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TEORIA E STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO PER INDAGARE SUI PROCESSI DI TRANSIZIONE

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Guglielmo Carchedi
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Dalla teoria di Marx l’analisi delle forze produttive e della transizione
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Dalla teoria di Marx l’analisi delle forze produttive e della transizione

Guglielmo Carchedi

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1. Importanza della natura di classe delle forze produttive per la transizione

La questione della natura delle forze produttive gioca un ruolo fondamentale per la lotta e lo sviluppo di una futura società socialista. Tradizionalmente nel pensiero Marxista esse sono state considerate come socialmente neutre, cioè senza un contenuto di classe, e quindi adatte sia ad una società capitalista che ad una socialista. Sarebbe la contraddizione tra forze di produzione neutre e relazioni di produzione capitaliste che causerebbe la caduta del capitalismo e l’avvento del socialismo. Se, come si propone, le forze di produzione si sviluppano di moto proprio, esse ad un certo punto diventano incompatibili con le relazioni di produzione capitaliste che sono un freno a tale sviluppo. Il risultato di tale contraddizione è il socialismo. Da questa prospettiva vi è quindi un certo automatismo nell’avvento del socialismo. Tale tesi è confortante perché il socialismo sembra essere inevitabile. Malauguratamente però è sbagliata. Nella teoria di Marx le forze di produzione non sono per nulla neutre ma hanno un carattere di classe. Quindi la contraddizione di cui sopra non è tra forze di produzione neutre e relazioni di produzione capitalistiche ma tra forze e relazioni di produzione entrambe capitalistiche. È solo in questo senso che è possibile sostenere che la contraddizione che produce le condizioni oggettive per il superamento del capitalismo è interna, inerente al capitalismo stesso. In questo caso, non è più possibile sostenere le forze produttive, non essendo neutre ma avendo un carattere di classe capitalista, possono essere usate anche nel socialismo. Ed è solo da questa prospettiva che bisogna pensare ad una futura società socialista. Questa è una delle più importanti lezioni che Marx ci ha lasciato. Dobbiamo recuperarla se non vogliamo ripetere i tragici errori che hanno condotto alle brucianti sconfitte del movimento comunista nel secolo ventesimo.

2. Definizione di forze produttive. Loro relazione con i rapporti di produzione Vediamo prima cosa sono le forze produttive. Esse sono la scienza, la tecnica e la loro applicazione al processo lavorativo, e quindi all’organizzazione del lavoro, che nel capitalismo assume la forma del processo di produzione capitalista. Lo sviluppo delle forze produttive è misurato quantitativamente dall’aumento della produttività, e cioè della maggiore quantità di valori d’uso prodotti con una data unità di capitale. L’aumento della produttività é dovuto principalmente alla concretizzazione della scienza nelle innovazioni tecnologiche e alla loro applicazione alla organizzazioni del lavoro. Vediamo ora cosa sono le relazioni di produzione. Esse sono le relazioni in cui entrano coloro che partecipano al processo lavorativo. Nel capitalismo esse derivano dalla relazione di proprietà. Cioè nel capitalismo vi sono i proprietari dei mezzi di produzione e coloro che vendono la loro forza lavoro ai primi e che sono i lavoratori in senso lato. Quindi, le relazioni di produzione sono anche e soprattutto le relazioni tra i produttori e i non produttori. Più specificamente, i capitalisti decidono e impongono ai lavoratori che cosa produrre, per chi e come, cioè con quali metodi e tecniche. Le relazioni di produzione sono quindi conflittuali e contraddittorie. Per Marx, la relazione di proprietà e quindi le relazioni di produzione determinano tutti gli altri fenomeni sociali e quindi anche le forze produttive e quindi anche la scienza e la tecnica. Ne consegue che anche queste ultime sono internamente contraddittorie, con un contenuto di classe contradditorio. Esse non sono quindi neutrali.

3. Lo sviluppo delle forze produttive come causa ultima delle crisi L’applicazione delle innovazioni tecnologiche al processo lavorativo con conseguente aumento della produttività è il fattore dinamico per eccellenza del capitalismo. I diversi capitalisti devono introdurre metodi sempre più efficienti, produttività sempre più alte, perché questo è il modo per ottenere un vantaggio sui concorrenti, per aumentare i propri profitti alle spese dei concorrenti e quindi per crescere. In questo sistema se uno non cresce viene inghiottito dagli altri concorrenti. Ma le innovazioni tecnologiche non aumentano semplicemente la produttività, esse implicano tendenzialmente una sostituzione dei lavoratori con mezzi di produzione (macchine). Dato che solo il lavoro produce valore e plusvalore, l’introduzione delle innovazioni tecnologiche comporta una minore produzione di valore e plusvalore. In tal modo il plusvalore prodotto per unità di capitale (e quindi il tasso di profitto) cade mentre la quantità dei prodotti (valori d’uso) aumenta. Questa è la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalista, una sempre maggiore quantità di prodotti (valori d’uso) ma una sempre minore produzione di valore e plusvalore, ovvero una maggiore quantità di prodotti assieme ad una maggiore disoccupazione. Questo processo è riassunto dalla caduta tendenziale del tasso di profitto. E quando i profitti cadono il capitalismo si ritrova in una situazione di crisi. Quindi il capitalismo tende verso una sempre minore produzione percentuale di plusvalore e quindi verso la crisi, la distruzione di capitale e quindi verso il proprio superamento. Questo movimento è ciclico. Quando sufficiente capitale è stato distrutto, la fase ascendente ricomincia. Per Marx il tasso medio di profitto cade non perché la produttività cade ma perché aumenta (1967, p.240). Questa è la causa ultima delle crisi economiche e quindi sociali e non come va oggigiorno di moda l’insufficiente potere d’acquisto delle masse dato dai salari troppo bassi. I salari troppo bassi sono una conseguenza della crisi, non la loro causa. Non ci vuole Marx per sapere che quando i salari cadono, i profitti aumentano. Se i profitti cadono assieme ai salari, come in tutte le crisi, la causa è la diminuzione percentuale del plusvalore. Se i salari troppo bassi fossero la causa delle crisi sarebbe sufficiente aumentarli per uscire e tenersi lontano dalla crisi. Questo è Keynes, non Marx. Questa è una teoria che ipotizza la possibilità di un capitalismo senza crisi. E questo è il suo contenuto di classe. È quindi importante sapere che il sistema capitalista tende non verso la propria riproduzione equilibrata, come sostenuto dall’economia ortodossa, ma verso le crisi e il proprio superamento. Come dice Marx, “queste catastrofi si ripetono regolarmente con ampiezza sempre maggiore e infine conducono al suo violento rovesciamento” (Grundrisse). Che tali catastrofi si ripetano regolarmente su scala sempre maggiore è sotto gli occhi di tutti ed è un’ulteriore prova empirica della correttezza della analisi di Marx. Che il violento rovesciamento non vi sia ancora stato deve essere visto nell’ottica dei tentativi rivoluzionari che dimostrano l’esistenza della tendenza verso il verificarsi di una realtà alternativa la cui concretizzazione è possibile ma non automaticamente certa. Anche in questo senso l’analisi di Marx si dimostra corretta. Detto diversamente, le crisi creano le condizioni oggettive per il superamento del capitalismo. Esse sono necessarie ma non sufficienti. Come è ben risaputo, tale superamento richiede anche un elemento soggettivo, la coscienza da parte del lavoratore collettivo della necessità di superare il capitalismo e un suo agire conformemente a tale coscienza (Carchedi, 2005).

4. Il doppio carattere del processo di produzione capitalista La competizione tecnologica, quindi, aumenta i profitti degli innovatori a scapito dei profitti dei produttori arretrati tecnologicamente, che usano tecniche meno avanzate. L’altra grande fonte di plusvalore è ovviamente l’aumento dello sfruttamento. Per capire ciò, esaminiamo il processo produttivo come analizzato da Marx. Il processo di produzione capitalista ha due facce: esso è il processo lavorativo, la trasformazione di valori d’uso in nuovi valori d’uso (per esempio, legno, chiodi, colla, ecc. in un tavolo), e allo stesso tempo il processo di estrazione di pluslavoro. Cioè i lavoratori devono lavorare per un tempo superiore a quello necessario per produrre quei beni che sono necessari per ricostituire la propria forza lavoro. Nel sistema capitalista questo pluslavoro si chiama plusvalore. Nel moderno sistema capitalista questa estrazione non è più il compito del solo capitalista. Essa è il compito di tutti coloro, i non-produttori che nella stragrande maggioranza non sono capitalisti, che fanno quella che Marx chiama la funzione del capitale. Il loro compito è quello di controllare e sorvegliare sia i produttori che se stessi al fine di estrarre plusvalore. Vi è quindi un aspetto coercitivo nel modo di produzione capitalista, l’estrazione del plusvalore e cioè il forzare i lavoratori a lavorare per un tempo più lungo di quello necessario per la ricostituzione della propria forza lavoro. In quel tempo maggiore vengono prodotti i profitti. Ne consegue che solo il lavoro produce sia beni che il valore contenuto in essi. La produttività quindi è solo del lavoro, non anche del capitale. Anche su questo punto la teoria di Marx è del tutto antitetica a quella ortodossa compresa quella neo-classica.

5. Il carattere di classe del processo lavorativo Ma l’aspetto coercitivo e quindi capitalista oltre ad essere insito nella funzione del capitale (l’estrazione del plusvalore) è anche una qualità intrinseca del processo lavorativo, della trasformazione di valori d’uso in nuovi valori d’uso. Questo aspetto coercitivo si manifesta nel processo lavorativo in vari modi. Per esempio: 1) il processo lavorativo capitalista è basato su un costante e tendenziale frazionamento delle mansioni che dequalifica tali mansioni e quindi riduce il valore della forza lavoro e quindi i salari, 2) in esso i lavoratori sono espropriati della conoscenza necessaria per tali mansioni sia attraverso la separazione del lavoro materiale dal lavoro mentale sia attraverso la dequalificazione del lavoro sia materiale che mentale, 3) ciò impedisce lo sviluppo della personalità di tutti e di ciascuno attraverso il proprio lavoro. 4) in breve i lavoratori sono un’appendice delle macchine e sono governati dalle macchine e perdono così la possibilità di sviluppare tutte le loro potenzialità attraverso il proprio lavoro.

6. La non neutralità della organizzazione del lavoro Ora, la tesi della neutralità delle forze produttive, applicata all’organizzazione del lavoro, si basa in un modo o nell’altro sull’opinione che sia possibile abolire il capitale e quindi la funzione del capitale e quindi lo sfruttamento mantenendo però immutata l’organizzazione del processo lavorativo, per esempio la catena di montaggio o le tecniche manageriali sviluppate dai capitalisti o chi per loro. L’efficienza e razionalità dell’organizzazione del lavoro sarebbero quindi indipendenti dallo sfruttamento capitalista e potrebbero quindi essere applicati ad un sistema in transizione o socialista. Le forze produttive sarebbero quindi neutrali mentre sarebbe il loro uso ad essere socialmente determinato. Il processo di produzione socialista sarebbe quindi uguale all’organizzazione del lavoro o della produzione capitalista meno l’estrazione di plusvalore (funzione del capitale). Tuttavia, anche se la funzione del capitale fosse abolita, rimarrebbe un processo lavorativo alieno al socialismo perché basato sulla coercizione, come argomentato nel punto 5 più sopra. Per Marx, il sistema socialista è un sistema in cui ciascuno ha la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità assieme a tutti gli altri e non a scapito degli altri. Si vede dunque come, per quanto riguarda quell’aspetto delle forze produttive che è il processo lavorativo, che le forze produttive non sono neutrali ma sono intrise del carattere di classe capitalista. Ciò significa che il processo lavorativo capitalista non può servire come base di un processo produttivo socialista.

7. Prefigurazioni di una razionalità e delle forze di produzione socialiste Non sappiamo quale forma concreta assumerà la razionalità e quindi il processo lavorativo socialista. Ma sia l’opera di Marx che la storia del movimento operaio che i vari movimenti di liberazione e sociali indicano che le sue caratteristiche essenziali saranno: 1) non la separazione del lavoro materiale da quello mentale ma la loro unificazione in nuove mansioni che incorporeranno entrambi i tipi di lavoro, 2) non la tendenziale dequalificazione di tali mansioni ma la loro tendenziale riqualificazione, 3) non la mutilazione della personalità umana e non la repressione delle possibilità di ciascuno insita nelle mansioni parcellizzate ma una divisione tecnica del lavoro che sviluppi tutti gli aspetti della personalità umana, 4) non una supervisione e un controllo autoritari (che essi siano il compito dei capitalisti e dei loro agenti o, come credeva Gramsci, dei lavoratori stessi) ma una disciplina che scaturisce da una cooperazione in cui ciascuno si sviluppa assieme a tutti gli altri piuttosto che a scapito degli altri.

A differenza delle condizioni in cui si trovarono ad agire i movimenti comunisti nei primi decenni del secolo scorso, oggigiorno il lavoratore collettivo è oggettivamente più capace di creare una società socialista sulla base di questi quattro punti. La questione che ora emerge spontanea è questa: vi sono nei paesi tecnologicamente avanzati elementi che oggigiorno rappresentano novità nei confronti delle passate transizioni avvenute in paesi tecnologicamente arretrati? Ve ne sono molti, e di grande importanza. Indichiamone solo due. Primo, il generalizzato alto livello di produttività in tutti i settori renderebbe del tutto secondaria la necessità di ricorrere a incentivi materiali come metodo per spronare i lavoratori nelle aree tecnologicamente meno sviluppate a compensare tale ritardo tecnologico con un maggiore input di lavoro. Per esempio, il male endemico delle passate transizioni, la bassa produttività del settore agricolo, non caratterizza più le nostre economie che, al contrario, sovvenzionano a livello europeo e Nord Americano i coltivatori che vogliano tenere incolti i propri campi. Ritardi di produttività potranno essere risolti con altri mezzi, dato che il lavoratore collettivo dispone (come già dispone ora) dei mezzi conoscitivi per gestire e modificare un sistema economico ad alta efficienza e produttività. Secondo, oggigiorno la coordinazione a diversi livelli dell’economia (attraverso un piano) è possibile sulla base di un sistema informatico in grado di stabilire i bisogni di ciascuna impresa, settore, ecc. in termini di valori d’uso necessari come inputs e outputs di ciascun settore una volta stabiliti i target di produzione e i salari.

8. Lenin, Gramsci e le forze produttive Anche dei giganti del movimento comunista internazionale come Lenin e Gramsci non si sono sottratti a questa concezione erronea, il primo favorendo l’introduzione del Taylorismo e il secondo accettando che si mantenesse la coercizione, che per lui era sinonimo di coercizione capitalista, nella produzione.1 È indubbio che l’opinione di Lenin sul Taylorismo fosse stata dettata dalle disastrose condizioni in cui si trovava il giovane stato Sovietico in un ostile mondo capitalista. Tuttavia, come messo in evidenza da Linhart (1976), se è vero che la cosiddetta ‘organizzazione scientifica’ poteva apparire a Lenin come un metodo per aumentare la produzione e la disciplina di una forza lavoro ancora prevalentemente di origine contadina, è anche vero che le ambiguità di Lenin sul Taylorismo risalgono a ben prima, al 1913 e 1914. In quegli anni, in due articoli pubblicati nella Pravda egli tentò di separare l’spetto ‘razionale’ del Taylorismo dalla sua natura sfruttatrice e coercitiva. (Collected Works, No.18, pp. 594-595 e no.20, pp. 152-154). Queste ambiguità permangono negli anni tra il 1914 e il 1918, come si vede nei ‘quaderni sull’imperialismo’, allora ancora non pubblicati, e riappaiono nella primavera del 1918 quando Lenin perorò per l’introduzione del Taylorismo (Collected Works, no.27, pp. 235-277 e no. 42, pp. 68-84). Si può quindi dire che questa fu una costante del pensiero di Lenin. Questa costante è presente anche in quella breve concezione di Lenin che fu il ‘Taylorismo Sovietico’. Prima, il Taylorismo avrebbe dovuto essere una specie di appropriazione collettiva del sapere da parte di una classe lavoratrice. Poi, grazie al Taylorismo, gli incrementi di produttività avrebbero permesso la riduzione della giornata lavorativa e quindi una crescente e massiccia partecipazione della classe lavoratrice alla gestione dello stato (Linhart, 1976, pp. 110-114). Quello che manca in tale concezione è la percezione che il Taylorismo è una forma di organizzazione del lavoro capitalista e come tale aliena al socialismo, per i motivi appena menzionati. Se non vi è socialismo a livello della produzione, della vita lavorativa, non vi può essere socialismo nella conduzione dello stato in altre sfere della società. Che un implacabile critico del capitalismo come Lenin potesse pensare di poter usare il Taylorismo per costruire il socialismo, di poter separare un nocciolo senza un contenuto di classe dagli altri aspetti ‘capitalistici’ del Taylorismo, rivela che egli pensasse che fosse possibile liberare forze produttive essenzialmente neutrali e usarle per la costruzione del socialismo. Fondamentalmente manca in Lenin la percezione che il Taylorismo implica l’assoggettamento e l’esautorazione dei lavoratori nella sfera economica, l’abolizione della loro iniziativa e attività intellettuale. Su questa base è impossibile costruire il socialismo. Ancora più esplicitamente di Lenin, anche Gramsci credeva che “l’organizzazione e la divisione capitalista del lavoro sono ... forze produttive neutrali”, anzi che sono favorevoli perché esse abituano il lavoratore alla disciplina (Guastini, in Autori Vari, 1977, p.34). Qui considererò solo gli scritti del 1919-1920, il periodo dell’”Ordine Nuovo” (1975a). Indubbiamente, abbiamo qui articoli, la maggior parte dei quali non più lunghi di un paio di pagine, scritte in uno stile giornalistico sotto l’impulso degli eventi incalzanti e influenzati dalle condizioni di emergenza in cui si trovava l’economia italiana subito dopo la Prima Guerra Mondiale. Da questo punto di vista, le similarità con le condizioni del giovane stato sovietico sono chiare. Non è per nulla sorprendente quindi che anche Gramsci concentrasse la sua attenzione sul bisogno di aumentare la produttività fino al punto di trascurare la questione cruciale della natura di classe della organizzazione del lavoro, e cioè che nessun uso alternativo di tale organizzazione può servire alla costruzione del socialismo. Tuttavia, anche nel caso di Gramsci come in Lenin, ciò è dovuto sia a limiti teorici che alle necessità immediate. Così Gramsci sottolinea giustamente che il socialismo richiede l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione ma non si rende conto che l’abolizione dello sfruttamento e del soggiogamento capitalista richiede anche e soprattutto un altro sistema di produzione e quindi un altro processo lavorativo. Non a caso il socialismo per Gramsci è l’universalizzazione del modo di esistenza del proletariato (1975a, p. 412) piuttosto che la sua abolizione. Per Gramsci il socialismo favorisce la crescita quantitativa delle forze di produzione ma non vi è menzione della necessità di trasformarle qualitativamente. Ciò porta a tre conclusioni errate. Primo, la divisione capitalista del lavoro favorisce la solidarietà di classe (1975a, pp. 325-326). Questo è così distante da Marx come è vicino a Durkheim nella sua opera “La divisione del lavoro nella società” (1964, p.389). Secondo, come Lenin, Gramsci è acriticamente positivo nei confronti dei “Sabati Comunisti” la cui organizzazione non differiva dalla tradizionale organizzazione del processo di produzione capitalista. Egli non solo non nota che manca nei Sabati Comunisti qualsiasi tentativo di stimolare la creatività delle masse ma addirittura ne elogia la disciplina da esercito. La natura di tale disciplina non è per lui capitalista: oggi è imposta sui lavoratori dai capitalisti, domani sarà accettata spontaneamente dai lavoratori stessi. Come dice Gramsci: “Il principio della coercizione, sia diretta che indiretta, nell’organizzare la produzione e il lavoro, è corretto” (1971, p. 301). Lenin e Gramsci, dunque, commisero un errore nel ritenere che il processo lavorativo, e più in generale le forze produttive, fossero neutrali. Tuttavia, questo fu probabilmente un errore obbligato sia dalla loro inadeguatezza teorica sia dalla congiuntura economica e politica di allora caratterizzata dalla arretratezza economica, dall’aggressione imperialista, ecc. Comunque sia, come vedremo, oggigiorno le condizioni del lavoratore collettivo non solo nel centro imperialista ma in sostanza in tutto il globo sono del tutto diverse. Il livello di conoscenza della classe operaia e la sua possibilità di gestione della società in tutti i suoi aspetti sono tali da rendere del tutto ovvia l’incongruenza tra qualsiasi forma di organizzazione del lavoro capitalista (e non solo del tipo Tayloristico) e la costruzione di una società alternativa.

9. Che Guevara e le forze produttive L’errore fatto da Lenin e Gramsci non fu fatto da un altro gigante della lotta dei lavoratori, Ernesto Che Guevara. Come enfatizzato da Luciano Vasapollo, ”Per il Che il protrarsi delle relazioni mercantili nell’Unione Sovietica segnalerebbe addirittura un lento processo di restaurazione del capitalismo” (2007, p.118). Io penso che il Che avesse ragione. La relazione mercantile richiede l’homo economicus della economia capitalista, un essere egoista e calcolatore che punta al proprio miglioramento alle spese degli altri piuttosto che assieme agli altri. La relazione mercantile, così come la coercizione imposta sulla classe operaia, gli incentivi materiali, ecc., sono acidi corrosivi della relazione di produzione socialista perché distruggono i principi fondamentali su cui tale relazione si basa. Per citare ancora Che Guevara, “il socialismo ... si costruisce per l’uomo integrale, [ma] questi deve trasformarsi insieme alla produzione” (Vasapollo, p. 127) e quindi sulla base di nuove relazioni di produzione e nuove forze produttive.

10. Il carattere di classe della scienza e della tecnica Se il processo lavorativo è formato dalle tecniche e se le tecniche a loro volta sono una concretizzazione della scienza, in un sistema socialista sono anche le tecniche e quindi le scienze che devono essere funzionali al pieno sviluppo di tutte le potenzialità insite in ciascuno di noi. Esse devono essere l’espressione di una razionalità diversa da quella capitalista e quindi devono avere un diverso carattere di classe. È questo il messaggio di Marx che fu riscoperto negli anni 1970 e che è andato di nuovo perduto. Che Marx fosse contrario alla tesi della neutralità della conoscenza risulta, tra l’altro dal seguente passaggio: “Sarebbe possibile scrivere una storia delle invenzioni fatte dal 1830 per il solo scopo di dare al capitale le armi contro le rivolte della classe operaia” (Capital I, International publishers, 1967, p.436). D’altra parte dovrebbe far riflettere il fatto che tutte le importanti scoperte o invenzioni del secondo dopo guerra, dall’energia atomica a laser a internet, sono state motivate dall’industria militare e solo dopo sono state adattate a usi pacifici. La prova teorica che la scienza e la tecnica sono determinate dalle relazioni di produzione e che hanno quindi un carattere di classe richiederebbe un approfondimento della teoria della conoscenza Marxista che ovviamente non è possibile fare in questa sede. Qui, mi limiterò solo ad alcuni accenni. Abbiamo visto che la produzione capitalista è estrazione di plusvalore e quindi coercizione. Le due grandi classi fondamentali sono quindi il capitale che estrae il plusvalore - attraverso tutti coloro che pur non essendo capitalisti fanno la funzione del capitale - e i lavoratori da cui viene estratto il plusvalore e che in diverse maniere resistono a tale sfruttamento. Questo diventa chiaro se pensiamo alla storia del movimento operaio che è una storia di lotta tra capitale e lavoro e che è intercalata e frammezzata da tentativi di superare il sistema capitalista e rimpiazzarlo con un diverso sistema. I capitalisti esprimono la propria razionalità che è basata sullo sfruttamento, sulla disuguaglianza e sull’egoismo e il lavoro esprime la propria razionalità che è basata sulla cooperazione, solidarietà e uguaglianza. Il sistema capitalista esprime dunque due razionalità e non una solo, quella del capitale, come sostenuto dalle scienze sociali di stampo ufficiale. Il lavoro e il capitale sono i portatori di queste due opposte razionalità. Essi sono le due personificazioni collettive della tendenza del sistema verso la propria riproduzione (e quindi della continuazione del dominio del capitale sul lavoro) e verso il proprio superamento (e quindi della resistenza del lavoro contro tale dominio al fine di abolirlo). Ogni fenomeno sociale è intriso di tale doppio carattere di classe. Questo vale anche per la ideazione della conoscenza e quindi anche delle scienze naturali e delle tecniche. L’aspetto specifico della concezione della conoscenza è che il doppio carattere di classe si manifesta in tre tipi differenti di conoscenza. In un primo tipo, la conoscenza è stata concepita dal lavoratore mentale collettivo per essere usata dal capitale (o chi per esso) per il capitale. Qui è il capitale che decide che tipo di conoscenza produrre, per chi (per se stesso solamente) e come. Nella sua produzione, la razionalità del capitale esclude quella del lavoro. La prima è vista solo come positiva e la seconda solo come negativa, qualcosa da evitare. Il lavoro non può usare la propria razionalità nel concepire tale conoscenza e a questa razionalità non è permesso manifestarsi, cioè questa conoscenza non può essere usata per resistere al dominio del capitale. Un esempio è il Taylorismo che incrementa la produttività attraverso la frammentazione della personalità umana e la creazione di tragiche caricature di esseri umani. I lavoratori mentali che ideano questo tipo di tecniche diventano oggettivamente agenti del capitale. In un secondo tipo, la conoscenza è stata prodotta dal lavoratore mentale collettivo per essere usata dal lavoro per il lavoro. Qui è il lavoro che decide che tipo di conoscenze produrre, per chi (per se stesso solamente) e come. Nella sua produzione, la razionalità del lavoro esclude quella del capitale. In questa produzione è la razionalità del lavoro ad essere stata vista solo come positiva e quella del capitale solo come negativa, qualcosa da evitare. Questo tipo di conoscenza quindi si pone di là delle relazioni di produzione capitaliste ed è una prefigurazione di una conoscenza prodotta in un sistema alternativo, socialista. Questo è il caso di una teoria o di un sistema produttivo si basa su un sistema di aiuto reciproco in cui i migliori aiutano e insegnano agli altri, in cui cioè ciascuno migliora le proprie condizioni e sviluppa le proprie potenzialità assieme agli altri piuttosto che alle spese degli altri. Ma vi è un terzo tipo, la conoscenza che è stata ideata dal lavoratore mentale collettivo per essere usata dal lavoro per il capitale. Questa conoscenza è stata prodotta nell’ambito della relazione di produzione capitalista e cioè nella sua produzione è il capitale che decide quale tipo di conoscenza produrre, per chi e come. Questa conoscenza quindi può essere usata dal capitale per esercitare il suo dominio sul lavoro. Tuttavia, la razionalità del lavoro, basata sulla cooperazione, solidarietà e uguaglianza, giuoca un ruolo positivo nella concezione di questa conoscenza ma è subordinata alla razionalità del capitale. Ciò significa che le è permesso manifestarsi, e che quindi può essere usata per resistere al dominio del capitale, ma solo nei limiti posti dal capitale. Conseguentemente, questa conoscenza contribuisce a riprodurre il capitale e la sua razionalità anche quando usata dal lavoro per resistere al dominio del capitale. Ciò spiega come e perché il lavoro può usare questa conoscenza prodotta per il capitale al fine di resistere il dominio del capitale e come e perché l’uso da parte del lavoro della conoscenza prodotta da esso stesso non può cancellare completamente la sua natura capitalista e quindi contribuisce allo stesso tempo anche alla riproduzione di tale dominio. Questa conoscenza, quindi, ha una doppia natura di classe e un doppio e contradditorio effetto per la lotta dei lavoratori contro il capitale. La sua possibilità di essere usata da entrambe le classi non è dovuta alla sua neutralità, al fatto che la lotta di classe non avrebbe nulla a che fare con la sua concezione. Al contrario, la possibilità di essere usata da entrambe le classi è dovuta proprio al suo carattere di classe, al suo essere un prodotto di due opposte razionalità di cui l’una ha dominato l’altra. È questa la conoscenza che viene erroneamente considerata come neutrale, semplicemente perché può essere usata da entrambe le classi. Vi sono due ulteriori questioni. Primo, perché dovrebbe il capitale permettere la concezione ed applicazione di un tipo di scienza, quella usata dal lavoro per il capitale che permette al lavoro di usarla per resistere al dominio del capitale (anche se nei limiti sopracitati) mentre è possibile produrre una conoscenza, quella del primo tipo che è concepita per l’uso del capitale per il capitale, e che quindi non permette tale possibilità? Il fatto è che l’uso della conoscenza del primo tipo opprime e soffoca la creatività dei lavoratori sia mentali che materiali. Ma il capitale ha bisogno della loro creatività anche e soprattutto perché la competizione tecnologica, che è il motore dello sviluppo capitalista, richiede un processo creativo di scienze e tecnologie da applicare al processo lavorativo. Ciò significa che la creatività del lavoro è allo stesso tempo sia repressa che stimolata, sia pur entro i sopra menzionati limiti. Ma non vi può essere creatività senza indipendenza di pensiero e quindi senza la possibilità di usare tale pensiero per esprimere la propria razionalità e quindi per resistere al dominio del capitale. Secondo, com’è possibile che un pensatore, uno scienziato, produca una scienza o tecnica basata sulla razionalità del lavoro o su quella del capitale? Come può fare uno scienziato a interpretare i bisogni di una classe anche quando pensa in isolamento da altri scienziati e lavoratori intellettuali? Marx indica una risposta nel seguente passaggio: “Ma anche quando io sono attivo scientificamente ecc. - un’attività che io medesimo posso realizzare raramente in comunanza immediata con altri - io sono sociale perché attivo come uomo. Non soltanto il materiale della mia attività - come altresì lo stesso linguaggio con cui il pensatore opera - mi è dato come prodotto sociale, ma la mia propria esistenza è attività sociale, e però ciò che io faccio di me lo faccio per la società e con la coscienza di me come ente sociale.” Se ne avessimo il tempo, potremmo sviluppare ciò che è insito in tale citazione. Alcuni punti salienti sono i seguenti. Ciascun individuo interiorizza durante tutto l’arco della sua vita i fenomeni sociali a cui è esposto. Siccome tali fenomeni sociali hanno un carattere di classe contradditorio, ciascun individuo interiorizza queste due razionalità, ciascuno nel suo modo specifico e unico. Questi fenomeni sociali e quindi queste razionalità sono ridotti allo stato potenziale perché diventano elementi della sua coscienza individuale e specifica. Essi possono riemergere come fenomeni sociali in modi e forme diverse attraverso il seguente processo. Gli individui, oltre ad essere unici e diversi l’uno dall’altro per definizione, sono anche portatori di relazioni sociali, cioè hanno caratteristiche comuni. Alcune non sono socialmente significative (alcuni individui hanno i capelli lisci e altri i capelli ricci) mentre altre sono validate socialmente. Per esempio, alcuni individui sono i proprietari dei mezzi di produzione e altri no, alcuni sono di pelle bianca e altri di pelle scura (una caratteristica validata socialmente in un società razzista), alcuni sono uomini e altri donne (una differenza significativa in una società sessista), ecc. Si formano così gruppi e classi. Sono queste caratteristiche comuni e socialmente significative che unificano individui altrimenti irrimediabilmente diversi. Ora, ciascun gruppo ha interessi propri e questi interessi sono comuni a tutti coloro che oggettivamente sono membri di quel gruppo, anche se ciascuno interpreta quegli interessi nel suo modo specifico. Coloro che hanno le caratteristiche personali atte a rappresentare gli interessi comuni diventano rappresentanti degli interessi di quel gruppo. Nel campo della scienza questi sono gli scienziati, coloro che interpretano gli interessi delle classi e li traducono in teorie e tecniche con uno specifico contenuto di classe. Ovviamente tutto ciò dovrebbe essere argomentato in maggior dettaglio ma questi brevi appunti dovrebbero essere sufficienti per indicare la direzione in cui la teoria della conoscenza di Marx dovrebbe essere sviluppata. Tutto ciò è molto astratto. Rendiamolo più concreto facendo un paio di esempi. Nel suo classico lavoro del 1931, Hessen dimostra come le scoperte di Newton furono socialmente determinate, cioè determinate dalle esigenze del capitale. Hessen dimostrò che esse furono necessarie per lo sviluppo del capitalismo nelle aree della comunicazione, dell’industria e della guerra e che la soluzione di tali problemi richiedeva un tipo nuovo di scienza, basato sulla conoscenza delle cause e quindi capace di riprodurre fenomeni sperimentalmente e quindi industrialmente. Le scoperte di Newton possono essere usate da entrambe le classi nella loro lotta quotidiana ma allo stesso tempo la loro scoperta contribuì all’espansione del sistema capitalista e quindi al rafforzamento del dominio del capitale sul lavoro. Il loro uso continua a rafforzare tale dominio anche quando è anche il lavoro ad avvantaggiarsene. Ciò vale anche per il rapporto tra esseri umani e natura. Angelo Baracca ha sottolineato come la scienza moderna ha adottato, applicato e sviluppato in modo estremamente efficiente la razionalità capitalista alla relazione tra società e natura, e cioè allo sfruttamento delle risorse naturali, alla trasformazione della natura secondo i bisogni della produzione capitalista, del profitto e del mercato (2000, pp.171-2). Lo sfruttamento della natura in modo capitalista non può che rafforzare la razionalità capitalista (da qui problemi come l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse naturali) anche se è anche il lavoro a trarne vantaggio. Vi è per di più un aspetto ideologico. Gli effetti positivi in termini di produzione e produttività di queste scienze rafforzano la convinzione che esse e quindi la razionalità del capitale siano le uniche che possano condurre il genere umano verso il progresso. Da questo tipo di scienza, da questo quadro concettuale generale, derivano necessariamente tecniche non neutrali ma con uno specifico contenuto di classe e cioè capaci di essere usate sia dal capitale che dal lavoro e aventi l’effetto di contribuire alla riproduzione del capitale anche quando usate dal lavoro contro il capitale. Facciamo un esempio. Noble (1978) ha esaminato la determinazione di classe delle macchine controllate numericamente. L’autore ha dimostrato che la scelta della tecnica del controllo numerico invece di quella basata sul record playback non fu dovuto ad un ineluttabile imperativo tecnologico ma a due ordini di motivi. Primo, il controllo numerico favoriva le grandi aziende piuttosto che le piccole. Infatti, siccome il mercato per queste tecniche fu creato inizialmente dall’aereonautica, i costruttori delle macchine a controllo numerico non avevano alcun interesse a produrre un tipo di macchina meno cara che potesse essere acquistata da aziende minori. Per di più, siccome l’aereonautica favoriva un certo tipo di programma (APT) necessario per operare le macchine, e poiché questo programma richiedeva computers costosi e programmatori esperti, chi non poteva permettersi questi computers e programmatori (cioè le aziende più piccole) non poteva usufruire delle commissioni dell’aereonautica. In secondo luogo, la scelta del controllo numerico favorì il grande capitale non solo a scapito del piccolo capitale ma anche a scapito del lavoro. Nel record playback la macchina ripete i movimenti dell’operatore che sono registrati su un nastro magnetico. La preparazione del nastro magnetico da parte dell’operatore implica che l’operatore ritiene il controllo della macchina e quindi della produzione. Nel controllo numerico, invece, le specificazioni necessarie per fare una certo oggetto vengono tradotte in una rappresentazione matematica, poi in una descrizione matematica dei movimenti dello strumento che deve tagliare quell’oggetto e infine in un grande numero di istruzioni che possono essere lette dalla macchina. Questo tipo di sapere era fuori portata dell’operatore e divenne la prerogativa dell’ufficio di pianificazione. La conoscenza necessaria per azionare le macchine fu quindi trasferita dalle maestranza agli ingegneri e al management. Quello che potrebbe essere visto come il prodotto di un intelletto generale che genera conoscenza in un contesto avulso dalla società e quindi dalle classi, in questo caso le macchine controllate numericamente, è in effetti una sedimentazione della lotta di classe, una manifestazione della lotta di classe nella produzione (e non solo nell’uso) della conoscenza, del dominio del capitale sul lavoro, dell’espropriazione del sapere del lavoro da parte del capitale. L’uso delle macchine a controllo numerico, se sarà necessario in un periodo di transizione, non ne cancellerà il carattere di classe e avrà quindi un effetto contradditorio nel processo di formazione di una società socialista. Considerarle come neutrali e quindi considerare gli effetti del loro uso solo come positivi nel contesto della transizione sottovaluterebbe la loro capacità di ostacolare la costruzione del socialismo e di far risorgere le relazioni di produzione capitaliste accanto a quelle socialiste.

11. Il piano come elemento delle forze produttive Se il capitalismo richiede l’anarchia della produzione e del mercato, il socialismo richiede un’economia pianificata ma non per la produzione di plusvalore ma per la soddisfazione dei bisogni della società socialista. La discussione negli anni 60 sulla contraddizione tra piano e mercato era monca e quindi errata perché il piano era posto come una misura necessariamente funzionale ad un sistema socialista senza discernerne il contenuto di classe. La discussione era resa oscura dalla questione se fosse opportuno applicare metodi matematici di input-output alla pianificazione o no. Col senno di poi è chiaro che questa era una discussione tra due sezioni di una nuova classe capitalista che era emersa nell’Unione Sovietica in cui i lavoratori erano stati resi muti. Tale confusione è riprodotta in uno scritto recente di un anti-marxista. Secondo Smolinski, la ‘matematicofobia’, come la chiamò Kantorovich, risultò in una sostanziale allocazione inefficiente delle risorse e in decisioni non ottimali. Conseguentemente, come argomentò Oskar Lange, l’economia sovietica stagnò e il Marxismo degenerò in uno sterile dogma il cui scopo era quello di essere consono agli interessi della burocrazia. Posta in questi termini, la burocrazia sovietica aveva un interesse nel non applicare metodi razionali, cioè matematici, perché ciò avrebbe minato il proprio dominio mentre i tecnici volevano applicare moderni ed efficienti metodi matematici di pianificazione per razionalizzare l’economia socialista. In realtà, nonostante alcune caratteristiche speciali dell’Unione sovietica, compresa la mancanza di un mercato come sistema di allocazione delle risorse, la ragione della caduta dell’Unione Sovietica fu fondamentalmente che essa era diventata un sistema in cui la classe politico/manageriale aveva la funzione del capitale perché aveva la proprietà effettiva anche se non legale dei mezzi di produzione. L’applicazione di metodi matematici di pianificazione doveva essere uno specchio del mercato e quindi coloro volevano tale applicazione in effetti erano fautori anche se non coscienti di un ritorno al capitalismo classico. I tecnici quindi indebolivano la posizione dei burocrati che non avevano interesse in un ritorno al capitalismo. Sia l’una che l’altra concezione erano opposte ad un sistema di pianificazione veramente socialista perché entrambe erano la rappresentazione ideologica di due fazioni all’interno della classe dirigente sovietica. Siccome l’allocazione ottimale per il capitale è il mercato, il sistema era intrinsecamente debole e incapace di competere con il capitalismo classico. Fu questa la causa fondamentale della debolezza e della caduta dell’Unione Sovietica (Carchedi, 1987). La vera questione avrebbe dovuto essere il piano sia come metodo di dominio dei tecnici, che erano i veicoli ideologici per un ritorno ad un capitalismo classico, che dei burocrati che volevano mantenere lo status quo, e quindi il piano come dominio di classe, verso il piano come strumento di pianificazione popolare e quindi basato sulla decisione collettiva dei lavoratori.

12. Forze produttive e transizione Quanto detto fin qui offre una risposta alla domanda fondamentale se le forze produttive sviluppate nel capitalismo possano essere usate nel periodo di transizione verso il socialismo. Il primo tipo di forze produttive (scienza, tecniche e organizzazione del lavoro), quello concepito per essere usate dal capitale per il capitale, dovrà essere abolito immediatamente. Il secondo tipo (concepito per essere usato dal lavoro per il lavoro) dovrà essere sviluppato il più possibile. Il terzo tipo (concepito per essere usato dal lavoro per il capitale) dovrà essere usato necessariamente ove vi fosse una temporanea mancanza di forze produttive alternative. Tuttavia, tale uso non dovrà essere acritico, come se questa scienza e tecniche fossero neutrali e quindi come se non avessero un doppio e contradditorio effetto sulla transizione verso un sistema socialista. Il loro uso è un altro aspetto della lotta di classe che perdura nella transizione, un altro aspetto della la lotta tra due razionalità, quella funzionale ad un risorgere del capitalismo e quindi basata sullo sfruttamento, disuguaglianza ed egoismo, e quella emergente basata sulla cooperazione, solidarietà e uguaglianza. Il dibattito tra sviluppisti e anti-sviluppisti, e cioè se il proletariato debba favorire il massimo sviluppo delle forze produttive (senza qualifiche) o la loro riduzione, è fuorviante perché non si muove nell’ambito della prospettiva di classe. Il lavoro deve riconoscere che vi sono forze produttive capitaliste e forze produttive socialiste e che sono le seconde che devono essere sviluppate mentre le prime devono essere ridotte fino alla loro sparizione. In ultima istanza, sia gli sviluppisti che anti-sviluppisti sposano la tesi della neutralità delle forze produttive. Ma questa tesi abbandona la teoria di Marx e quindi la prospettiva della classe lavoratrice proprio nel suo punto nevralgico, la produzione, in questo caso la produzione mentale. Questo non può che avere conseguenze negative per la lotta per il socialismo.