamento come i fondamenti dell’esistenza e dell’espansione.
1. Queste proposte generali sullo sviluppo-sottosviluppo e imperialismo, vengono esposte dettagliatamente in Víctor Figueroa, Reinterpretando el subdesarrollo. Trabajo general, clase y fuerza productiva en América Latina, Siglo XXI, Città del Messico, 1986.
2. Ibid.
3. Le maquiladoras sono fabbriche che lavorano con contratti di subappalto. Il termine maquila viene dal verbo spagnolo maquilar che significa, per il mugnaio, prendere per sé una parte della farina macinata in cambio dell’utilizzo del mulino concesso al contadino [N.d.T.].
4. UNCTAD, United Nations Conference on Trade and Development [N.d.T.].
5. Jörg Mayer, Arunas Butkevicius e Ali Kadri, “Dynamic Products in World Exports”, UNCTAD, in Discussion Papers, n. 59, maggio 2002, in http://www.unctad.org.
6. ALyC, América Latina y el Caribe [N.d.T.].
7. CEPAL, Comisión Económica para América Latina y el Caribe [N.d.T.].
8. CEPAL, Estudio económico de América Latina y el Caribe 2005-2006, in http://eclac.org.
9. La partecipazione latinoamericana è di appena il 4%.
10. CEPAL, Panorama..., 2001-2002, op. cit. p. 97, in http://www.eclac.org.
11. Ibid. p. 109.
12. Programma di lavoro temporaneo istituito nel 1942 per soddisfare il fabbisogno di manodopera per l’agricoltura conseguente all’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale [N.d.T.].
13. CELADE, “Desplazamientos, riesgos y oportunidades de buscar nuevos rumbos”, in Migración Internacional N. 3, in http://www.eclac.cl.
14. Adela Pellegrino, op. cit.
15. Una idea di questo sviluppo la si può avere leggendo le cifre riportate da Angus Maddison (Problemas del crecimiento económico de las naciones, Ariel 1996, México), con i dati più recenti del OCDE.
16. OECD, Employment Outlook 2003.
17. In http://news.bbc.co.uk/1/hi/business/1133980.stm.
18. OECD, Employment Outlook, p. 105.
19. Ibid. p. 20.
20. Ibid.
21. U.S. Census Bereau, Housing and Houshold Economic Statatistics Division, in http://www.census.gov/hhes/www/poverty/histpov/histpov.2.html.
22. United States Conference of Catholic Bishops, in http://www.usccb.org/cchd/povertyusa/projects.shtml.
23. In una nota informativa dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro si può leggere: “In alcuni paesi il commercio più libero ha rimpiazzato o ridotto l’industria e l’agricultura domestica, dislocando lavoratori, mentre i Programas de Ajuste Estructural (PAEs, Programmi di Aggiustamento Strutturale) hanno risparmiato sulla spesa statale per la riduzione della disoccupazione. In alcuni paesi la creazione di impieghi ottenuti grazie ai PAEs è stata al di sotto della crescita del numero di disoccupati, e un risultato netto di queste perdite di occupazione è il fatto che un numero assai grande di persone soffre della carenza di opportunità di lavoro decente nei propri paesi (“ILO, “Towards a Fair Deal for Migrant Workers in the Global Economy”, in Report 92nd Session, 2004, in http://www.ilo.org/public).
24. Ibid.
25. Ed ancora: “Il mio messaggio a questi lavoratori e “campesinos” è: voi avete un amico negli Stati Uniti d’America. Abbiamo a cuore la vostra situazione (...) I lavoratori poveri dell’America Latina hanno bisogno di cambiare e gli Stati Uniti sono coinvolti in questo cambio. Sta nei nostri interessi nazionali (...) La giustizia sociale vuole che le necessità primarie vengano soddisfatte” (La Jornada, 6 marzo 2007).
26. Anche alcuni organismi internazionali hanno dovuto tenere conto di questa funzione della migrazione. Così si può leggere nel testo del CELADE: “Negli Stati Uniti, l’immigrazione di latinoamericani pare aver favorito il lavoro flessibile richiesto per assicurare la competività della propria economia” (“La inmigración internacional y el desarrollo en las Américas”, in Serie Seminarios y Conferencias, 2002, in http://www.eclac.cl).
27. Jerónimo Cortina, Rodolfo de la Garza, Enrique Ochoa-Reza, “Remesas: Límites al optimismo”, in Foreign Affaire en Español 5, n. 3, luglio-settembre, 2005), in http://www.columbia.edu/ jc2062/Remesas%20Limites%20al%20Optimismo.pdf.
28. Latin American and Caribbean Center, Florida International University, Programa de Remesas, in http://www.programaderemesas.org/brief/sp/brief_esp.html.
29. CEPAL, Migración internacional, derechos humanos y desarrollo, Naciones Unidas, Santiago de Chile, Agosto de 2006.
30. Si è stimato che nell’anno 2000 le rimesse inviate dall’estero (Asia, Europa e Nordamerica) hanno rappresentato il 4.9% delle rimesse ricevute. Nel 2005 questa percentuale è sicuramente diminuita. Anne Harrison et Al, “Working Abroad: the benefits flowing from nationals working in other economies”, in Round Table on Sustenaible Development, OCDE, novembre 2003.
31. Eclac, Statistical Yearbook for Latin American and the Caribbean 2004, in http://www.eclac.cl.
32. CEPAL, in http://www.eclac.cl/denoticias/paginas/6/26727/Mexico.xls.
33. K. Marx, El Capital, t. I, vol. 3, op. cit., p. 793.
34. Queste differenze nel valore della forza lavoro aprono varie alternative all’analisi della riproduzione internazionale delle famiglie. Per esempio, permettono che il migrante provveda ad un maggior consumo della sua famiglia nel luogo di origini, pur destinando una proporzione minore del suo guadagno rispetto a quella che l’operaio nello stesso luogo destina alla propria. Ancora, poiché nella determinazione del valore della forza lavoro intervengono fattori culturali, il migrante può far crescere la disponibilità delle sue entrate per la sua famiglia se continuerà a consumare laddove è come se stesse nella sua comunità di origine. Comunque non ci occuperemo qui di questo argomento che richiede una ricerca ed uno studio particolari.
35. In http://www.webdehogar.com/noticias/0406/22171926.htm.
36. Pedro Farre, Avvocato dell’Ufficio per la Difesa della Proprietà Intellettuale, in http://www.elpais.com/articulo/portada/imperio/piratas/elpdompor/20040704/elpdmgpor_1/tes.
37. In http://www.terra.com.co/actualidad/economia/01-03-2004/nota145001.html.
38. In http://www.filmica.com/david_bravo/archivos/003382.html.
39. In http://www.librosperuanos.com/evolucion/evolucion.html.
40. In http://portal.unesco.org/es/ev.php-URL_ID=30515&URL_DO=DO_TPIC&URL_SECTION=201.html.
41. In http://es.wikipedia.org/wiki/Tepito.
42. Rimandiamo al nostro lavoro dal titolo: “América Latina: descomposición y persistencia de lo campesino”, in Problemas del Desarrollo. Revista Latinoamericana de Economía, vol. n. 142, Luglio-Settembre 2005, UNAM, México.
43. K. Marx, El Capital, op. cit., tomo III, vol. 6, p. 385 (nota a pie’ di pagina). Nicos Poulantzas sostiene che, a parte il carattere improduttivo del loro lavoro (che certamente è assai discutibile) questi lavoratori formano parte di una classe distinta dai lavoratori produttivi: la nuova piccola borghesia (Las clases sociales en el capitalismo actual, Siglo XXI, México, 1985). Senza dubbio, da un lato si tratta di lavoratori che non possiedono altro che la loro forza lavoro, che vendono come mercanzia. Dall’altro, allo stesso modo che la mercanzia è unità di valore d’uso e valore di cambio, il lavoro di produzione reclama il lavoro di realizzazione. O, come dice K. Marx, il “...processo ciclico del capitale è (...) unità di circolazione e produzione, include entrambi” (El Capital, op. cit., tomo II, vol. 4. p. 66). Al capitalista non serve produrre se non vende; il lavoro di realizzazione va incluso in quello di produzione. L’operaio della realizzazione è una estensione dell’operaio della produzione. Che il capitale commerciale appaia separato non modifica assolutamente la natura della questione.
44. In http://www.esmas.com/finanzaspersonales/575582.html
45. Steffi Furuken Hernández e Rosa Elvira García Gálvez, “Mercado negro: ‘comercio informal’”. In Perú i “conglomerati” riuniscono più di 2000 commercianti; le “paraditas” tra 10 e 2000 (In http://www.monografias.com/trabajos29/microeconomia/microeconomia.shtml).
46. Di fatto, il traffico illegale adotta varie forme: a) dichiarazione di prezzi inferiori al reale; b) dichiarazione di quantità di mercanzie inferiori a quelle realmente introdotte; c) ingresso di mercanze proibite; d) ingresso di mercanzie senza che esse vengano dichiarate, ed altro ancora. Dai suoi esordi la storia del capitale commerciale è piena di episodi di violenza e la stessa epoca attuale è piena di azioni illegali.
47. Di fatto nella regione c’è una intensa e variegata attività al riguardo. La Bolivia va alla ricerca di accordi con l’Argentina e il Cile per combattere introduzione di mercanzie illegali; il Messico insiste nel discutere il tema con la Cina; il Brasile decide di costruire un muro per coprire una parte della frontiera con il Paraguay dove il traffico è molto attivo; il Centroamerica si da una legislazione comune per contrastare il contrabbando, ecc. Dal punto di vista interno, si sta pensando ad un qualche meccanismo per castigare il consumatore.
48. Il Centro Mexicano de Protección y Fomento de los Derechos de Autor, grazie alla sua direttrice, María Fernanda Mendoza, definisce così coloro che vendono libri-pirata: “... bambini, donne, anziani e giovani indigeni, che per ignoranza, la maggior parte delle volte, si arruolano in un’ampia rete che distribuisce i materiali apocrifi” (Página 24, 13 aprile 2007).
49. Questo è il modo con il quale Víctor E. Tokman definisce l’ “economia informale” (“El sector informal: quince años después”, in El Trimestre Económico, vol. LIV, n. 15, 1987, Città del Messico).
50. Alejandro Portes, En torno a la informalidad: ensayos sobre la teoría y la medición de la economía no regulada, Flacso-Porrúa, 1995, Città del Messico, p. 123.
51. Rimandiamo ancora al nostro lavoro “América Latina: Descomposición y persistencia...”, già citato.
52. Martin Hopenhayn e Álvaro Bello, “Discriminación étnico-racial y xenofobia en América Latina y el Caribe”, in http://www.eclac.cl/publicaciones/xml/2/7022/lcl1546e_pdf.
53. CEPAL, Pueblos indígenas en América Latina. Nuevas obligaciones para la democracia del siglo XXI, in http://www-eclac.cl.