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Competizione, cooperazione collettiva conscia e capacità: l’economia del socialismo per la transizione

AL CAMPBELL

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1. Introduzione

Il presente articolo si occupa dell’economia politica della transizione al socialismo. Una gran parte del quadro entro cui considerare la transizione sarà determinato da due considerazioni logiche. Primo, la natura della transizione deve essere in parte determinata da due punti finali: l’economia politica del capitalismo e l’economia politica del socialismo. Tra l’altro, deve essere osservato che mentre ad un alto livello di astrazione vi è solo un capitalismo - un sistema il cui fine è l’ottenimento di profitti e la accumulazione del capitale, cosa che viene fatta specialmente attraverso lo sfruttamento del lavoro in un sistema di produzione e distribuzione organizzato in termini di mercato - concretamente vi sono molti capitalismi diversi. I capitalismi svedese, tedesco, francese, americano, giapponese differiscono grandemente nelle loro forme specifiche. In maniera simile, mentre vi sono caratteristiche che definiscono la economia politica del socialismo anche questo ultimo varierà nelle sue possibili e reali forme specifiche. Perciò mentre questo articolo rimarrà ad un livello di astrazione concernente la transizione nella quale tali concrete differenze non importano, bisogna capire che ciò che viene discusso qui è inteso solo come un quadro generale, e non è un manuale. Le persone impegnate nella trasformazione in un dato paese dovranno, per determinare la natura ed i tempi delle politiche specifiche appropriate per il loro particolare processo, tenere conto pienamente sia delle specificità del capitalismo concreto che stanno cercando di superare, sia delle determinanti del socialismo concreto che essi hanno collettivamente deciso di costruire. La seconda considerazione logica concerne la natura della economia politica del socialismo. Diversamente dal punto di partenza capitalista, questa non esiste al momento e deve essere specificata. Mentre siamo lontani da un completo accordo sulle caratteristiche dell’economia politica del socialismo, specialmente quando si va a livelli via via più concreti, vi è un alto grado di accordo sulle caratteristiche astratte centrali dell’economia politica del socialismo (che, di nuovo, è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per questo articolo)1. Il presente articolo procede come segue. La sezione II discute l’economia politica del capitalismo per stabilire un punto finale della transizione, ed in particolare per stabilire quello che si deve trascendere. Si assumerà che la maggior parte dei lettori di questo articolo abbiano familiarità con i concetti generali dell’economia politica del capitalismo, e dunque spenderò solo un paragrafo sulla sua natura generale. Quello che presenterò più diffusamente è una introduzione alla discussione degli effetti della istituzione centrale del capitalismo, il mercato, sui partecipanti. Mentre i difensori di una transizione al socialismo sono ragionevolmente d’accordo sugli effetti dei mercati nel capitalismo, vi è una grande divisione con chi propone il socialismo basandosi sulla desiderabilità e persino la possibilità di un “socialismo di mercato”. Io presenterò la discussione dei mercati nel capitalismo perché argomenterò poi che è il comportamento indotto nei partecipanti dai mercati e dalla competizione che oggi è la chiave per inibire l’inizio della transizione al socialismo. Nella sezione III discuterò l’altro punto finale della transizione, l’economia politica del socialismo, in particolare contrapponendola con quella del capitalismo. Avendo stabilito questi due punti finali, sarò in grado di dare una visione generale della economia politica della transizione al socialismo nella sezione IV. Nella sezione V metterò brevemente in evidenza il problema per la transizione al socialismo che emerge dalle considerazioni delle sezioni precedenti, che credo sia la difficoltà centrale per l’inizio della transizione oggi. Infine, nelle sezioni VI e VII mi riferirò brevemente ai due casi studio dei processi, uno sul posto di lavoro ed uno nella “società civile”, che io credo costituiscano il tipo di attività umana che comincerà a rompere le barriere presentate dal problema.

2. L’Economia Politica del Capitalismo Le procedure che formano l’economia politica del capitalismo o di qualsiasi altro sistema politico, economico e sociale sono radicate nell’obiettivo centrale, dal quale dipendono. Per il capitalismo tale obiettivo è la ricerca del profitto e l’accumulazione del capitale. La fonte dei profitti e del capitale accumulato è lo sfruttamento del lavoro, che è principalmente ottenuto attraverso il sistema di mercato. In linea con la preoccupazione di questo articolo e cioè la transizione al socialismo, si evidenziani gli effetti del mercato sui lavoratori. Si tratta di una questione centrale per una transizione che avvenga nella realtà. In un breve articolo Bowles fa la seguente osservazione di base su come i mercati formino i partecipanti: “Primo, i mercati sono istituzioni a carattere culturale. Come hanno da tempo fatto notare gli antropologi, il come noi regoliamo i nostri scambi e coordiniamo le nostre varie attività economiche influenza il tipo di persone che diventiamo... I mercati potrebbero essere considerati strutture sociali che incoraggiano tipi specifici di sviluppo personale e ne penalizzano altri. Tralasciando importanti aspetti - i sentimenti di solidarietà con gli altri, l’abilità di empatia, la capacità di comunicazione complessa e per le decisioni collettive, per esempio - si ritiene che i mercati possano operare in assenza di tali aspetti. Ma nel lungo periodo i mercati contribuiscono alla erosione di tali tratti umani e perfino alla loro scomparsa. Ciò che sembra un ostinato adattamento alla specificità della natura umana potrebbe essere infatti parte del problema.”2

Con una frase particolarmente espressiva Stephen J. Gould, che ha passato la vita argomentando contro il concetto che il comportamento umano sia predefinito entro di noi, determinato cioè prima della socializzazione culturale (insieme con vari altri miti conservatori che si presumono radicati nella biologia), scrive: “Il nostro patrimonio genetico ci permette una vasta gamma di comportamenti - da Ebenezer Scrooge prima a Ebenezer Scrooge dopo... L’educazione la cultura, la classe, la situazione sociale, e tutte le cose intangibili che chiamiamo ‘libera volontà’, determinano come noi restringiamo i nostri comportamenti dalla vasta gamma - dall’altruismo estremo all’egoismo estremo - che i nostri geni ci permettono”.3

Un aspetto particolare dei mercati che sarà importante per questo articolo è la competizione. Negli anni ’70 ed ’80, mentre il fondamentalismo di mercato devastava la teoria economica mainstream, riuscì anche a influenzare la teoria socialista portando l’idea di “socialismo di mercato” dalla sua posizione di argomento marginale di discussione per economisti sovietici e del blocco orientale, ad una considerazione di problema centrale per dibattiti tra socialisti nel mondo intero. Messa semplicemente, la competizione ed i mercati erano posti come antidoto alla pianificazione centralizzata, che era stata dichiarata inevitabilmente burocratica ed incapace di qualsiasi efficienza. Ne discuteremo più in là. Lasciando da parte la questione che non vi è prova conclusiva che la competizione accresca necessariamente l’efficienza, la nostra preoccupazione riguardo alla questione della transizione al socialismo riguarda altri effetti che vengono in genere accettati come generati dalla competizione. In primo luogo, vi è il sentimento di animosità tra competitori che previene lo sviluppo della solidarietà. Robert Owen, ricordando la sua infanzia, scrisse: “Ho spesso riflettuto su come [contesti competitivi per determinare chi sia meglio in qualcosa, in questo caso tra bambini, AC] siano come principio, e quanto siano ingiusti in pratica. Un esempio mi fece una grande impressione. Qualcuno scommise che io potevo scrivere meglio di mio fratello maggiore, che aveva due anni di più; e in un giudizio formale, per il quale furono nominati dei giudici, si decise che io scrivevo meglio, sebbene per quanto mi riguardasse mi sembrava che mio fratello fosse bravo quanto me. Da quel giorno a me pare che mio fratello non abbia più un effetto nei miei confronti forte come quello che aveva prima di una tale ingiusta competizione”.4

Secondo, gli avvocati lodano sempre ciò che la competizione fa per il vincitore, come lo spinge verso nuovi traguardi e come gli dia un senso della propria capacità di influenzare il mondo. Essi non considerano mai, tuttavia, cosa faccia ai perdenti, che secondo la stessa logica dovrebbero fare esattamente lo stesso - ed in una competizione di solito vi sono molti più perdenti che vincitori. B.F.Skinner ha discusso questa questione varie volte nella sua visione di una buona società, Walden II. “Noi evitiamo con cura qualsiasi gioia in un trionfo personale che significhi il fallimento personale di qualcun altro... Noi non usiamo il motivo della dominazione, perché pensiamo sempre come gruppo. Potremmo motivare vari geni in tale maniera... ma sacrificheremmo la felicità di tutti gli altri. Trionfo sulla natura e su sé stessi sì. Ma sugli altri, mai”. Quando qualcuno ottiene un posto al sole, altri si trovano nel buio e nell’ombra... Ci opponiamo alla competizione personale... non diamo mai una speciale approvazione ad un membro particolare. Vi deve essere qualche altra fonte di soddisfazione nel lavoro o gioco di ciascuno, oppure consideriamo un risultato come piuttosto comune. Un trionfo su di un altro uomo non è mai un atto lodevole. La nostra decisione di eliminare l’ascesa personale è nata abbastanza naturalmente dal fatto che pensavamo al gruppo. Non riuscivamo a vedere come il gruppo potesse guadagnare dalla gloria personale.”5

Un eccellente libro di Kohn sulla competizione sviluppa i punti sopra esposti in maggiore profondità. Primo, Kohn smonta i miti positivi sulla competizione: la sua inevitabilità dovuta alla natura umana, la sua produttività, il suo contributo essenziale al godersi il gioco. Secondo, e più importante per noi, Kohn si diffonde sugli effetti anti-cooperativi ed anti-solidarietà ed indica i grandi benefici nel rigettarla. Infine, egli considera il cambiamento cruciale in come ci rapportiamo al mondo che sarebbe necessario per rigettare la competizione, e che discuteremo più in là. “Ma l’alternativa è anche la ragione stessa per opporsi alla competizione in primo luogo. È perché valutiamo le relazioni umane, tra le altre cose, che troviamo la competizione problematica. Il motivo per opporsi alla competizione e la maniera di rimpiazzarla sono identici: la cooperazione. Abbracciare questa prospettiva vuol dire andare oltre il nostro solito quadro di riferimento individualistico. Anche se mi sembra appropriato competere - tralasciando per il momento il prezzo che pago per farlo - devo chiedere se è nel nostro interesse collettivo continuare a competere... Se non lo è, allora dobbiamo non solo pensare ma anche agire come gruppo. Rimpiazzare la competizione strutturale con la cooperazione richiede una azione collettiva, e l’azione collettiva richiede educazione ed organizzazione... Un individuo potrebbe in qualche modo perdere rifiutando di prendere parte ad una lotta mutuamente distruttiva, ma un gruppo di persone... può unire le forze. Aiutando gli altri a vedere le terribili conseguenze di un sistema che predica il successo di qualcuno a spese di un altro possiamo agire insieme per cambiare il sistema”.6

Argomenterò di seguito che l’auto-determinazione (collettiva), l’abilità, nella famosa frase, di essere e vedere sé stessi come il soggetto della storia e non come l’oggetto, è insieme uno dei necessari componenti del socialismo, e che la sua assenza nella maggioranza della umanità contemporanea è anche l’impedimento chiave oggi per una transizione al socialismo. I conservatori opinano che le persone che sono pre-determinate a seguire non possono essere leader competenti, e quindi la visione di una società che si auto-governa ed è egualitaria, non solo in beni materiali ma anche intermini di potere, è una chimera. Due lavori in particolare nella letteratura si occupano di questo tema. Albert ed Hahnel scrivono: “1. Il lavoro produce qualità umane... se il lavoro è noioso e frustrante uccide le capacità e la stima di sé. Se il lavoro è complesso e eccitante, produce capacità e auto-stima... 2. Le qualità umane che il lavoro produce a loro volta influenzano le responsabilità che possiamo avere e che livello di partecipazione nelle decisioni possiamo avere... Se alcuni di noi fanno un certo tipo di lavoro (system engineer) ed altri ne fanno un altro (il receptionist), e se i due producono tipi di conoscenze, capacità e disposizioni totalmente diversi, le persone che fanno lavori diversi avranno differenti probabilità di avanzare nelle gerarchie. Di fatto, quando i lavoratori non ricevono le varie abilità ed inclinazioni dalla scuola o dalla socializzazione, la sola possibilità rimane ottenerle dall’“acculturamento sul posto di lavoro”. 3. Qualsiasi economia che produca divisioni di classe deve differenziare tra nuovi lavoratori costruendo fiducia e capacità in alcuni e generando apatia in altri. In contrasto, qualsiasi economia che aspiri ad essere senza classi deve dare il benvenuto ai nuovi lavoratori in posti che sviluppino fiducia e capacità in tutti. Supponiamo che una forza lavoro capace e giovane entri in un’industria solo per esercitare poca influenza su di un lavoro noioso. Senza riguardo per le loro abilità iniziali, supponiamo che solo una piccola parte ottenga promozioni che offrano più conoscenza, lavoro più libero, ed un maggior tempo per lo studio. Possiamo tranquillamente predire che ogni volta che questi pochi fanno un passo avanti in termini di promozione, le loro possibilità di ricadere indietro diminuiscono. Ogni passo in avanti incrementa la fiducia e la conoscenza. In contrasto, i lavoratori lasciati sotto continueranno ad eseguire ordini e molti dei loro potenziali risulteranno iutilizzati per mancanza di pratica.”7

Prima di passare ad altra analisi profonda di questo problema, vale la pena notare brevemente che il grande riferimento dei conservatori, Adam Smith8, è stato molto chiaro anche su questo tema. “La differenza di talenti naturali in uomini diversi è in realtà molto meno di quanto noi ci rendiamo conto; ed il genio molto diverso che sembra distinguere uomini di diverse professioni una volta cresciuti nella maturità, molte volte non è tanto la causa quanto l’effetto della divisione del lavoro. La differenza tra il i tipi più diversi, un filosofo ed un facchino di strada, per esempio, sembra sorgere non tanto dalla natura ma dalle abitudini, gli usi e l’istruzione. Quando arrivarono nel mondo, e per i primi sei o otto anni della propria esistenza, né i loro parenti né i loro amici avrebbero potuto notare alcuna differenza notevole. Circa a tale età, o subito dopo, vi è stata la divisione in diverse occupazioni. La differenza di talenti si comincia allora a notare, e si allarga in gradi, fino a che la vanità del filosofo rifiuta di vedere alcuna somiglianza.”9

Devine ha dedicato il capitolo 7, “The Abolition of the Social Division of Labor” a questo tema di come il lavoro capitalista inibisca il pieno sviluppo umano dei lavoratori. Egli riconosce di seguire parecchio il lavoro di Bahro in tale capitolo, ma io proverò ove possibile ad evitare il linguaggio particolare che Bahro ha sviluppato per presentare i propri argomenti.10 Primo, la divisione del lavoro è certamente un aspetto universale della vita economica moderna. Da molto prima del ben noto esempio di Adam Smith della fabbrica di spilli, la divisione del lavoro è stata compresa come il centro di elevati livelli di produttività del lavoro. Nessuna teoria socialista moderna propone di eliminarla. Come discusso da Albert e Hahnel, Devine è piuttosto preso dall’alterarla radicalmente. Egli affronta la questione in un quadro differente e più articolato di quello usato da Albert e Hahnel, ma vedremo che molte delle sue conclusioni sono uguali o simili. Secondo, Devine sostiene che vi siano due distinti aspetti di quello che pensiamo essere la divisione del lavoro, che sotto il capitalismo sono precisamente uniti. Da una parte troviamo la divisione funzionale del lavoro. Come derivato dal nome, questa si riferisce all’ovvio fatto che nella produzione moderna per produrre un output si devono fare molte cose funzionalmente differenti, molti lavori differenti e operazioni molto delicate. Non una sola persona potrebbe farli tutti, e certamente non tutti in una volta, ma date le capacità che devono essere apprese, nessuno potrebbe fare tutto anche in tempi differenti (come nella produzione degli spilli di Adam Smith prima di trasferirsi in strutture efficienti). Di qui una divisione del lavoro funzionale è necessaria data la natura della produzione moderna (ma non necessariamente quella esistente). Dall’altro lato, vi è una divisione sociale del lavoro. In poche parole essa consiste nel fatto che si attiva gente con diverse quantità di potere sociale basati sul loro particolare ruolo nell’intero processo della produzione sociale. Tornerò a descrivere questo aspetto più in là, dopo aver discusso un altro concetto nel quadro di Devine. Un terzo aspetto del quadro di Devine è che gli uomini devono disporre di qualche parte della loro coscienza sociale per produrre le cose di base dell’esistenza umana. Ciò copre la produzione e riproduzione di routine, ed anche la gerarchia di conoscenza ad essi associata.11 La rimanente coscienza sociale può essere usata in due maniere differenti. Citando Bahro, Devine le indica così: “Interessi compensatori, prima di tutto, sono la reazione inevitabile alla maniera nella quale la società restringe e blocca la crescita, sviluppo e conferma di innumerevoli persone ad uno stadio precoce. Le necessità corrispondenti vanno soddisfatte con soddisfazioni sostitutive. La gente deve essere indennizzata con il possesso ed il consumo di quante più cose possibile... per il fatto che dispongono di una fetta inadeguata delle necessità umane proprie... interessi emancipatori, d’altra parte, sono orientati alla crescita, differenziazione e auto-realizzazione della personalità in tutte le dimensioni delle attività umane.”12

Il quarto aspetto del quadro di Devine echeggia molto quello di Albert e Hahnel. Le varie operazioni tecniche fatte in una economia moderna implicano una divisione tra “quelli che hanno funzioni ed esercitano potere sociale a livello di sistemi e sotto-sistemi interi” e quelli che “operano funzioni parziali e sono l’oggetto dell’esercizio del potere sociale di altri”13. Di qui egli argomenta che “la ineguaglianza cruciale nella società moderna è nella distribuzione non della produzione [sebbene consideri anche quella come importante per una società desiderabile] ma dell’accesso alle attività emancipative, quelle attività che contribuiscono alla crescita e sviluppo personali.”14 Devine poi propone come quinto aspetto del suo quadro una divisione provvisoria delle operazioni in cinque categorie (pur ammettendo che altre divisioni sono possibili): pianificazione e gestione; creativa; sviluppativa; specializzata; e non specializzata e ripetitiva. Nelle società esistenti le cose nell’ultima categoria sono certamente “subalterne e danno origine alla alienazione, lo strumentalismo e l’apatia”.15 Ma anche operazioni della prima categoria sono in genere (eccetto agli altissimi livelli) subalterne, in quanto uno ha una posizione entro una gerarchia, e perciò può pianificare e dirigere solo quanto gli viene assegnato: sta cioè operando su cose parziali e non a livello di sistemi e sotto-sistemi completi. Il capitalismo tende a confinare le persone ad un dato lavoro per tutta la vita, o al massimo a permettere loro (ed a volte li forza, quando vengono cacciati da un certo lavoro) di spostarsi da un lavoro ad un altro entro la stessa categoria, così generando lo sviluppo umano ristretto e bloccato che era uno degli aspetti centrali del pensiero di Marx. Il sesto aspetto comincia dalla posizione marxista tradizionale che le forze di produzione (e quindi la produttività del lavoro) continuano a svilupparsi nel tempo. Ciò significa che sempre meno coscienza sociale è necessaria per le operazioni di produzione e riproduzione, e più coscienza sociale rimane per essere usata in maniere compensatorie o emancipanti. Il settimo aspetto di questo quadro è che la gente che impiega tutta o quasi tutta la propria coscienza sociale in operazioni subalterne, siano esse le operazioni concernenti la produzione16 e riproduzione o altre da “categorie più alte la cui subalternità viene dalla organizzazione gerarchica di questa società, svilupperanno una “coscienza subalterna”.17 L’ottavo e finale aspetto del quadro di Devine è che la gente con una coscienza subalterna (la vasta maggioranza dell’umanità) non sceglie attività emancipanti con il crescere di extra coscienza sociale, perché ciò richiederebbe una autonomia ed auto-attivazione che è stata soppressa dalla loro coscienza subalterna. Invece, essi cercheranno attività compensative. Sopratutto in società capitalistiche ciò significherà consumo privato di beni e servizi, invece di, e come compensazione per non, perseguire la crescita umana e l’attuazione di più potenziale umano. Una importante osservazione per il quadro di Devine deve essere considerata attentamente. Albert ed Hahnel indicano bene ed in breve come l’ambiente di lavoro capitalista formi lo sviluppo umano, lo sviluppo delle capacità. Il quadro di Devine non solo fa lo stesso, ma include un importante passo in più - discute come l’ambiente di lavoro capitalista causi il fatto che la gente non cerchi lo sviluppo umano anche quando ne esista la possibilità. Questa sarà una importante considerazione nella discussione della transizione al socialismo che andiamo a fare.

3. L’Economia Politica del Socialismo Le procedure che formano l’economia politica del socialismo sono radicate in, e scorrono da, una meta centrale. Per il socialismo, la meta centrale è quasi universalmente accettato che sia le “sviluppo umano”, o qualche espressione equivalente tipo “lo sviluppo del potenziale umano di ciascuno”, o “le opportunità di sviluppare abilità potenziali” e simili. Freire usa la più lunga ma leggermente più suggestiva espressione”la vocazione ontologica e storica dell’uomo di divenire più pienamente umano”18. Alcune mete minori che sono sempre piuttosto astratte malgrado siano maggiormente concrete ed operative, che si vedono spesso proposte come gli obiettivi del socialismo, ricevono giustificazione dalla meta centrale sopra detta. Le più comunemente citate sono l’auto-determinazione (o auto-governo, o semplicemente la democrazia), l’eguaglianza e la solidarietà19. Recentemente la protezione dell’ambiente naturale è stata inclusa negli obiettivi in quasi tutte le discussioni del socialismo. Nella discussione della prossima sezione mi occuperò anche di un obiettivo minore del socialismo, l’“individualità”20, visto che spesso introduce confusioni su uno dei temi centrali di questo articolo, la competizione contro la cooperazione. Come sopra menzionato, vi è un grande dibattito tra socialisti concernente la possibilità di usare i mercati nel socialismo21. Un argomento molto popolare a favore del mercato nel socialismo è che esso è necessario per creare efficienza. Nella sua forma più radicale, la critica di Von Mises ed Hayek sull’efficienza era tesa a negare la possibilità del socialismo. “...la presa di decisioni razionali è impossibile senza la proprietà privata dei mezzi di produzione e la creazione di prezzi monetari per le merci in mercati pienamente competitivi. Il socialismo così rappresenta per loro un sistema di caos economico; in una tale società “sarebbe impossibile parlare di produzione razionale”.22

Tuttavia, nella forma meno radicale adottata dai socialisti di mercato, i mercati semplicemente aggiungono efficienza. Nella proposta di socialismo di mercato più a sinistra, quella di Schweickart (in essa lo Stato e non il mercato decidono i nuovi investimenti), si argomenta a favore del secondo dei tre pilastri del suo modello, il mercato (nei beni di consumo e nei beni capitali esistenti) come segue: “L’alternativa all’allocazione di mercato è la pianificazione centralizzata, e la pianificazione centralizzata (come predetto dalla teoria e confermato dalla storia) è... inefficiente”.23 Forse il libro che si occupa più a lungo e più profondamente della incompatibilità dei mercati con il socialismo24 dal punto di vista di Marx è quello di David McNally. Egli dice: “Vorrei mostrare che Marx si è sistematicamente occupato di, ed ha rigettato, l’idea che il mercato possa servire da meccanismo centrale di una economia socialista, e che tale rigetto era sostenuto da un argomento serio e profondo sulla natura delle merci, del denaro e del mercato... la sua poderosa critica di quei teorici socialisti che speravano di costruire il socialismo attraverso il mercato, che cercavano di eliminare lo sfruttamento tenendosi le merci, i prezzi ed il denaro”.25 Oltre ad argomentare che i mercati sono incompatibili con gli obiettivi del socialismo, i difensori del socialismo non di mercato devono argomentare che esso è teoricamente fattibile. Libri in inglese sul tema sono quelli di Devine, Albert ed Hahnel, e Cockshott e Cottrell. Tra gli articoli si vedano quelli di Campbell e Laibman26. Si deve notare che i modelli presentati differiscono grandemente. Ciò è in linea con il commento fatto nell’introduzione che vi possono essere molte manifestazioni concrete differente del socialismo. Il tema principale di questo articolo, tuttavia, non è l’aspetto di mercato o no del socialismo per sè. Piuttosto, ci occupiamo della transizione al socialismo, e l’argomento di questo articolo è che gli effetti dei mercati sulla gente discussi nella sezione precedente inibiscono la transizione.

4. Visione Generale della Transizione al Socialismo Nel ben noto approccio marxista alla transizione da una forma di organizzazione economica politica e sociale ad un’altra, la forza trascinante per la trasformazione è la contraddizione tra le forze di produzione e le relazioni di produzione. Un modo produttive funziona relativamente bene (malgrado la lotta di classe non cessi mai) quando le forze di produzione e le relazioni di produzione, quest’ultima essendo al di sopra di tutte le relazioni umane stabilite dalle relazioni di proprietà, sono coerenti. Quando sono coerenti, le relazioni di produzione servono a portare avanti lo sviluppo delle forze produttive, una condizione necessaria (specialmente a livelli bassi di produttività umana che richiedono quasi tutto il tempo umano per produrre i mezzi materiali di sopravvivenza) ma non sufficiente per lo sviluppo umano. Ma le forze di produzione evolvono in continuazione. Quindi in qualche punto esse diventeranno incoerenti con le relazioni di produzione esistenti. A tale punto, una radicale ristrutturazione delle relazioni di produzione che le porterà in linea con il nuovo livello delle forze produttive, ed un nuovo modo di produzione sarà nato. Una questione è stata usata a lungo contro questa teoria come sfida alla sua validità. Marx certamente pensava che durante la sua vita le forze produttive si erano sviluppate fino al punto in cui le relazioni di produzione capitaliste esistenti avevano smesso di sviluppare tali forze come prima nella storia del capitalismo, ed erano divenute un freno all’ulteriore sviluppo, almeno relativamente a quello che relazioni di produzione socialiste avrebbero potuto ottenere. Allo stesso tempo i limiti imposti sullo sviluppo umano da quelle relazioni di produzione capitaliste, delle quali aveva scritto a lungo, non erano più storicamente necessarie o giustificate a sviluppare le forze di produzione al livello necessario a supportare un sistema economico politico e sociale più umano27. Così egli si aspettava che ci sarebbe stata una ristrutturazione radicale delle relazioni di produzione, ed il capitalismo avrebbe cominciato (di nuovo, si tratta di un processo) ad essere rimpiazzato dal socialismo in un periodo non troppo lungo. La questione allora è: perché 150 anni più tardi il capitalismo è ancora il sistema dominante a livello mondiale? O, per fare la stessa domanda in una maniera diversa - perché la classe operaia, l’agente del cambiamento nello scenario di Marx dato che più di tutti subisce l’inibizione della propria umanità, non si è ribellata, non ha rovesciato il sistema, ma al contrario continua ad accettarlo, malgrado la continua infelicità con quello che ha? Vi sono state due ragioni proposte dai difensori di una trasformazione socialista in risposta a tale questione. La prima è che mentre Marx aveva ragione nella sua descrizione generale della natura e delle cause della trasformazione dal capitalismo, la sua valutazione del potenziale miglioramento nelle forze produttive sotto il capitalismo era errata, e quindi anche la scala temporale che usava era errata. Infatti gli ultimi 150 anni hanno visto grandi miglioramenti nelle forze di produzione, misurati dal criterio dell’importanza per lo sviluppo umano, la produttività del lavoro. Ciò tuttavia non risponde pienamente all’asserzione di Marx, visto che Marx non disse che vi sarebbe stato un blocco assoluto allo sviluppo delle forze produttive, ma piuttosto che le relazioni di produzione avrebbero ritardato il loro sviluppo in relazione a quello che le relazioni di produzione socialiste potevano ottenere. È facile sostenere che senza la competizione tra capitali (che porta a inutilità della ricerca, e a barriere alla diffusione di nuova tecnologia una volta sviluppata, per non menzionare il tremendo spreco di risorse sociali buttate nel marketing, nella pubblicità e in battaglie legali), e senza la competizione tra lavoro e capitale le forze di produzione potrebbero svilupparsi molto più rapidamente di ora. L’altra risposta è molto più complessa, e forma il centro del presente articolo, presentando l’economia politica del socialismo da una prospettiva fondamentalmente diversa. Essenzialmente, l’altra risposta dirige più attenzione direttamente al ruolo dei lavoratori, sia nella definizione del socialismo sia nella considerazione della transizione al socialismo. Notate che non asserisce che la descrizione di cui sopra in termini delle forze di produzione e delle relazioni di produzione è sbagliata. Al contrario, accetta tale descrizione, più o meno come una maniera breve di descrivere un processo complesso, ma allo stesso tempo continua presentando una descrizione più ricca e completa di quel processo. Anche la descrizione del socialismo e della transizione saranno più ricche e complete. Primo, l’economia politica del socialismo non è solo intorno alla costituzione di un insieme di relazioni di produzione compatibile con dei mezzi di produzione che sono ora più avanzati e più socialmente integrati (sebbene ciò sia necessario). Nonostante il suo recente ma non ben conosciuto libro Beyond Capital sia concentrato sulle questioni correlate ma differenti della “metà mancante del Capitale di Marx”, Lebowitz affronta un certo numero di questioni di interesse per questo articolo. “Sebbene il lavoratore non sia il soggetto del Capitale, in questa idea del lavoratore come risultato del proprio lavoro entra la discussione di Marx del processo del lavoro; lì Marx nota che il lavoratore ‘agisce sulla natura esterna e la cambia, e così simultaneamente cambia la propria natura’ (Marx, 1977: 283). In modo simile nel Grundrisse questo concetto di prodotto unito (il cambiamento di circostanze ed il cambiamento individuale) è anche chiaro nel processo di produzione ove ‘anche i produttori cambiano, visto che tirano fuori nuove qualità in sé stessi, si sviluppano nella produzione, si trasformano, sviluppano nuovi poteri e nuove idee, nuovi modi di interazione, nuove necessità e nuovi linguaggi’ (Marx, 1973: 494). In tutto questo, rimane una chiara concezione di crescita e auto-sviluppo...”28

Vediamo qui la stessa idea indicata da Devine e da Albert e Hahnel nella sua forma negativa sotto il capitalismo: la gente si realizza attraverso il lavoro, ed un lavoro ristretto e subalterno produce esseri umani corrispondenti. Albert e Hahnel propongono di istituire “complessi di lavoro bilanciati” che mettano insieme operazioni di livelli diversi nello stesso lavoro, mentre Devine propone che tutti possano avere almeno una volta nella vita un lavoro di categoria diversa per portare avanti gli obiettivi centrali del socialismo, vale a dire uno sviluppo umano multiforme e multidirezionale, autentico ed in linea con il potenziale umano. Lebowitz espande la sua idea di sviluppo umano (e di qui la meta del socialismo) nel suo articolo “The Rich Human Being: Marx and the Concept of Real Human Development”. Questo concetto di creare un essere umano ricco è solo un altro modo di presentare lo stesso obiettivo di una società socialista29, quello dello sviluppo umano, sebbene aggiunga il concetto che siano le persone stesse la forza trascinante dello sviluppo umano; “[Un] essere umano ricco [è un uomo] la cui propria relazione esiste come necessità interna, come un bisogno”. Come con Devine ed Albert e Hanhel, la varietà delle attività è la chiave per un più grande sviluppo della potenzialità umana. “Al nocciolo di tutto questo vi è l’importanza della varietà, della varietà di attività - la gente sviluppa le proprie capacità solo attraverso le proprie attività, attraverso nuovi atti che permettano la crescita delle capacità specifiche, ... Quando viene negata l’opportunità di esercitare tali potenzialità queste non si sviluppano - che è precisamente quello che Marx riconobbe come inerente ad una società nella quale l’essere umano esiste come mezzo per l’espansione del capitale.”30

La seconda questione concerne la trasformazione socialista. Per avere una tale trasformazione quelli motivati per farlo dovranno compierla. Per essere così motivati, devono arrivare a vedere la chiave per migliorare le proprie vite nell’ottenimento collettivo di una società basata sulla auto-determinazione, l’eguaglianza e la solidarietà. La loro esperienza quotidiana di vita, tuttavia, li condiziona invece a pensare sempre entro una scatola composta delle regole del capitalismo quando pensano a come sopravvivere meglio, forse a migliorare la propria situazione materiale, e per pochi anche la possibilità di conseguire il proprio sviluppo umano individuale (sebbene, come è stato sostenuto, le loro idee su come arrivarci, quando vi pensino, sono fortemente distorte dal capitalismo). La visione di queste persone che migliorano la propria condizione umana e lo sviluppo collettivo richiede di pensare fuori della scatola delle regole capitaliste, e questo è qualcosa che deve venire da fuori la loro esperienza quotidiana, che è invece vissuta entro quella scatola. Insieme ad un piccolo gruppo di altri Paulo Freire ha posto in evidenza tale problema essenziale che è il nocciolo dell’argomento di questo articolo. “Ma quasi sempre, nella fase iniziale della lotta, gli oppressi invece di cercare la liberazione tendono a diventare oppressori essi stessi, o sotto-oppressori. La struttura stessa del loro pensiero è stata condizionata dalle contraddizioni della concreta situazione esistenziale nella quale si sono formati. Il loro ideale è di divenire degli uomini, ma per loro essere uomini equivale ad essere degli oppressori. Tale è il loro modello di umanità. Questo fenomeno deriva dal fatto che gli oppressi, ad un certo punto della loro esperienza esistenziale, adottano un’attitudine di adesione all’oppressore. In tali circostanze essi non possono considerarlo sufficientemente bene per oggettivarlo - per scoprirlo fuori di sé stessi. Ciò non significa necessariamente che gli oppressi non abbiano coscienza della loro situazione. Ma la loro percezione di sé stessi è limitata dal loro essere sommersi dalla realtà dell’oppressione. A questo livello la loro percezione di sé stessi come opposti dell’oppressore non significa ancora impegno in una lotta per superare la contraddizione; un polo non aspira alla liberazione, ma alla identificazione con l’altro polo. In questa situazione gli oppressi non vedono l’“uomo nuovo” come l’uomo creato dalla risoluzione della contraddizione, mentre l’oppressione cede alla liberazione. Per loro, il nuovo uomo è essi stessi che divengono oppressori. La loro visione dell’uomo nuovo è individualistica; a causa della loro identificazione con l’oppressore non hanno coscienza di sé stessi come persone o come membri di una classe oppressa. Non è per diventare uomini liberi che essi vogliono la riforma agraria, ma per acquisire terra e divenire proprietari - o più precisamente capi per altri lavoratori. È raro il contadino che, una volta promosso a supervisore, non diventi più tirannico verso i suoi vecchi compagni del padrone stesso. Questo avviene perché il contesto della situazione del contadino, vale a dire l’oppressione, rimane uguale. In questo esempio il supervisore, per rendere il proprio lavoro sicuro, deve essere duro come il padrone - ed anche di più. Così si chiarisce la nostra asserzione precedente che nelle fasi iniziali della loro lotta gli oppressi trovano nell’oppressore il loro modello umano.”31

Il presente articolo dunque propone quanto segue come chiave per superare l’impedimento centrale degli ultimi 150 anni all’intraprendere la transizione al socialismo. La gente deve, attraverso l’istruzione e le esperienze collettive, sia vedere l’auto-determinazione cooperativa collettiva conscia come desiderabile e possibile, sia (come processo) sviluppare abbastanza capacità per cominciare ad esercitare tale auto-determinazione. Ciò immediatamente conduce alla seguente domanda. “Come si producono queste capacità? Per Marx, dal processo di cooperazione stesso. Come egli indicò “quando il lavoratore coopera in maniera pianificata con gli altri, si libera delle catene della propria individualità, e sviluppa le capacità della propria specie”.32

Una volta che il processo di transizione dei lavoratori è cominciato, ogni esercizio di tali capacità condurrà all’espansione delle capacità, che condurrà all’esercitare sempre di più l’auto-determinazione collettiva in sempre più sfere della vita, che a sua volta condurrà all’ulteriore espansione delle capacità, e così via: si instaurerà un circolo virtuoso. La prossima cosa che farò è porre l’enigma fondamentale che è stato posto da tutti quelli sopra menzionati per la transizione al socialismo. Prima però vorrei considerare un comune errore che si fa discutendo la questione della cooperazione, suggerito dall’ultima citazione di Marx. Molta gente, specialmente ma non esclusivamente i difensori del capitalismo, pongono l’individualismo come l’opposto della cooperazione. Infatti, come abbiamo visto, una delle preoccupazioni centrali di Marx era il sistema politico economico e sociale che permette lo sviluppo più pieno possibile (ad un dato momento storico) del potenziale umano di ciascun individuo. Questo è individualismo, un individualismo autentico e non un falso individualismo alla Robinson Crusoe, isolato. Vale a dire che gli esseri umani sono esseri sociali nella loro stessa essenza. Dovrebbe essere chiaro che un calciatore che rifiuta di cooperare con i compagni non può sviluppare al massimo le proprie abilità calcistiche, ed un fisico che rifiuta di leggere le ultime ricerche dei colleghi non può sviluppare al massimo le proprie abilità in fisica. Naturalmente la nostra individualità è fortemente determinata non solo da individui con i quali abbiamo interagito durante le nostre vite, ma anche dalla cultura che abbiamo ereditato dall’umanità passata. La competizione, non l’individualismo, è l’opposto della cooperazione, e la competizione mina la possibilità della cooperazione e sviluppa illusioni di “me contro il mondo”, l’individualismo alla Robinson Crusoe. L’individualismo esiste, e quando è ben compreso non è l’opposto della cooperazione, ma piuttosto un’altra maniera di esprimere la meta centrale del socialismo: lo sviluppo autentico di ogni individuo è semplicemente un’altra maniera di riferirsi allo sviluppo del nostro potenziale umano. Ma tale individualismo deve essere compreso come un individualismo sociale, cioè l’individualismo di un essere la cui natura essenziale è sociale, vale a dire un individualismo basato sulla cooperazione.

5. L’Enigma Nel quadro sopra delineato l’enigma fondamentale per iniziare una trasformazione verso il socialismo può essere definito piuttosto semplicemente, sebbene possa essere espresso in molti modi. I lavoratori sono stati condizionati ad essere subalterni. Anche quando pensano di sviluppare la propria umanità, e molti di loro semplicemente pensano di migliorare la propria condizione materiale invece della loro umanità, tendono a pensarla come qualcosa che avviene quando si consumino più merci, come vedono fare da chi è sopra di loro nell’ordine sociale corrente, persone che certamente appaiono avere più libertà per lo sviluppo umano di loro. La loro costante competizione e conflitto con il capitale a volte rende chiaro ad alcuni di loro il bisogno di combattere il capitale per una fetta maggiore della ricchezza prodotta (sebbene ad altri suggerisca di allearsi con il capitale che li impiega contro altri capitali e lavoratori), ma non suggerisce loro la necessità di combattere per sostituire il sistema capitalistico. La lotta per sopravvivere e forse per il miglioramento delle loro vite quotidiane ha luogo entro la cornice del capitalismo, e mentre la natura del capitalismo significa che tali lotte non cesseranno mai, non vi è nulla nelle loro vite quotidiane che introduca l’idea di andare oltre il capitalismo. Questa tendenza generale a pensare entro la scatola delle regole capitaliste nelle quali vivono è rinforzata dall’osservazione di quello che accade ai pochi che propongono di uscire dalla scatola. A seconda del paese ove vivono e della fase della lotta al momento dato, queste persone perdono il proprio lavoro, la chiave per la sopravvivenza dei lavoratori nel quadro capitalista, o perdono le proprie vite. Per dirla in maniera più astratta: il capitalismo ha deturpato e bloccato lo sviluppo umano dei lavoratori, creando persone limitate e subalterne che tendono a non avere la visione di un futuro più umano, e che spesso sono caduti tanto in basso da non riconoscere un percorso verso lo sviluppo umano che è un elemento essenziale della specie umana anche quando gli viene presentato (o forse lo riconoscono ma non lo considerano realizzabile). Eppure i marxisti e molte altre teorie radicali hanno assegnato ai lavoratori un ruolo centrale (o in alcuni casi i ruoli centrali) come agenti della trasformazione. Sembrerebbe che si possano capire i benefici di una transizione al socialismo solo una volta entrati nel socialismo. Perciò gli agenti che potrebbero e dovrebbero iniziare la trasformazione verso il socialismo non si ribelleranno mai, da cui segue l’inaspettata stabilità del capitalismo anche quando è ormai diventato un anacronismo storico. Come puntualizzato da Freire e Lebowitz, un sito essenziale di sviluppo di tale azione cooperativa, prima di avere abbastanza controllo sui propri posti di lavoro o comunità per esercitare una quantità significativa di potere cooperativo, sarà nella lotta proprio per quello spazio in entrambi i siti della attività di auto-governo cooperativo. Le ultime due sezioni di questo articolo mostreranno casi studio, brevi descrizioni del tipo di strutture cooperative auto-governantisi che potrebbero essere, e infatti sono, cercate con la lotta, come il tipo di struttura che genera lo sviluppo delle capacità umane che rende possibile che i lavoratori governino la società socialista. Le lotte stesse per queste strutture, anche prima che le strutture esistano come siti per lo sviluppo delle capacità umane, dunque costituiscono i primi passi per lo sviluppo di tali necessarie capacità.

6. Costruendo agenti di cambiamento al lavoro. Alcune considerazioni dai lavoratori dell’auto canadesi Gindin comincia la propria analisi di alcuni esperimenti tentati nel Sindacato Canadian Auto Workers (CAW) per creare agenti interessati alla trasformazione socialista con due punti che il loro lavoro concreto deve riconoscere come la realtà dalla quale partire. Il primo è l’enigma già discusso. In generale, lo scambio di un salario per la forza lavoro è ineguale non semplicemente per le ragioni di solito citate che i lavoratori trattengono solo una parte di ciò che producono, ma a causa di ragioni più profonde: il fatto che rappresenta una differenza tra “l’accesso al consumo ed il controllo su ciò che si fa”. Espandendo questo concetto, arriviamo di nuovo all’enigma: “Quello che i lavoratori danno via quando vendono la forza lavoro è precisamente il tipo di capacità e potenziali che sono assolutamente fondamentali per costruire un giorno un tipo diverso di società: la capacità di fare, creare, pianificare e eseguire”.33 Il secondo punto è che “Oggi vi è uno spettro che si aggira tra i socialisti, lo spettro della marginalizzazione... in un momento nel quale le idee socialiste dovrebbero essere più rilevanti che mai dal tempo della Grande Depressione, sembra che in pratica il socialismo semplicemente non importi”. E il “nostro immediato obiettivo è ‘quello meno ambizioso’ di rimettere semplicemente l’idea di socialismo sull’agenda in maniera seria...”34 Gindin sostiene che il convincere i lavoratori e i sindacati ad una prospettiva socialista rimane come sempre essenziale per il movimento comunista e per il movimento sindacale (malgrado il fatto che molti dei marxisti e dei sindacalisti che propugnavano tale idea la hanno abbandonata nei decenni ‘80 e ‘90). La strategia generale rimane la stessa di prima. I socialisti devono partecipare nelle lotte sindacali che hanno luogo provando a difendersi dai continuamente più forti attacchi del capitale al lavoro. Inoltre, devono farlo in una maniera tale da manifestare due cose insieme: devono far vedere ai lavoratori che sono veramente coinvolti nella lotta per proteggere il loro benessere e che non lo stanno usando come scusa per fare propaganda socialista, e devono imparare a trarre lezioni dalle lotte, vittoriose o perdenti, che causano il fatto che i lavoratori coinvolti guardino oltre le regole del capitalismo per la propria difesa e il futuro miglioramento. Tale ultimo obiettivo è reso in qualche modo più facile visto che il capitale ha sempre più evitato l’intervento statale a favore dei lavoratori entro il quadro capitalista, e che rimuove una grande fonte di offuscamento dell’intrinseca natura anti-umana del capitalismo, lasciando solo le scelte della nuda determinazione del benessere del lavoratore al mercato o della rottura con la logica del capitalismo. Al cuore del progetto vi è la necessità di provare ad instillare nei lavoratori una maniera di guardare al mondo, ed al lavoro in particolare, diversamente dal punto di vista capitalista. Al cuore del punto di vista capitalista vi è “la camicia di forza della ‘competizione’. La competizione si presenta non solo come il migliore, ma anche come il solo modello di sviluppo. Come tale esso oscura le relazioni di classe, struttura i dibattiti economici ed agisce come l’ideologia finale dello status quo. Poiché la competizione è, tuttavia, non solo un’idea ma il riflesso di strutture in atto, la competitività rappresenta un limite che dobbiamo affrontare. Il trucco è prevenire l’insinuazione di un tale limite nei nostri obiettivi”.35 In linea con questa discussione, si capisce immediatamente la ragione per il nocciolo della contro-visione proiettata. “Tale punto di entrata - lo sviluppo democratico delle capacità - è primariamente un contrappeso ideologico ma influenza anche come affrontiamo vari temi correlati, particolarmente quello dell’unità di produzione rilevante, l’unità appropriata per occuparsi delle necessità, la necessità di proteggere spazi di sperimentazione, la relazione tra l’economico ed il politico, l’urgenza tattica e strategica di affrontare il capitale finanziario”.36

Ecco un esempio del tipo di risultati diversi che queste due visioni del mondo possono produrre. “Per esempio la logica della competizione incorpora la necessità di una significativa disoccupazione per disciplinare i lavoratori e spingere la performance dell’azienda. Lo sviluppo democratico delle capacità asserisce che la sottoutilizzazione dei potenziali umani contraddice lo sviluppo: se le strutture economiche non rendono il pieno impiego una priorità, è proprio quelle strutture piuttosto che i lavoratori che vanno aggiustate”.37 Non è lo scopo di questa sezione descrivere come il CAW ha provato a convertire questo punto centrale sulla competitività e altri messaggi correlati in una maniera pedagogica appropriata, o i risultati di questi esperimenti. L’articolo di Gindin, ed un più recente e concreto libretto inteso a presentare le questioni al momento in discussione in tale esperimento38, presentano entrambi esaurientemente. Lo scopo di questa sezione è, tuttavia, illustrare con un esempio concreto che vi sono maniere di far cominciare ai lavoratori sul posto di lavoro a pensare fuori delle regole e del quadro generale capitalistico. Come argomentato, questa è la sola maniera di risolvere l’enigma discusso sopra, che ha inibito l’inizio di un processo di transizione al socialismo fino ad oggi, particolarmente nel primo mondo ma anche in molti paesi del terzo mondo.

7. Costruendo agenti di cambiamento fuori del lavoro. Alcune considerazioni da Porto Alegre La vasta maggioranza delle decisioni sociali e politiche che determinano una società naturalmente avvengono fuori del posto di lavoro. Anche per questioni economiche intese in senso stretto, la miriade di decisioni che creano il quadro nel quale il posto di lavoro opera sono create a livelli al di sopra del posto di lavoro. Ne segue che, come riflesso in tutti i modelli di socialismo non di mercato cui ci siamo sopra riferiti, dirigere la economia politica socialista da “soggetti auto-attivatisi in una società auto-governata” richiederà decisioni economiche, sociali e politiche consce a livelli superiori a quello del posto di lavoro, oltre alle decisioni concernenti il posto di lavoro sopra considerate. Tutto quello che è stato detto sulla necessità non solo di abbandonare la coscienza subalterna, ma anche di sviluppare le capacità di esercitare tale auto-determinazione, chiaramente si applicano a tali decisioni di più alto livello. L’esperimento di Participatory Budgeting (da qui in poi PB, Bilancio Partecipato) cominciato in Porto Alegre si è allargato a varie altre città nel sud del Brasile ed altre parti dell’America Latina e del mondo39. Questa sezione commenta brevemente questo esperimento dal punto di vista della costruzione delle necessarie capacità umane, politica e sociali a livelli superiori a quello del posto di lavoro. Mentre il nostro tema principale è gli effetti trasformativi della procedura sui partecipanti, una breve descrizione della meccanica necessaria è d’uopo. Visto che la meccanica del PB non è socialmente molto conosciuta, quasi ogni lavoro sul PB include almeno una breve sezione sulle procedure40. Va naturalmente ricordato che la meccanica dell’applicazione varia da luogo a luogo, ed anche nel tempo. La presentazione data qui è una versione abbreviatissima di Marquetti41. Il processo del bilancio tradizionale in Brasile consiste di quattro fasi, con le seguenti autorità responsabili: la preparazione (l’esecutivo), l’adozione (legislativo), l’esecuzione (l’esecutivo) e l’auditing (esecutivo e legislativo). Formalmente la struttura ed i tempi del processo sono cambiate di poco con l’attuazione del PB. Ma i contenuti sono cambiati radicalmente. La partecipazione pubblica nel PB coinvolge la democrazia diretta ed indiretta, quest’ultima attraverso l’elezione di membri del Consiglio del PB. La prima fase, la preparazione, ha tre sotto-fasi: la decisione del bilancio generale, la definizione delle priorità, e il bilancio vero e proprio. La prima sottofase è grandemente determinata dall’esecutivo, sebbene già i consiglieri del PB possano cambiarla. L’esecutivo presenta le cifre programmate e le spese totali. I consiglieri PB possono dibattere le cifre, e possono persino proporre nuove tasse, sebbene il metterle in pratica richiederebbe il voto del consiglio comunale. Ma già vediamo un importante grado di rendicontabilità pubblica. La seconda sottofase è dove troviamo la maggiore partecipazione pubblica diretta. Le preferenze sono definite per democrazia diretta in una serie di assemblee pubbliche42, per regioni (della città) su questioni locali e per temi per i temi cittadini, nelle quali tutti i partecipanti hanno il diritto di parlare e votare. Nella terza sottofase il Consiglio del PB sviluppa il bilancio e il piano dei servizi di investimento. In ciò è assistito dall’esecutivo, ed agisce in accordo con un insieme di regole accettate che concernono la distribuzione tra le 16 aree della città, e le varie priorità stabilite dalla popolazione nella sottofase precedente (comprese priorità automaticamente presenti per le regioni più povere e quelle con le minori infrastrutture). Nelle tre fasi seguenti, l’adattamento, esecuzione e auditing, il PB gioca principalmente un ruolo di supervisione (e quindi di legittimazione). Abers, in una sezione intitolata “Partecipazione, Auto-Sviluppo e Giustizia Distributiva”, discute direttamente due tipi di effetti trasformativi che vari scrittori hanno considerato. Mentre uno è meno ovvio ed immediato dell’altro, entrambi sono esattamente le questioni che abbiamo discusso sopra come necessarie per iniziare la trasformazione verso il socialismo. “Due tipi generali di argomento vengono fatti. Alcuni, come Pateman, si concentrano sulla conoscenza e le specializzazioni che la partecipazione ‘insegna’. La gente guadagna esperienza nel negoziare con gli altri, arrivando a decisioni e imparando sulle decisioni politiche da prendere. Un risultato importante è un aumentato senso di ‘efficacia politica’: mentre imparano che la partecipazione può efficacemente giocare un ruolo nelle decisioni collettive, diventa più probabile che continuino a partecipare, imparando sempre di più... Altri studiosi danno più importanza al ruolo che la partecipazione può giocare nel promuovere una coscienza degli interessi comuni ed un senso di comunità...”43

Abers poi continua in relazione al secondo punto che un tale sviluppo di una “identità di gruppo” ha mostrato, sia in esperimenti empirici di giochi sia in studi qualitativi sui movimenti sociali e in condizioni più simili a Porto Alegre, che “tale identità promuove comportamento cooperativo”44. Ciò ci riporta all’idea proposta da Marx alla fine della Sezione IV: la chiave per costruire le capacità necessarie per entrare in una fase di transizione al socialismo emergeranno “dal processo stesso di cooperazione”.

8. Conclusioni La chiave per la transizione al socialismo non è una qualche struttura che uno possa costruire, e in particolare non una struttura che accetti che la gente è inalterabilmente egoista e che usi tale presunta caratteristica ai fini di costruire il socialismo, come nel socialismo di mercato. La chiave per costruire il socialismo è la trasformazione della gente, e specificatamente, lo svilupparne le capacità per farli diventare cooperativi, “persone auto-attivatesi che esercitano l’auto-governo e più in generale l’auto-determinazione” attraverso lo sviluppo delle coscienze. L’enigma da risolvere per iniziare questo processo è che i lavoratori hanno avuto le loro capacità umane così distorte e sottosviluppate che, in accordo con la realtà giornaliera sotto il capitalismo, non vedono né l’umana necessità e neanche la desiderabilità di iniziare una trasformazione socialista della società per ottenere un più pieno sviluppo umano. Essi, tuttavia, trovano il proprio ruolo nell’ordine esistente insoddisfacente. Lotte sorgeranno in continuazione, non sulle basi delle caratteristiche degli uomini in una società socialista che essi non hanno, ma sulle basi della loro insoddisfazione con la loro presente condizione sotto il capitalismo. Quello che è necessario, tuttavia, è che la natura della partecipazione nella lotta, e la educazione che viene dalla lotta e dalla considerazione degli obiettivi della lotta45, devono essere tali da condurre i partecipanti a guardare al mondo ed a sé stessi in maniera differente. In particolare, l’azione cooperativa nella lotta e la considerazione del ruolo della cooperazione in una società umana per la quale lottare, e la questione collegata della disarticolazione della ideologia della competizione, sarà la chiave per il loro arrivare a riconoscere il proprio carattere di specie collettivista. Ciò a sua volta sarà la chiave per sviluppare l’auto-determinazione, la solidarietà e l’eguaglianza, le concrete manifestazioni del prossimo passo necessario oggi all’umanità nella propria “vocazione ad un più pieno sviluppo umano”.

1. Sebbene molti trovino un tale accordo sorprendente, dovevamo aspettarcelo. Per quelli che propendono per un approccio materialista alla transizione, le caratteristiche del socialismo saranno create dalla gente che lotta contro le limitazioni sul loro sviluppo umano, e di qui la similarità degli aspetti centrali sarà determinata dalla similarità delle restrizioni dei capitalismi concreti. Per quelli che hanno un approccio morale/etico/religioso alla natura desiderata del socialismo, gli ovvi e abbondantemente condivisi (tra i critici) effetti dei capitalismi esistenti sugli uomini daranno di nuovo origine ad una similarità nelle preoccupazioni centrali. Per una recente breve discussione di questi due approcci alla considerazione della transizione al socialismo scritti da un sostenitore dell’approccio materialista si veda Bertell Ollman, “The Utopian Vision of the Future (then and Now)”, Monthly Review, 57:3, Luglio-Agosto 2005, 78-102. 2. S.Bowles, “What Markets Can and Cannot Do”, Challenge, July-August, 1991, 11-16. Il libro più classico che presenta e sviluppa questa tesi è La Grande Trasformazione di Karl Polanyi. In The Market Experience (Cambridge: Cambridge University Press, 1991) Robert Lane descrive un gran numero di risultati sperimentali che sono interessanti per chiunque si occupi degli effetti del mercato sui partecipanti al mercato stesso, nonostante il fatto che dal punto di vista di chi scrive il lavoro di Lane ha il difetto di non porre quasi mai le domande rilevanti. 3. Stephan J. Gould, Ever Since Darwin (New York: W.W. Norton & Co., 1977), p.266. 4. A.L.Morton, The Life and Ideas of Robert Owen (New York International Publishers, 1962), p.87. 5. B.F. Skinner, Walden II (New York: MacMillan, 1976 [1948]), pp. 103, 156. 6. A.Kohn, No Contest. The Case Against Competition (Boston, MA: Houghton Mifflin Co., 1992 [1986]), pp. 194, 195. 7. M.Albert, R.Hahnel, Looking Forward. Participatory Economics for the Twenty First Century (Boston, MA: South End Press, 1991), p.16. 8. Tra l’altro, mentre Adam Smith era di fatto un campione dei mercati, era molto più progressista dei suoi moderni discepoli. Oltre al punto notato nel testo che trovava il diritto alla ricchezza molto spesso un incidente della nascita, egli era a favore dell’intervento governativo ogni volta che i mercati non funzionano bene, e sosteneva specificamente che i lavoratori meritavano una fetta maggiore della ricchezza creata socialmente di quella che ricevevano. 9. A.Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (New York: The Modern Library, 1985 [1776]), p.17. 10. P.Devine, Democracy and Economic Planning: the Political Economy of a Self-Governing Society (Boulder, CO: Westview Press, 1988); R.Bahro, The Alternative in Eastern Europe (no city given: NLB, 1978 [1977]). 11. Devine, op.cit., p.164. 12. Ibid., citando Bahro, op.cit., p.272. 13. Ibid. 14. Ibid., p.167. Questo risultato è in qualche modo modificato dal suo ottavo aspetto discusso qui sotto, nel quale le persone sono condizionate dal sistema a non desiderare attività emancipative anche quando queste siano disponibili. 15. Ibid., p.166. 16. Alcuni nelle società capitaliste riescono a trovare lavori che consentono una produzione e riproduzione non subalterna, ma tali individui sono naturalmente considerati molto fortunati. Vengono spesso considerati come quelli con una “vocazione” piuttosto che un lavoro. Nelle società attuali la maggior parte delle attività implicate nella produzione e riproduzione sono subalterne. Ibid. 17. Ibid. 18. P.Freire, Pedagogy of the Oppressed (New York, Continuum, 1992 [1970]), p.40. 19. Una espressione un poco più lunga che però è ancora più suggestiva è “auto-determinazione da parte di soggetti auto-attivatisi in una società auto-governata”, Devine, op.cit., p.189. McNally, mettendo in evidenza come tale obiettivo differisca dalle condizioni dei lavoratori sotto il capitalismo, la chiama “auto-emancipazione”, McNally, Against the Market. Political Economy, Market Socialism and the Marxist Critique (London, Verso, 1993), p.3. 20. T.Weisskopf, “Toward a Socialism for the Future, in the Wake of the Demise of the Socialism of the Past”, Review of Radical Political Economics, 24:3&4 (992), 1-28. 21. Mentre questo dibattito coinvolge due diverse visioni del socialismo, vi è un aspetto semantico della discussione che spesso confonde ed oscura le questioni più profonde: che cosa è un mercato? Tutti i socialisti sono d’accordo che una divisione del lavoro continuerà ad esistere. Non tutti auto-produrranno tutto quello che consumano - ciò sarebbe incompatibile sia con la visione socialista dell’alta produttività del lavoro sia con la visione degli uomini come socialmente connessi dalla loro natura. Di qui una sorta di processo di scambio dovrà continuare ad esistere. Devine prova a catturare la fine dei mercati e la continuazione di tali scambi distinguendo tra “forze di mercato” e “relazioni di mercato”. Polanyi parlava di differenze tra mercati, che potrebbero avere ogni sorta di caratteristiche in funzione di quale società li contenesse, e di mercati auto-regolantisi. Per ottenere il socialismo era necessario terminare la dominanza dei mercati auto-regolantisi nella società (specialmente comprendendo tentativi di costruire mercati auto-regolati dalla “merce fittizia” del lavoro, della terra e del denaro, che infatti non hanno mai avuto alcun successo nei mercati auto-regolati). Il punto che intendo mettere in evidenza è che i difensori del socialismo non di mercato non propongono una fine a tutta la specializzazione del lavoro, e quindi a tutte le forme di meccanismi di scambio. Piuttosto, essi propongono che tutti i meccanismi di scambio siano coscientemente controllati socialmente e che non operino secondo le proprie leggi e dinamiche, che è ciò che essi chiamano con il termine mercato. 22. McNally, op.cit. 1993, p.1. 23. D.Schweickart, Against Capitalism (Boulder, CO: Westview Press, 1996), p.69. L’argomento è talvolta raffinato nel senso che i mercati sono particolarmente necessari per l’efficienza di economie complesse. “L’economia sovietica e le economie modellate su quella sovietica hanno sempre sofferto di problemi di efficienza, che sono divenuti peggiori mano a mano che tali economie si sviluppavano.”. D.Schweickart, “Market Socialism A Defence” in B.Ollman (ed.) Market Socialism. The Debate among Socialist (New York: Routledge, 1998), p.12. 24. La questione è il ruolo del mercato nel socialismo. La maggioranza dei difensori del socialismo non di mercato accettano che durante la transizione al socialismo i mercati esistono. L’obiettivo è di farli sminuire mano a mano che si sviluppa la capacità della gente di rimpiazzarli con il controllo sociale cosciente. In questo nostro articolo non ci concentreremo sull’appassimento ma piuttosto sullo sviluppo delle capacità umane che sono necessarie a tale fine. 25. McNally, op.cit., pp.3-4. 26. Devine, op.cit.; Albert and Hahnel, op.cit.; W.P.Cockshott and A.Cottrell, Towards a New Socialism (Nottingham: Spokesman, 1993); A.Campbell, “Feasible Economic Procedures”, Science and Society, 66:1, Spring 2002, pp.29-42; D.Laibman, “The Future Within the Present; Seven Theses for a Robust 21st Century Socialism”, Review of Radical Political Economics, 38:3 (2006). 27. Devine rende questo argomento generale più concreto entro il quadro da lui sviluppato e discusso sopra. Le forze di produzione ora hanno ottenuto una produttività del lavoro alta abbastanza da rifornire la produzione e riproduzione umana, ed hanno ancora risorse da sfruttare. Tali risorse possono oggi essere destinate direttamente per progettare ed eseguire il lavoro in maniera tale che l’obiettivo centrale divenga la creazione di lavoro emancipato, magari anche a costo di qualche inefficienza, in contrasto con l’obiettivo storicamente necessario precedente del miglioramento delle forze di produzione e quindi della produttività del lavoro. 28. M.Lebowitz, Beyond Capital, second edition (New York: Palgrave MacMillan, 2003), p.181, citando Marx, Capital, Vol.I (New York: Vintage Books, 1977 [1867]) e Marx, Grundrisse (New York: Vintage Books, 1973). 29. Una parola un poco lunga di cautela è qui necessaria ai fini di evitare confusione. Marx ha usato i termini socialismo e comunismo essenzialmente indicando la stessa cosa, usando l’uno o l’altro più spesso in differenti periodi della propria vita. Egli pensava allo sviluppo di questo nuovo modo di produzione come un processo di trasformazione e si riferì allo “stadio inferiore” e allo “stadio superiore” per discutere certi aspetti che tale processo di trasformazione potrebbe assumere in punti differenti di tale processo. Dopo la sua morte, i marxisti hanno usato più che altro il termine socialismo per la fase inferiore del comunismo e comunismo per quella superiore. In sé un tale cambio di termini non dovrebbe essere problematico, ma viene spesso associato ai due nomi il concetto di due formazioni, in opposizione a due fasi in un processo di trasformazione. Lebowitz in generale usa i termini di Marx, concentrandosi sulla trasformazione come processo (sebbene altri, se richiesti in maniera diretta, naturalmente non negherebbero che si tratta di un processo), ed usando i termini socialismo e comunismo in maniera piuttosto intercambiabile. Di qui, quando egli si riferisce al socialismo si sta spesso riferendo alla sua fase più alta, che spesso riferisce ad una situazione dove si è arrivati ad un “modo organico di produzione”, cioè che produce le proprie premesse. Lo stadio o stadi inferiori ai quali a volte si riferisce, in linea con la sua enfasi sul processo, è “il divenire del comunismo”. Egli sostiene in molti punti - per esempio “The Rich Human Being: Marx and the Concept of Real Human Development”, Federico Caffè Centre Report no.3/2004, Roskilde University, Denmark, p.8, che uno degli aspetti più resistenti al cambiamento verso un modo di produzione comunista è “il superamento della proprietà private della forza lavoro”, “il diritto dei produttori associati sulla produzione della società secondo l’offerta di lavoro piuttosto che il fatto di essere membri della società...” I modelli di Devine, Albert e Hanhel, Cockshott e Cottrell, e Campbell sono tutti modelli di socialismo, con questo tipo di relazione di lavoro. In più, questo articolo concerne una transizione ad uno stadio inferiore, la transizione ad una fase di transizione. Il presente autore è d’accordo con quelli - come S.Gindin “Socialism with Sober Senses: Developing Workers’ Capacities”, The Socialist Register (1998), p.87 - che sostengono che pur continuando a comprendere il socialismo come parte di un processo (ed in particolare non un modo di produzione coerente nel senso di Lebowitz), abbiamo bisogno di sviluppare molto più pienamente la nostra comprensione della dinamica della transizione al socialismo e non semplicemente assumere che in qualche modo si salti al socialismo, o neanche concentrare la nostra attenzione sulla dinamica del socialismo come transizione al comunismo. Messo in maniera semplice, il processo dell’arrivo al socialismo si è dimostrato storicamente come molto più complicato teoricamente e praticamente di quello che si immaginava Marx. Tutta questa collezione di articoli, naturalmente, è intesa esattamente come un contributo a questa impresa. 30. Lebowitz, “The Rich human Being”, op.cit., pp.9, 7. 31. Freire, op.cit., p.30. 32. Lebowitz, “The Rich Human Being”, op.cit., p.9, quoting Marx, op.cit., p.447. 33. Gindin, op.cit., pp.77, 79. 34. Ibid., pp.75, 87. 35. Ibid., p.90. 36. Ibid., p.91. 37. Ibid. 38. S.Gindin, “The Auto Industry: Concretizing Working Class Solidarity: Internationalism beyond Slogans”, Socialist Intervention Pamphlet Series, 2004 http://www.socialistproject.ca/documents, consultato 26 Maggio 2006. 39. A.Marquetti, “The Characteristics of the Brazilian Cities with Participatory Budgeting”, Mimeo: Pontificia Universidade Catolica Rio Grande do Sul 2004; G.Allegretti e C.Herzberg, “Participatory Budgets in Europe. Between Efficiency and Growing Local Democracy”, TNI Briefing Series No 2004/5. Amsterdam: Transitional Institute and the Centre for Democratic Policy Making, 2004. 40. Si veda per esempio Marquetti, op.cit.: Marquetti, “Participatory Budgeting in Porto Alegre as a Redistributive Policy”, Proceedings of the Marx International Congress III, Nanterre, 2001, http://www.gances.pro.br/aam/download/participatory_budegting_redistributive_policy.pdf (con l’ortografia sbagliata di budgeting come indicato), consultato il 26 Maggio 2006; Allegretti e Herzberg, op.cit.; R.Abers, Inventing Local Democracy (Boulder, CO:Lynne Renner Publishers, 2000). 41. Marquetti, op.cit., 2. 42. La prima di tali assemblee è una sessione contabile, dove la municipalità presenta ciò che è stato fatto da ciò che si doveva fare l’anno precedente, e spiega perché certe cose non si sono potute fare. 43. Abers, op.cit. p.178. 44. Ibid. 45. In questo articolo ho considerato cambiamenti a livello di posto di lavoro e di comunità (società civile). Una gran parte della vita è spesa in una terza istituzione, la famiglia (includendo le famiglie di un membro solo), ed enormi cambiamenti avranno luogo nella vita e nella struttura di famiglia come parte della costruzione delle capacità umane. Mentre non sono entrato in questo complicato tema più che altro per ragioni di spazio, è pur vero che molti cambiamenti nella struttura della famiglia e del comportamento umano verranno da cambiamenti del posto di lavoro e della comunità. Alcuni facili esempi di cui vediamo già i precursori (nel provare a mitigare gli effetti limitanti umani del capitalismo) includono maggiore istruzione e opportunità di lavoro (compresa la leadership politica) per le donne, più possibilità per le strutture per l’infanzia, organizzazioni per la ristorazione e la casa (trasformando queste attività da attività di famiglia a attività di comunità) e così via.