LA RISCOMPOSIZIONE della borghesia italiana:dalla “cerniera” degli anni ’90 alla “nuova” crisi dell’attuale millennio
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
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1. Riforme da borghesia piccola, piccola
Le riforme, come altre orientate alla promozione del rischio, agli investimenti e in definitiva all’espansione dell’industria italiana, non sono state inserite nell’agenda degli ultimi governi italiani. Piuttosto essi, al di là del colore politico, hanno proceduto ad un’altra forma di “sostegno all’impresa”, fortemente caldeggiata da Confindustria: la flessibilità e la precarizzazione del mercato del lavoro. Infiorettata con formule efficaci e mascherata da riforma, l’attacco al lavoratore e, di conseguenza, alla presenza sindacale nelle filiere produttive, mira a ridurre i costi economici e sociali del lavoro per le aziende: ma puntare tutto sulla riduzione dei costi invece che sulla promozione della crescita significa confinarsi in un ghetto, condannarsi a sopravvivere piuttosto che a vivere. Così comincia la lunga marcia della demolizione di regole e confini morali operata dalla borghesia italiana moderna, che spazza via ogni intralcio alla speculazione, praticandola secondo il bisogno anche con mezzi illegali.
Questa “flessibilità”, questa formula della new-economy basata sui movimenti verticali e orizzontali dei lavoratori ai soli fini di abbassare il costo del lavoro per sostenere la profittabilità d’impresa, non è per niente nuova, visto che su di essa si è fondata, in definitiva, la grande espansione dei primi anni Sessanta, in cui il lavoro non garantito drogava produzioni e profitti della vasta proivincia italiana in ogni angolo del Paese.
Un’intera regione come il Piemonte, una grande città come Torino sono cresciuti sul lavoro flessibile dei fornitori Fiat. Contratti regolari nella grande fabbrica ma rapporti flessibili, manodopera indifesa nelle boite o officinette dell’indotto. Questa celebrata flessibilità altro non è che il desiderio permanente dei datori di lavoro di liberarsi dai controlli sindacali e di poter assumere e licenziare secondo il loro gradimento. Dire al padronato che uno sviluppo basato su questo brutale darwinismo alla lunga non può durare è tempo sprecato. Ma lo fa l’economia serva: trasforma una prepotenza in una rispettabile legge dello sviluppo. Ora anche gli imprenditori piccoli e piccolissimi, immaginandosi operatori del mercato globale, gridano che la competizione è assillante e che per sostenerla bisogna tornare ai lavori a tempo, possibilmente su un prodotto che possa essere controllato. 1
Perché, si chiede Bocca, da parte delle masse c’è una rassegnazione e quasi un’accettazione delle prepotenze del capitale? «Forse perché il male che si tollera dipende dal bene che si desidera e il bene è quello promesso dalla propaganda e dall’euforia da casa da gioco della speculazione. L’euforia collettiva! Ricordiamoci dell’immigrazione al Nord, negli anni Cinquanta e Sessanta, di milioni di meridionali costretti a dormire in dieci in una stanza, a fare i lavori più umili ma convinti di essere entrati nel mondo del benessere e dell’emancipazione»2.
Certo questa strategia può essere letta come un sintomo della crisi del capitalismo italiano di cui si discute tanto, spesso scambiando gli effetti con le cause. Ma soprattutto è la causa indiscutibile di una delle più profonde e pericolose trasformazioni sociali degli ultimi trent’anni, che investe le condizioni materiali, l’universo di aspettative, l’immaginario di milioni di italiani giovani e meno giovani, con lavori sempre meno gratificanti, meno responsabili e creativi. Il lavoro “creativo” è appannaggio di manager, coordinatori e direttori di progetto, che dedicano le proprie energie all’organizzazione e alla gestione delle “risorse umane”, come fossero variabili qualsiasi del processo produttivo.
Già il pacchetto del ministro Tiziano Treu, durante il governo D’Alema, aveva segnalato la direzione di una progressiva deregulation del mondo del lavoro pur caratterizzata - singolarmente - dalla proliferazione di norme, soluzioni, modelli contrattuali («non essendo sufficienti - nota ironicamente Luciano Gallino - per le esigenze organizzative delle imprese, è dato supporre, la trentina di tipi di contratto lavorativo esistenti»3): quelle innovazioni, avallate dai sindacati confederali, estendevano la percentuale del lavoro part-time, ampliavano la possibilità al ricorso al lavoro interinale, fornivano con i Lavoratori Socialmente Utili o di Pubblica Utilità il modello di una pratica di precarizzazione del rapporto di lavoro, nel verso della flessibilità e della mobilità, che non si arresterà negli anni a seguire. Il pacchetto Treu, dunque, «introdusse, inoltre, il c.d. lavoro interinale o temporaneo, dimostrando definitivamente il venir meno del “disfavore” del legislatore verso il contratto a termine o comunque la durata temporanea del rapporto e quindi la “precarietà”»4.
In fin dei conti la legge 30, soprannominata cinicamente “legge Biagi”, che delega il Governo Berlusconi in materia di riforme del lavoro, non fa altro che proseguire sulla strada già tracciata, portando alle estreme conseguenze il processo di liberalizzazione del mercato del lavoro.
L’atto simbolico - ma non per questo privo di sostanzialità - di questo nuovo corso è stato il tentativo di abolizione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, che garantisce alla persona licenziata senza giusta causa il reintegro obbligatorio nel posto di lavoro: questa ulteriore sottrazione di certezza al lavoratore, d’altronde, era stata “tarata” proprio sulla piccola impresa, l’anima del made in Italy, poiché non sarebbe stata applicata alle imprese con meno di 15 dipendenti.
La deregulation giuridica è stata accompagnata, in questi anni, da una ristrutturazione dei processi produttivi che ha come obiettivo e risultato ultimo, anche in questo caso, l’abbattimento del costo del lavoro: il decentramento, la delocalizzazione, l’esternalizzazione, la crescita del lavoro autonomo salariato a cottimo, il mantenimento degli immigrati in condizioni di clandestinità, estraneità al diritto ed emarginazione economica contribuiscono a creare condizioni di reclutamento sempre più vantaggiose per l’industria, con lo sgravio degli obblighi verso il lavoratore e l’apertura a diverse modalità di sfruttamento e ricatto. In particolare, il processo di esternalizzazione è apparso a sociologi e statistici come la prova tangibile della terziarizzazione5 del mondo della produzione e del lavoro in Italia, spesso nasconde soltanto una nuova più conveniente configurazione della subordinazione, in cui una grande azienda si disfa di interi reparti della produzione mediante licenziamenti e ridimensionamenti vari per poi commissionare a piccole imprese o lavoratori autonomi - magari ex-dipendenti - certe parti del lavoro, con il vantaggio di non avere più gli obblighi che si hanno verso un dipendente (continuità, certezza del salario, contribuzione, etc.):
Le caratteristiche del mondo del lavoro stavano infatti cambiando: sempre meno lavoro nella grande industria e sempre più lavoro nel commercio e nei servizi, con modalità di lavoro sempre più diversificate.
È ovvio che il lavoro fuori della fabbrica e delle vecchie catene di montaggio, presenta caratteristiche nelle quali la “subordinazione” è meno evidente, possono non essere richiesti orari di lavoro rigidi e diverse attività vanno svolte fuori dall’azienda.
Ciò comportò l’opportunità per il datore di lavoro di sottrarsi ai vincoli del lavoro subordinato, utilizzando sempre di più il rapporto autonomo, in cui peraltro restava la subordinazione, tecnica, funzionale, ma soprattutto economica.6
Sul piano dei modelli di organizzazione della produzione, il risultato di questo profondo cambiamento può essere esemplificato nel passaggio dal fordismo al toyotismo7. Questo termine, peraltro, non descrive una trasformazione sostanziale delle tecniche di produzione, ma una più semplice e cruda riorganizzazione dei rapporti tra capitale e lavoro, a tutto vantaggio della direzione aziendale che abbatte i costi utilizzando manodopera senza diritti o specializzazioni, l’outsourcing, l’aumento degli obblighi informali per il lavoratore. È la scoperta del modello orientale di produzione da parte delle nazioni leader dell’economia mondiale, grazie all’esperienza delle multinazionali che hanno delocalizzato dieci anni fa parte delle loro produzioni nei paesi in via di sviluppo: oggi le condizioni del lavoro sperimentate in quei luoghi remoti sono state importate al centro del sistema, basti pensare al caso delle maquilladores8 o a quello dell’industria tessile nostrana - un tipico caso di made in Italy - caratterizzata da percentuali altissime di impiego a nero e cottimizzazione. Altro che toyotismo, sostiene G. Bocca, per il quale è un altro mito, una moda importata dall’estremo Oriente.
Già il nome sembrava privo di senso, quasi una confessione che nella produzione corrente di qualità non ce n’era molta, che occorreva ancora introdurla. E poi il modo infantile, sul modello della via crucis, le stazioni della qualità come quelle del Calvario, i cartelli lungo le linee, i chioschi dove appendere le fotografie dei nuovi stachanovisti, una somiglianza impressionante con la propaganda sovietica, gli stessi slogan, gli stessi altarini produttivistici. E appelli all’inventiva individuale e di gruppo, al genio operaio innato in una fabbrica automatizzata dove quasi nulla era lasciato alle iniziative individuali. E le stesse facce dei lavoratori che dovevano far finta che fosse arrivata la loro liberazione dalla fatica e dall’alienazione.9
Questa situazione a Bocca fa venire alla memoria un’osservazione, sicuramente condivisibile, di Keynes: «La gente crede che gli economisti, gli esperti di economia, siano delle persone utili e innocue, e invece sono spesso dei pazzi che distillano le loro frenesie ispirandosi a qualche scribacchino morto prima di loro, ma riescono sempre perché il potere degli interessi costituiti è sempre vincente su quello delle idee»10.
Sul piano delle trasformazioni sociali, nota Paul Ginsborg, questo processo inaugura in Italia, nel corso degli anni ’90, una nuova dicotomia tra coloro che permangono - ma per quanto? - nella sfera del diritto del lavoro tradizionale e i molti, soprattutto giovani, che ne vengono espulsi o non vi accedono affatto:
Una frattura ancora più drammatica, si stava aprendo tra coloro che occupavano un posto fisso e coloro che dovevano accontentarsi di lavori occasionali, contratti a breve termine o impieghi nell’economia sommersa. Una stima dei primi anni ’90 calcolava le dimensioni di questa categoria di lavoratori “irregolari” intorno ai tre milioni e mezzo di unità, e intorno ai due milioni il numero delle persone che praticavano lavoro nero vero e proprio. Marx aveva immaginato che lentamente il “sottoproletariato” sarebbe stato assorbito dalle grandi fabbriche: questa tendenza rappresentava anzi uno dei fondamenti sociologici della sua fede in una futura rivoluzione sociale. Il capitalismo contemporaneo, invece, continuava ad alimentare un enorme settore di lavoro precario, sia nell’industria sia nei servizi. In Italia se ne trovavano numerosi esempi, dalle “boite” (laboratori per la lavorazione dei metalli) piemontesi fino alle piccole industrie tessili pugliesi, alcune delle quali operavano in condizioni di totale illegalità, impiegando ragazze anche giovanissime con orari di lavoro che potevano arrivare a quattordici ore al giorno.11
Ma il fenomeno è oggi senz’altro più ampio di quanto Ginsborg descriva, poiché coinvolge ormai ampi strati della borghesia impiegatizia, dei funzionari, del lavoro intellettuale. Il Rapporto Italia 2005 dell’istituto di ricerca EURISPES parla, a proposito, di «povertà in giacca e cravatta»12, una nuova forma del disagio che colpisce soggetti inediti, deflagrante negli effetti psicologici e sociali. Sul danno arrecato da questa diffusa insicurezza sociale, che coinvolge anche i soggetti prima garantiti, Giuseppe De Rita scrive parole illuminanti: «La verità è che ciò che sta crescendo non è tanto l’impoverimento reale della società, ma la paura che ciò accada, e questo conduce a una stasi pericolosa dei comportamenti attivi sul piano economico. Quasi il 50 per cento degli italiani teme infatti di diventare povero [...] con una sensibile scopertura sul versante della proiezione nel futuro. Il che ci sembra confermato da alcuni sondaggi locali condotti dal CENSIS che segnalano una dinamica di forte interazione fra aspettative, timori e comportamenti recessivi, che poi è la criticità più temibile in quanto sposta il sistema complessivo verso un’immobilità economica piuttosto marcata»13 .
2. Senza stabilità quale sviluppo?
Quale sviluppo è possibile senza stabilità? Le parole di De Rita, applicate ad una questione di tipo sociologico, sono suscettibili di alcune considerazioni sul piano economico, che spiegano forse l’attuale fase attraversata dal capitalismo italiano. Il naufragio del modello del made in Italy e dell’organizzazione distrettuale della produzione, impostata negli anni del miracolo economico, si manifesta oggi sotto forma di strategie agonizzanti, senza prospettiva di lungo corso: una di queste, la più evidente, è la riduzione dei costi del lavoro mediante precarizzazione e liquidazione della manodopera specializzata, una mossa che senz’altro non favorisce la crescita di competitività sui mercati dell’industria italiana, destinata così a perdere anche i settori delle produzioni di qualità di cui gli imprenditori tanto discutono: «se parliamo di salari dobbiamo ricordare che il loro ritmo di crescita non costituisce solo, se molto elevato, un fattore di perdita di competitività ma anche, se basso, un minor incentivo al dinamismo delle imprese»14.
L’impasse dello sviluppo italiano ha ragioni profonde, che non possono essere facilmente attribuite al periodo generale di recessione e alla competizione dei paesi con un più basso costo del lavoro, per quanto entrambi i fattori non siano da trascurare. Conviene, piuttosto, domandarsi quali siano gli elementi interni del declino, poiché su quelli il Paese può concretamente agire. Nella sua lucida disamina delle politiche industriali post-belliche, Luciano Gallino individua un filo conduttore nella progressiva liquidazione della grande industria italiana (quella che, anche dal punto di vista sociale e geografico, coincide con le grandi aree metropolitane, vero motore trainante dell’economia dopo il breve miraggio dei distretti). La sparizione di alcuni settori-chiave dell’industria nazionale, quali l’informatica (Olivetti), la chimica (Montedison) l’aeronautica civile, etc. hanno segnato, infatti, la provincializzazione della nostra economia, privata di serie possibilità di finanziarie la ricerca (il dato richiamato da Gallino è l’esiguo numero di brevetti registrati in Italia) e di progettare lo sviluppo: «a chi provi a richiamare l’attenzione su tale fatto, tanto più se si mostra preoccupato, vengono rivolte di regola varie obiezioni. L’industria, affermano alcuni, appartiene al passato; il presente e ancor più il futuro saranno il dominio dei servizi, del post-industriale. Perciò, se nel nostro paese l’industria declina, occorre semmai rallegrarsi, perché è un segno di modernità»15.
Questo approccio miope e ideologico ha portato, di fatto, alla sostituzione dell’industria con la finanza, che è diventata il centro della grande attività economica in Italia, spesso nascondendo dietro enormi speculazioni la realtà di un industria in declino, anche nei settori tradizionali del made in Italy (vedi l’agroalimentare): il caso che ha coinvolto il governatore Fazio, o il recente caso della Parmalat è emblematico e non per niente somiglia a quello che ha investito un paese al culmine della fase di declino, come l’Argentina. Potrebbe essere l’immagine dell’Italia di domani. Prendendo atto del fallimento di questa impostazione, il presidente di Confindustria Montezemolo ha dichiarato all’“Economist”: «Abbiamo generato una situazione di enorme speculazione sotto lo slogan “prendi i soldi e scappa”»16. Tutto ciò ha innescato un vasto fenomeno di dissipazione delle risorse del Paese, i cui costi maggiori sono oggi accollati ai lavoratori.
Ma la crisi della grande industria italiana è al tempo stesso causa e conseguenza di un impoverimento di classe dirigente.
Nel passato recente non sono mancati, certo, esempi di un’imprenditoria illuminata, capace di dare rilievo ai valori immateriali del proprio prestigio, dell’integrazione con l’ambiente circostante, del ruolo di propulsori del progresso sociale e del benessere comune che il contesto gli conferiva. È quello che Roberto Ruozi definisce il “valore immateriale” dell’impresa: «Gli Olivetti, per fare un nome storico, ma, anche, i Rossi di Schio, i De Angeli Frua di Milano, i Rivetti di Biella e tanti altri, che per brevità non nomino ma che tutti conoscono, erano completamente connaturati al territorio e alla società in cui vivevano, con un impatto, una soddisfazione e, quindi, un valore che non aveva nulla a che fare con il valore materiale»17. In passato tali imprenditori avevano il calibro per essere classe dirigente, oltre che classe dominante; alcuni di loro vi riuscirono, in contesti limitati e per brevi periodi coincidenti con la permanenza di figure carismatiche al timone dell’impresa. Ma lo stampo di personaggi come Adriano Olivetti, e altri meno noti, non è stato più utilizzato. Anzi: la prospettiva di lungo respiro di uomini come Olivetti è stata rapidamente silurata, insieme alla sua azienda18, dopo la scomparsa del suo leader, protagonista di una delle vicende esistenziali più interessanti - e mai compiutamente rivendicate dal capitalismo italiano - della storia dello sviluppo di questo Paese.
Nato all’inizio del secolo scorso, nel 1901, dopo essersi laureato in chimica industriale, Adriano Olivetti a soli 23 anni inizia l’apprendistato nell’azienda familiare, fondata dal padre Camillo a Ivrea. Già in quel periodo, però, all’attività lavorativa si affianca la frequentazione di ambienti progressisti intellettualmente vivaci: collabora alle riviste “Tempi nuovi” e “L’azione riformista”, entra in contatto con Gobetti e Carlo Rosselli. La sua è la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere, ma - com’è nella migliore tradizione delle grandi famiglie d’industriali - Adriano comincia a lavorare nel ruolo di operaio. Capisce così cos’è la produzione, quali sono le condizioni del lavoro, come funzionano ritmi, tempi, dinamiche delle linee di montaggio: le confronta con quanto vede negli Stati Uniti, nel corso di un viaggio di formazione. Al ritorno, comincia a lavorare ad un vasto programma di progetti destinati modernizzare l’attività della Olivetti: decentramento funzionale del personale, direzione per aree e obiettivi, razionalizzazione della produzione, sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero. Intanto, conosce anche la realtà dell’URSS, nel corso di un viaggio organizzato insieme ad una delegazione di industriali: del sistema socialista individua certamente le irriducibili diversità, ma non gli sfugge il rilievo di un sistema che concepisce la produzione e il lavoro all’interno del quadro più ampio del progresso sociale e territoriale. Così, quasi come un novello Owen, modella il suo progetto di azienda sulla base di una complessa visione socio-economica, che lo induceva a preoccuparsi dell’impatto ambientale, delle condizioni del lavoro, delle relazioni tra produzione e progresso.
Dopo la sua morte improvvisa nel 1960, durante un viaggio in treno, il sistema delle grandi imprese italiane ha espresso complessivamente - peraltro con numerosi e importanti eccezioni - un establishment inadeguato alle sfide della globalizzazione. È mancato, cioè, quello sforzo corale che solo i grandi dirigenti sanno creare, perché danno l’idea che l’impresa è davvero un’opera collettiva e un bene di tutti19. «In Italia vi sono stati grandi dirigenti di alto livello», osserva Nesi, ma provengono tutti dalle fila della grande azienda pubblica. Si veda il gigante Enrico Mattei, fondatore dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), al quale si deve la presenza italiana nel mondo del petrolio e del gas. Ma anche un Oscar Sinigaglia20, rinnovatore del settore siderurgico, cui si deve la moderna organizzazione del settore; e poi i grandi meridionalisti che creano la Cassa per il Mezzogiorno e le politiche di sviluppo del Sud, e ancora Guglielmo Reiss Romoli, Felice Ballo, Raffaele Mattioli: tutti convinti fautori del ruolo dell’azienda pubblica, che avrebbe fornito servizi e infrastrutture in una logica più lungimirante rispetto a quella delle aziende private, una logica orientata al bene comune e all’evoluzione del Paese. Per questo, la grande ondata delle privatizzazioni e la distruzione delle aziende a partecipazione statale fu il frutto di una sciagurata e ben pianificata politica degli interessi privati.
Anche nell’avvicendamento generazionale degli imprenditori privati s’è avvertito questo cambiamento di clima: mentre le grandi famiglie degli Agnelli, dei Pirelli, dei Pesenti, degli Olivetti, dei Donegani concepivano il successo delle loro aziende nel quadro della più generale crescita della società in cui operavano, almeno limitatamente ai gruppi in cui si riconoscevano, i nuovi Benetton, Ferrero, Barilla, Valetto, Miroglio, anche se di indubbie capacità, non s’interessano più a problemi generali.
È il sintomo estremo dell’annosa incapacità dei vertici del mondo economico di assumersi le responsabilità di una classe dirigente, sulla quale ricade l’impegno dello sviluppo democratico e della creazione del benessere sociale. L’etica del capitalismo borghese, se mai ce n’è stata una, non si sa che fine abbia fatto: i valori del lavoro, del risparmio, dell’impegno e della responsabilità sono stati sostituiti, nella classe padronale, da quelli della furbizia, del profitto a tutti i costi21.
Ciò che ci preme sottolineare, è che il declino divenuto visibile negli ultimi anni è il figlio naturale di quasi mezzo secolo di politiche industriali, piccole dissennatezze, squilibri irrisolti. E, soprattutto, dell’incapacità di un ceto dominante di trasformarsi, realmente, nella classe dirigente di cui l’Italia del dopoguerra aveva bisogno.
Tale sviluppo, peraltro, non ha come unico protagonista l’imprenditore: dall’altro lato c’è il lavoratore, le cui vicende restano colpevolmente in ombra nei manuali di economia, quasi la produzione fosse soltanto il risultato di scelte di vertice e non anche - forse soprattutto! - delle condizioni materiali dei produttori. È pertanto ovvio che alla storia del capitalismo italiano va indissolubilmente associata quella del movimento dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali.
3. Il panorama industriale:
liquidazione, arresto della crescita
e i “nuovi” protagonisti
La crescita della produzione, che aveva subito un notevole rallentamento negli anni ’80, cessò quasi completamente nei primi anni ’90. L’elevato tasso di inflazione e la mancanza di competitività a livello internazionale furono tra le cause della crisi che hanno attraversato le grandi imprese nazionali come la Olivetti e la Fiat.
Il caso Olivetti, più di quello dell’azienda torinese sempre tenuta al riparo dal sistema politico, è paradigmatico della crisi, aggravata dalla totale assenza di politiche adeguate di sostegno alla produzione. Nel suo recente studio sulla scomparsa della grande industria in Italia, Luciano Gallino osserva che l’Olivetti viene spazzata via dal mercato mondiale - in cui pure occupava un posto non disprezzabile - per incapacità di produrre investimenti adeguati in termini di ricerca, un limite che l’aveva relegata prima nei ranghi degli assemblatori di tecnologie, poi cancellata definitivamente dal novero dei players del mercato dell’elettronica. Durante un’assemblea degli azionisti Fiat, Valletta individuava la risorsa fondamentale dell’azienda Olivetti come il problema che ne minacciava la sopravvivenza.
Con questa vicenda, il ceto industriale italiano mostra la propria incapacità strutturale di reagire alla congiuntura, al di fuori degli schemi assistenzialisti.
Alla base dell’impasse ci sono fattori importanti dell’assetto politico ed economico internazionale, che determinano - o meglio mettono finalmente a nudo - le condizioni di svantaggio dell’industria e soprattutto del sistema finanziario italiano, retto su accordi, protezionismi, collusioni con la politica, come l’inchiesta Tangentopoli prima e il caso Parmalat dopo si premureranno di mostrare. Intanto, all’inizio degli anni ’90, la conclusione del processo di unità monetaria europea, d’integrazione doganale e progressiva unificazione delle strutture militari e politiche hanno prodotto una notevole accelerazione delle dinamiche di competizione internazionale, specificamente quelle che vedono impegnati gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Tale situazione ha generato condizioni di stress acute per l’industria italiana, abituata a circostanze ambientali diverse e certamente più amichevoli.
Il risultato è un vero e proprio declino, che si manifesta nelle cifre disaggregate relative al PIL negli anni ’90: nel 1994, escluso il settore edilizio, l’industria rappresenta appena il 26,5% del Prodotto Interno Lordo italiano22. Un quarto, una quota relativamente marginale: l’industria non è più la principale produttrice della ricchezza nazionale.
La sostituzione dell’economia con la finanza, cominciata negli anni ’70, si va inoltre completando in questo periodo, che vedrà in successione degli autentici drammi per il piccolo azionariato dei risparmiatori, come lo scandalo dei bond argentini e il già citato caso Parmalat.
L’esigenza di rientrare nei parametri di Maastricht, d’altra parte, ha causato problemi rilevanti in molti paesi europei, che si sono scaricati soprattutto sulle fasce sociali più deboli ed emarginate, ma anche su quelle classi sociali che poco tempo prima erano considerate protette e “garantite”. Nella competizione per il rispetto dei parametri, diverse fasce della popolazione hanno perso potere d’acquisto, ma il Paese in generale ha registrato una minore crescita del PIL nell’anno 2002 (0,4%) e una flessione della produzione.
Nella prima metà degli anni ’90 cambiano anche i protagonisti della nuova Italia industriale, infatti, sintetizzano Bruno e Segreto
basta scendere oltre le prime posizioni della classifica dei maggiori gruppi industriali e ci si accorge che il quadro è diverso; sono stati portati alla ribalta settori, ma soprattutto imprenditori, nuovi. Basti pensare a nomi come quello di Berlusconi, Tanzi, Riva, Lucchini, Benetton, Ferrero, Merloni, Maramotti, Nocivelli, Del Vecchio, Ligresti, Danieli, Marcegaglia. Alcuni di loro hanno creato praticamente dal nulla autentici imperi industriali e finanziari (Berlusconi, Benetton), altri si sono messi in luce come protagonisti internazionali del “Made in Italy” nel settore tessile-abbigliamento e dell’industria degli elettrodomestici e del mobile (di nuovo Benetton e poi Del Vecchio, Merloni, Nocivelli, Maramotti, Marzotto, Stefanel, Scavolini, Berloni), altri ancora hanno sfruttato le inefficienze della presenza pubblica in settori tradizionali come la siderurgia per raggiungere posizioni di primo piano sia a livello nazionale che internazionale (Lucchini, Riva, Danieli, Marcegaglia), oppure hanno lanciato o rilanciato nel mondo marchi prestigiosi dell’industria alimentare italiana e sono oggi spesso quasi più conosciuti all’estero che in patria (Ferrero, Tanzi, Cragnotti). Molti tra loro hanno saputo coniugare le competenze derivanti da una tradizione artigianale e industriale talvolta secolare con un tessuto di relazioni sociali e umane, che ha consentito a regioni e aree a lungo periferiche rispetto alle direttrici dello sviluppo, ma anche rispetto ai vincoli degli insediamenti industriali, di migliorare sensibilmente il tenore medio di vita, inserendosi pienamente, da protagoniste, nella nuova geografia industriale del paese. Per alcuni di loro il successo personale è stato consacrato dalla loro elezione alla presidenza della Confindustria (Merloni, Lucchini, Fossa) o dalla entrata tra gli azionisti di spicco della Banca Commerciale e del Credito Italiano (Stefanel, Benetton, Lucchini, Maramotti e Del Vecchio), talvolta anche con la qualifica di consiglieri come è il caso degli ultimi due citati, amministratori del Credito Italiano.23
È arduo, se non addirittura sbagliato, cercare di individuare tratti comuni a tutte queste esperienze imprenditoriali tanto diverse tra loro, sia nei modi e nei tempi di partenza, sia nelle modalità attraverso cui è stato raggiunto il successo. Ma molte vicende si somigliano per il loro carattere esistenziale, perché si fondano sull’azione spregiudicata di un imprenditore di tipo nuovo, che ha più dimestichezza con i giochi finanziari che con i piani industriali.
Il caso emblematico è certamente quello della sfavillante parabola di Silvio Berlusconi, imprenditore dal carisma riconosciuto, che tuttavia appare profondamente diverso da un Pirelli, da un Falck, anche da un Agnelli. Gli strumenti del suo successo, d’altronde, sono ancora in buona parte da analizzare, e la sua lunga avventura in politica non ha certo contribuito a far chiarezza in merito. I suoi esordi di costruttore, d’altronde, sono già avvolti in un alone di mistero: negli anni Sessanta, con un certo intuito delle dinamiche urbanistiche e delle nuove esigenze abitative della classe media, Berlusconi concepì l’ambizioso progetto di “Milano 2”, l’insediamento abitativo di Segrate che avrebbe costituito un modello e un caso di studio per architetti, urbanisti, sociologi. Tuttavia resta difficilmente individuabile il percorso degli investimenti che gli consentirono di realizzare l’impresa: capitali svizzeri di provenienza ignota e finanziatori occulti gli permisero di realizzare la sua visione. In altre avventure gli sarebbero venuti in soccorso. D’altronde, ancora una volta a differenza dei Falck, dei Pirelli e degli Agnelli, Berlusconi non viene da una particolare tradizione d’impresa, non ha lavorato in fabbrica, non ha prodotto automobili o lavatrici: da sempre si definisce - e giustamente - un “comunicatore”, vale a dire uno che sa tessere relazioni, sa fare confluire interessi, sa attrarre capitali. Per questo motivo, i rapporti con la politica risultano fondamentali per il successo di tutte le sue imprese successive, a partire dall’avventura nel mondo della televisione privata, di cui è stato un pioniere nel Paese. Anche in questo caso, tuttavia, senza l’appoggio legislativo fornito dalla legge Mammì (membro del PSI), il percorso intrapreso si sarebbe concluso piuttosto presto, come era accaduto per editori ben più robusti quali Rizzoli e Rusconi, cui non mancavano certo i mezzi finanziari né le capacità imprenditoriali24.
Con un’ennesima riconversione, il “fenomeno Berlusconi” ha avuto un’appendice politica a partire dal 1994, quando nel giro di pochi mesi, sfruttando la crisi politico-istituzionale successiva all’inchiesta di tangentopoli e il vuoto politico lasciato dai partiti di governo (soprattutto DC e PSI) e impiegando al meglio una macchina elettorale che faceva leva proprio sull’azienda e sulle televisioni, il capo della Fininvest ha dapprima creato Forza Italia e poi ha vinto le elezioni, divenendo presidente del Consiglio. Proprio da quell’evento, tuttavia, derivano i problemi successivi del politico Berlusconi: prima la tematizzazione del conflitto d’interesse, poi le inchieste sulla sua attività imprenditoriale, infine la difficoltà di tenere unita la coalizione. Nello stesso periodo, tuttavia, la crescita del suo gruppo è indiscutibile e le relazioni dell’attività imprenditoriale con quella politica sono numerose, come testimonia lalunga polemica sulle cosiddette “leggi ad personam”.
Simile per i rovesci rocamboleschi che la caratterizzano - ma lontana dalla ribalta politica - è la vicenda di un altro imprenditore che è finito nell’occhio del ciclone, quel Calisto Tanzi che ha portato il Gruppo Parmalat ad un valore commerciale paragonabile a quello dei giganti del made in Italy (il suo fatturato risultava negli anni d’oro di poco inferiore a quello della Benetton). Come quella di Berlusconi, la storia di Tanzi si caratterizza per essere una faccenda personale e non familiare: il re del settore agro-alimentare, figlio di un piccolo produttore di salumi di Collecchio, ha costruito in tre decenni un impero alimentare, facendo scoprire al Paese il latte in cartone a lunga conservazione, basato sulla tecnologia UHT, e cambaindo le abitudini di consumo agli italiani.
Nel ’95, meno di un decennio prima della rovina giudiziaria, intervenuta nel 2003 a seguito di uno scandalo finanziario che ha colpito migliaia di piccoli azionisti, Tanzi era a capo di una smagliante multinazionale alimentare con interessi in mezzo mondo, innanzitutto negli Stati Uniti, in Germania, Spagna, Francia e Sud America. Anche qui gli equilibri proprietari sono garantiti da relazioni finanziarie complesse: la Parmalat Finanziaria s.p.a., quotata in Borsa dalla fine degli anni ’80, è controllata dalla Coloniale, una società su cui può decidere in toto la famiglia Tanzi: oltre a Calisto, possiedono quote importanti il fratello Giovanni Tanzi, con il 32,5 per cento del capitale, e la finanziaria Vita, che fa capo a Walter Visconti e alla moglie Annamaria Tanzi, sorella di Calisto.
Non meno di Berlusconi, Tanzi frequenta la politica ed è ben agganciato: frequenta gli ambienti cattolici ed è amico di De Mita. A sottolineare una ambigua somiglianza c’è anche l’interesse di Tanzi per la stampa, documentato dal suo ingresso nella proprietà della “Gazzetta di Parma” e dal tentativo fallito di mettere le mani sui giornali del gruppo Monti. Come l’uomo di Arcore, ci provò anche con le Tv private, consapevole delle potenzialità del mercato e del vantaggio strategico rappresentato dalle comunicazioni di massa: fallì comunque nel tentativo di creare, con Odeon Tv, un’alternativa alla Fininvest.
Sempre come Berlusconi, gli riesce invece di entrare nel mondo dello sport da protagonista, mediante sponsorizzazioni importanti che forniscono un buon ritorno pubblicitario e - soprattutto - consentono di frequentare certi salotti buoni della politica e dell’alta finanza.
È un cliché di questi anni e di questa nuova genìa d’imprenditori rampanti: anche Sergio Cragnotti, ex amministratore delegato della Montedison dell’era Gardini, e imprenditore del ramo alimentare, si mette all’occhiello la squadra di calcio della Lazio e ne fa un team vincente, così com’era stata vincente la sua strategia di controllo.
Poco di questo splendore si ritrova nella polvere in cui è finito il marchio della Cirio, assieme a quello della Parmalat, con i disastri finanziari - e di conseguenza mediatici - degli ultimi anni.
Il decennio appena trascorso vede, dunque, l’avvicendamento tra la vecchia struttura familistica dell’imprenditoria con i personaggi carismatici di cui abbiamo appena raccontato le storie. In molti casi tale cambiamento si verifica anche all’interno di aziende storiche del capitalismo italiano, in comparti dominati da lunga data da industriali di vecchio stampo. È ciò che accade alla Falck, protagonista della siderurgia prima delle ristrutturazioni degli anni ’80, che hanno portato alla ribalta nomi nuovi. I nuovi protagonisti dell’attività siderurgica sono oggi Lucchini, proprietario della Magona di Piombino e dell’ex Ilva di Piombino, ma anche azionista importante nel sindacato di controllo della GIM del gruppo Orlando e della Banca Commerciale, e poi Riva, che possiede impianti anche in Spagna, Belgio e Francia, Marcegaglia e Danieli.
Cosa ne è stato della gloriosa dinastia dei Falck? La sua consistenza si è ridotta, ma soprattutto, dopo la crisi del settore e i debiti incolmati, la crisi Falck comportò anche forti lacerazioni nel suo gruppo di controllo, composto dalla famiglia Falck, da Pesenti e dalla Mittel di Giovanni Batoli, presidente dell’Ambroveneto, e tra i due cugini Alberto e Giorgio Falck circa le nuove strategie. Nei primi anni ’90 cominciò, così, la diversificazione degli investimenti, che avrebbe portato all’abbandono della siderurgia: i nuovi capitali si dirigevano altrove, segnatamente nell’energia, nell’ambiente e negli immobili.
La storia degli ultimi 25 anni, scrivono Bruno e Segreto nel 1996,
non è tuttavia solo una storia di nuove fortune, di new entry nella classifica degli imprenditori più in vista e dei settori maggiormente all’avanguardia. È anche una storia di dinastie che sono decadute o si sono ridimensionate, di imprenditori che sono saliti rapidamente sui gradini più alti di una ideale scala gerarchica nel corso degli anni ottanta per poi ridiscendere altrettanto rapidamente nella prima metà degli anni novanta, di figure passate come una meteora luminosissima nella volta celeste del capitalismo italiano per poi spegnersi.
Una di queste meteore, forse la più conosciuta, è quella di Raul Gardini, che ha concluso la sua parabola nella maniera più drammatica, finendo suicida di fronte al fallimento della sua scalata al successo, segnato dalle manette dei giudici milanesi.
Entrato a soli 25 anni nell’azienda di Serafino Ferruzzi, imprenditore del settore alimentare che presto aveva espanso i suoi investimenti nel cemento e nei calcestruzzi. Dopo la morte di Ferruzzi, avvenuta nel ’79, Gardini divenne il leader del gruppo e lo trasformò ancora una volta, rendendolo il primo produttore europeo di zucchero, acquisendo le concorrenti Beghin-Say e British Sugar.
La svolta, comunque, avviene quando nel 1985 il gruppo Ferruzzi entra nell’azionariato della Montedison, presto diventando il controllore incontrastato della storica compagnia. Gardini è il nuovo presidente, la sua Ferruzzi è ora il secondo gruppo italiano dopo l’inarrivabile Fiat: ma a differenza della casa torinese era il frutto di una costruzione estemporanea e fragile. Anche la Montedison, però, era per Gardini un punto di partenza: la sua scommessa più ambiziosa fu quella di portare il gruppo ai vertici mondiali dell’industria chimica, con l’ingresso in Enimont e la joint venture tra le attività chimiche della Montedison e dell’ENI. La rottura dell’alleanza, dovuta agli attriti tra i partner, portò poi alla soluzione della nazionalizzazione del settore: l’ENI pagò una somma pari a 4200 miliardi di lire per l’acquisto del 40 per cento delle azioni Enimont detenute dalla Montedison. Era il più colossale traferimento di denaro tra pubblico e privato mai registrato nel Paese. Tuttavia, il colpo era troppo grosso. La spregiudicata strategia adottata, che aveva comportato il pagamento di una maxi-tangente ai partiti di governo, consumò la rottura tra i Ferruzzi e Gardini, che intraprese altre attività, prima di essere travolto dalle indagini giudiziarie sul caso Enimont. Coinvolto dall’inchiesta milanese, in procinto di essere arrestato, nel luglio del 1993, pochi giorni dopo il suicidio in carcere del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, al Gardini si tolse la vita con un colpo di pistola.
La Montedison è sempre presente nella storia delle grandi famiglie: Gianni Varasi, da alcuni anni alla testa di un piccolo gruppo chimico (Max Mayer) divenne improvvisamente azionista di maggioranza della Montedison, acquistando il 10 per cento delle azioni che Gemina aveva rimesso sul mercato; la famiglia Bonomi-Bolchini, che fu «la vittima più illustre e il simbolo - in negativo - della temporanea affermazione della public company in Montedison. La vittoriosa scalata alla Bi-Invest (che conteneva il pacchetto di controllo di Fondiaria, che garantiva, insieme al controllo su altre compagnie da parte dei Bonomi, una posizione di assoluta preminenza nelle assicurazioni) da parte del gruppo guidato da Schimberni25 obbligò Carlo Bonomi a ripensare interamente la propria strategia»26.
4. La struttura industriale:
difficoltà del sistema dei distretti
e creazione delle aree metropolitane
Il percorso delle privatizzazioni, associato allo smantellamento progressivo della grande industria nazionale basata sul sistema delle partecipazioni statali, è stato sorretto e giustificato più volte con l’esistenza di un tessuto di piccole e medie imprese, organizzate nel sistema dei distretti, che costituirebbero l’ossatura dell’economia italiana. Di questa posizione dà conto Luciano Gallino: «[Alcuni] richiamano il fatto che l’Italia ha un numero eccezionalmente elevato di PMI, le piccole e medie imprese, che producono ormai più ricchezza delle grandi: se siamo la settima economia del pianeta, con un reddito pro capite di 20.000 euro, non lo si deve proprio a esse? E che importa se non produciamo né computer né cellulari né aeroplani, quando il nostro paese, dicono le apposite statistiche internazionali, è il primo o il secondo produttore mondiale di marmo, di minerali abrasivi, di olio d’oliva, di filati di lana, di vino?»27.
Per quanto criticabili - e criticate dallo stesso Gallino - queste posizioni colgono un dato fondamentale della struttura dell’economia italiana, basata su unità organizzative territoriali relativamente piccole, su cui s’incrociano poteri finanziari, produttivi, politici atti a gestire in sinergia i processi e le relazioni economiche del cosiddetto “distretto industriale”. Questa interazione tra impresa e territorio, che sono due facce di una stessa medaglia, è la maggiore caratteristica del modello italiano. Di questo modello e delle sue trasformazioni, che incidono pesantemente sulle trasformazioni dell’economia degli ultimi quindici anni, si sono occupate diverse ricerche, che sottolineano puntualmente l’interazione tra imprese e il carattere sistemico come tipici del distretto industriale. Tutte, inoltre, rappresentano ancora il distretto come sistema virtuoso, fattore positivo e irrinunciabile nello sviluppo del Paese.
Secondo le prospettive più recenti, un distretto attraversa, nella sua costituzione ed evoluzione, alcuni momenti particolari:
1) la specializzazione di fase, con forte parcellizzazione del processo produttivo in singole fasi che consente un forte aumento della produttività per poi passare a
2) l’area sistema integrata in cui si sviluppa un terziario di supporto alla produzione.
Dopo questo ciclo di sviluppo, il distretto può passare alla fase della maturità seguendo altre direttive come
3) la delocalizzazione per continuare a competere sui costi;
4) la gerarchizzazione con crescita per linee interne, stategia intrapresa quando si decide di competere non più sui costi bensì sull’innovazione;
5) la gerarchizzazione con crescita per linee esterne nella quale i fenomeni che si sono descritti precedentemente possono avvenire, oltre che attraverso un processo di verticalizzazione, anche attraverso una rete di rapporti strutturati con le altre aziende;
6) la concentrazione direzionale vale a dire processi di gerarchizzazione che portano pochi soggetti di grandi dimensioni ad assumere la leadership dell’area;
7) il riposizionamento che consiste nell’abbandono del posizionamento precedente per spostarsi su un nuovo mercato dove il distretto può accrescere la propria competività.
Tutto il sistema si basa, però, sull’idea che all’interno del distretto continui ad operare una “spinta alla cooperazione” e, soprattutto, che le imprese operino in un contesto sistemico e coeso, conservando ciascuna la propria capacità concorrenziale e una sostanziale libertà d’azione sul mercato. Naturalmente, nella realtà, le diverse fasi di sviluppo dei distretti industriali non si presentano in maniera così semplificata e ordinata. Nei distretti “reali”, sparsi ai quattro angoli del Paese, sono avvenuti nel frattempo interessanti mutamenti verso nuove forme organizzativo-relazionali28.
Proprio nelle aree distrettuali, infatti, si sono manifestate nel tempo le crepe di un sistema incapace di proseguire sulla strada di una crescita armonica e costante: a seguito della differenziazione interna, dell’impossibilità di sostenere i costi di ricerca e sviluppo, della contingenza economica internazionale, la struttura integrata e reticolare del distretto che nell’ultimo decennio comincia a perdere il proprio potenziale propulsivo29.
A conferma del fatto che la struttura produttiva del Paese, dopo gli entusiasmi degli anni ’70 e ’80, non si esaurisce nel sistema distrettuale c’è l’iniziativa legislativa d’inizio anni ’90, che conferisce importanza e identità amministrativa alle grandi conurbazioni metropolitane. Unendo la nuova dimensione economico-produttiva di questi insiemi territoriali con la dimensione della gestione del potere politico-amministrativo, nasce l’organismo dell’area metropolitana, descritta dalla legge 142/90 e confermata dal decreto legge n. 267/2000. Il concetto di “area metropolitana” Delineato già dal dopoguerra, tuttavia è solo negli anni ’90, in corrispondenza con le prime crepe aperte nel sistema dei distretti, che torna ad essere predominante il problema dello sviluppo delle grandi città e aree metropolitane.
Si ricorda che attualmente l’area metropolitana è definita come «un territorio più o meno esteso, che comprende diverse città, tanto da costituire un sistema urbano [...] caratterizzato da realtà diverse correlate tra loro e poste in un rapporto di interdipendenza»30 e che con la legge 142 dell’8-6-1990, si consideravano come aree metropolitane i centri abitativi che negli anni ’80 avevano più di 300 mila abitanti ossia Torino, Milano, Genova, Bologna, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Bari.
Se i distretti mostrano cenni di flessione sia pure in una generale crescita e le metropoli tornano a manifestare un certo dinamismo nella produzione industriale, non si può trascurare infine il grande peso che ha ancora, nel Paese, l’industria manifatturiera non organizzata in sistemi: su circa 200 complessi manifatturieri locali presenti in Italia, una quota compresa tra 60 e 100 costituiscono distretti veri e propri; tutti gli altri sono «entità di varia natura, che vanno da embrioni di distretti a resti di distretti del passato, ad altre figure dell’industrializzazione contemporanea»31.
Per quale motivo tali aggregati non appaiono, oggi, un motore sufficiente per lo sviluppo e l’ulteriore opera d’innovazione di cui ha bisogno il Paese? Essenzialmente per due ordini di fattori. Un primo, che potremmo definire strutturale, attiene all’insufficienza del sistema dei distretti nella progettazione e realizzazione dell’innovazione tecnologica e produttiva: «un’autentica innovazione di prodotto, tale da migliorarne tangibilmente il valore d’uso, richiede una intensa attività di ricerca e sviluppo (R&S). La R&S richiede grandi investimenti, a fronte del rischio di non riuscire a recuperarli in futuro. [...] Simili investimenti, con i relativi rischi, sono in generale al di fuori della portata delle piccole e medie imprese. Un paese che conti prevalentemente su di esse per la propria produzione industriale condannato a importare tecnologia dall’estero assai più di quanta non riesca ad esportarne, come attestano nel caso italiano i dati relativi all’import-export di brevetti internazionali»32. Il secondo fattore, di natura territoriale e congiunturale, riguarda alcuni limiti della politica industriale italiana, che non ha fornito un sostegno efficace alla sua principale risorsa. In una recente ricerca che fa il punto sullo stato dei distretti industriali, Marco Fortis individua almeno tre limiti imposti alle piccole e medie imprese dalle condizioni ambientali: un sistema finanziario e creditizio inadeguato, una burocrazia gravosa e prevalentemente ostile (22.550 miliardi annui, pari all’1,2% del PIL, sono dissipati dalle imprese in spese burocratiche33), un sistema di infrastrutture insufficiente.
Questi fattori sono alla base dell’impasse del sistema, che oggi manifesta i segni evidenti della crisi anche in termini occupazionali: alle difficoltà della produzione, infatti, le piccole e medie imprese, prive della protezione statale e di esperienza concertativa, hanno risposto con il tentativo sistematico di ridurre il costo più evidente: quello del lavoro.
5. La nuova struttura occupazionale
del Paese
I governi di diverso colore degli ultimi quindici anni hanno recepito questa esigenza, elaborando soluzioni ad hoc per la deregulation della manodopera destinata alle piccole e medie imprese (si pensi al tentativo di abolire l’articolo 18 proprio a beneficio delle aziende con meno di 15 dipendenti). Come “soluzione strutturale” per la nuova esigenza di libertà del capitalista, dunque, s’è proceduto nell’arco di due legislature all’introduzione di nuove forme di lavoro: il cosiddetto lavoro “atipico”, ossia a carattere temporaneo, part-time, non garantito.
In tutti gli anni ’90 si è avuta una notevole diminuzione dell’occupazione, soprattutto nell’arco temporale che va dal 1991 al 1995 (dopo la crisi economica del 1993).
Qual è il volto della nuova classe lavoratrice che si va ricomponendo in quegli anni, com’è distribuita la sua forza nei vari settori produttivi? Per avere un’idea della situazione occupazionale del paese più recente è fondamentale analizzare i risultati del censimento dell’ISTAT del 2001 e l’intermedio del 2006 e confrontarli con i dati rilevati nel censimento precedente del 1991. L’esame dei dati mostra da subito come sia prevalente la presenza di attività terziarie nell’economia italiana.
Va evidenziato che i dati del censimento mostrano una crescente presenza delle donne nei vari settori; questo è dovuto però alla presenza sempre più rilevante di nuove forme di lavoro di cui si è parlato (part-time, atipico, flessibile ecc.).
Rimane costante la differenza tra le regioni settentrionali e meridionali.
I dati mostrano quindi che il maggior numero di occupati e di imprese si raggruppa e si concentra nel settore dei servizi; non va però dimenticato il ruolo svolto dal lavoro sommerso.
6. Un nuovo fenomeno:
la precarizzazione istituzzionalizzata
del lavoro
Va rilevato che proprio in questi anni, nella nostra struttura occupazionale, diventa predominante la presenza di lavoratori a bassa retribuzione, dovuta allo sviluppo delle attività a tempo parziale. La differenza tra le retribuzioni e le percentuali di lavoratori a bassa retribuzione34, aumentano di pari passo.
La nuova realtà occupazionale degli anni ’90, dunque, riguarda soprattutto il cosiddetto lavoro atipico, il part-time e quello a tempo determinato, che ha interessato lavoratori di entrambi i sessi, con diverse qualifiche professionali, e ogni settore e zona geografica. Negli anni che vanno dal 1992 al 2001 si è avuto infatti un aumento di questa tipologia di lavoro del 45.2%, a fronte di un aumento dell’occupazione totale dello 0.7% nello stesso periodo.
Dalla metà degli anni ’90 ad oggi il nostro Paese infatti ha adottato le nuove forme atipiche del lavoro, in modo esorbitante rispetto al periodo precedente. Il precario è colui che svolge un lavoro dipendente a tempo determinato e con orario parziale. Le forme di lavoro flessibile sono comunque moltissime e diverse. Basta qui citarne alcune:
• il lavoro a tempo determinato in generale;
• il lavoro stagionale;
• l’apprendistato;
• il lavoro interinale;
• il lavoro a progetto (ex collaborazioni coordinate e continuative, co.co.co.).
Gli effetti di questo cambiamento epocale non sono percepibili ad una mera lettura delle statistiche. Come nota Curcio nelle sue ricerche sul tema, il mondo della produzione, sul versante dei lavoratori, è soprattutto infestato da una nuova forma di sofferenza, più perniciosa e difficile da sradicare perché spostata dal livello materiale a quello mentale, psichico:
Un aspetto solitamente trascurato quando si parla di lavoro è quello della sofferenza. Eppure ognuno sa per esperienza diretta che il lavoro, dalla parte delle donne e degli uomini che scambiano le loro attività con un salario, è anzitutto dolore e sofferenza. Una sofferenza che, se negli anni della modernità pesante era soprattutto fisica e connessa alla fatica, oggi amplia il suo raggio fino a comprendere i processi cognitivi, psicologici e identitari.35
Le potenzialità di questa forma di sofferenza, di gran lunga più consistenti dell’altra, risiedono nel fatto che essa è stiracchiata nel tempo, che la sua concretizzazione è continuamente differita, insomma nel fatto che è sapientemente imbevuta d’angoscia:36 «Non è più tanto ciò che si fa, la fonte del malessere, quanto piuttosto ciò che ti può capitare addosso comunque, d’improvviso, come un padrone affamato a cui la tua vita interessa solo in quanto cibo».37
L’occupazione atipica costituita dall’insieme del lavoro a tempo indeterminato e parziale e di quello a tempo determinato (sia pieno che part-time), è aumentata dal 9.4% del 1993 al 15.4 del 2000. Il tasso di disoccupazione e quello di occupazione non rappresentano in maniera esauriente la gravità della situazione occupazionale, in quanto la presenza dei lavori atipici, a tempo e informali sembrano “coprire” la condizione reale del mercato del lavoro. Infatti, a dispetto degli altri indicatori, la tabella seguente mostra un andamento abbastanza positivo: dal 1999 al 2002 il tasso di occupazione passa dal 52,5% al 55,3%; negli stessi anni il tasso di disoccupazione decresce dall’11,4% al 9,1%.
La tabella seguente mostra come il lavoro part-time sia in continua crescita e interessi soprattutto le donne, mentre i lavoratori si sesso maschile sono abbastanza costanti nel numero negli anni 2001 e 2002; se si considera la variazione percentuale negli anni che vanno dal 1995 al 2002 si rileva che la variazione percentuale maschile è del 27.69%, mentre quella femminile supera il 50%, arrivando a toccare il 57.03%.
Anni Uomini occupati Donne occupate
Tempo Tempo
pieno parziale pieno parziale
1995 97.1% 2.9% 87.3% 12.7%
1996 97.0% 3.0% 87.1% 12.9%
1997 96.9% 3.1% 86.6% 13.4%
1998 96.6% 3.4% 85.7% 14.3%
1999 96.5% 3.5% 84.4% 15.6%
2000 96.3% 3.7% 83.5% 16.5%
2001 96.5% 3.5% 83.4% 16.6%
2002 96.5% 3.5% 83.1% 16.9%
FONTE: elaborazioni CNEL su dati ISTAT
Va rilevato, dunque, che il tanto decantato aumento dell’occupazione degli ultimi anni è dovuta soprattutto alla crescita del lavoro flessibile, a seguito dell’applicazione del cosiddetto “Pacchetto Treu”, nel 1997, che ha introdotto il lavoro interinale e ha aumentato il ricorso al part-time e all’apprendistato. Il numero degli occupati a gennaio 2002, (rilevazione ISTAT), era pari a 21 milioni e 829 mila, e va sottolineato che la crescita dell’occupazione dal 1995 al 2002 pur essendo dovuta in gran parte all’aumento degli occupati a tempo pieno e indeterminato, è stata molto condizionata dalla crescita del lavoro part-time o comunque atipico38.
Le nuove tipologie di lavoro hanno cambiato la situazione lavorativa non solo nell’ambito del settore privato ma anche nel settore pubblico. L’importanza del lavoro atipico nel settore pubblico è stata evidenziata da una ricerca condotta dall’ARAN39, che evidenzia i settori più compromessi. Dai dati risulta che il part-time occupa una percentuale del 34% sul totale dei lavoratori nei ministeri, e del 30% negli enti locali nei quali è importante anche il tempo determinato che occupa il 54.52% dei lavoratori. Negli altri paesi europei, pur con sensibili e significative differenze, si registra la medesima tendenza alla precarizzazione della manodopera.
Ad ogni modo l’erosione del salario, verso la fine degli anni ’90 e all’inizio del nuovo decennio, s’è rivelata più forte e decisa sul mercato italiano, accompagnata dalla deregulation che ha investito le condizioni giuridiche del lavoro. Questo dato risulta spesso invisibile nelle statistiche comparative dei Paesi dell’Unione Europea, che mostrano una riduzione tendenzialmente uniforme del costo del lavoro. A fronte di tale omogeneità, tuttavia, si nota che ad uguale riduzione dei costi generali in Italia si registra una maggiore erosione del salario, evidenziata da valori assoluti notevolmente più bassi in diversi settori d’impiego. Il costo del lavoro in Italia è sicuramente superiore a quello di molti paesi europei, ma la ricaduta di tale costo sul salario è molto parziale: gli stipendi italiani godono di un minor potere d’acquisto rispetto agli equivalenti europei.
La conseguenza naturale della precarizzazione del lavoro e della diminuzione generale del potere d’acquisto dei salari è la diminuzione sensibile della domanda interna, che si è andata progressivamente restringendo, nonostante gli inviti governativi al consumo. Tuttavia, nelle politiche economiche dell’ultimo decennio, questa semplice equivalenza tra potere d’acquisto dei salari ed espansione della domanda interna non sembra mai messa a fuoco: la riduzione del costo del lavoro continua ad essere l’obiettivo primario della categoria degli industriali, che pure lamentano il calo verticale degli acquisti.
Dall’introduzione dell’euro, che ha messo a nudo alcuni problemi strutturali dell’economia italiana, si è registrata peraltro una condizione nuova nel rapporto tra domanda e redditi: mentre negli anni ’90 a fronte della stagnazione degli stipendi i consumi continuavano pur moderatamente a crescere, dall’inizio del decennio attuale questo rapporto si è alterato. Secondo Giacomo Vasiago il cambiamento è dovuto ad un cambiamento epocale nell’ottica con cui gli italiani guardano al proprio futuro:
I consumi decelerano perché evidentemente le aspettative dei consumatori non hanno visto realizzare quella crescita attesa del reddito che ne aveva sostenuto la spesa in precedenza [...] Cosa sta dunque accadendo in Italia? Semplicemente che le famiglie cominciano a prendere atto del fatto che l’economia è entrata in una fase di stagnazione di tipo strutturale. E che, quindi, le aspettative formatesi gradualmente nel corso degli anni Novanta (anche nel caso italiano complice il boom dei mercati finanziari del periodo) non sono destinate a trovare realizzazione. Se la produttività non cresce, anche i salari reali non possono crescere. E questo vuol dire anche che stiamo attraversando una rottura rispetto alla storia del dopoguerra. Gli italiani oggi viventi avevano sempre registrato un miglioramento del tenore di vita a ogni passaggio generazionale. I figli, cioè, “stavano meglio” dei padri. Oggi le cose non stanno più così.40
7. Con le spalle al muro: lo scacco
del sindacato confederale e il nuovo
sindacalismo di base tra anni ’80 e ’90
Di fronte a questa lunga e determinata compressione della classe lavoratrice i sindacati tradizionali rispondono per oltre un decennio soltanto con la logica concertativi. Per questo, già agli inizi degli anni ’80,le strategie sindacali si differenziano e, per certi versi, si radicalizzano.
Attorno alla metà degli anni Ottanta questo nuovo atteggiamento comincia a manifestarsi anche attraverso la nuova realtà del sindacalismo di base.
Dal 1980, in particolare dal confronto con le prime esperienze della precarizzazione istituzionale del lavoratore, si consolida l’esperienza delle Rappresentanze di Base (RdB). Le RdB si affermano come esperienza sindacale consolidata, con una struttura ramificata su tutto il territorio nazionale e fortemente coesa, che ne fanno in questa fase il quarto sindacato italiano.
Le RdB riusciranno a coniugare gli elementi fondamentali dell’esperienza dei sindacati di base del decennio precedente, come l’indipendenza dai partiti e un rapporto stretto con la base, con un’attenzione strategica alle fasi congiunturali dell’economia e della politica, nel quadro di un’analisi della deriva neoliberista.
L’aggregazione delle frange più consapevoli e preparate del movimento dei lavoratori attorno alle RdB sarà un elemento fondamentale per la costituzione della Confederazione Unitaria di Base (CUB), in questi anni l’unica realtà di base presente nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).
Intanto, fra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, le confederazioni sindacali vivono un periodo di ulteriori, profonde difficoltà interne e strutturali, legate al problema di sviluppare autentici spazi di rappresentanza ed efficaci strategie d’intervento.
Fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, al vertici delle tre grandi confederazioni sindacali ci fu una serie di clamorosi avvicendamenti. L’episodio che più contribuì a logorare la nuova gestione della CGIL in mano a Pizzicato, fu il negoziato per il rinnovo del contratto di integrativo Fiat dell’estate 1988. La concessione dei miglioramenti retributivi sarebbe consistita in un premio extra motivato e commisurato ogni anno all’accresciuta produttività dell’azienda. Le tre confederazioni si opposero alla proposta della Fiat perché i premi di’incentivazione sono considerati tipico strumenti dell’arbitrio padronale.
Otto anni dopo che le lotte sindacali videro una sconfitta storica del sindacato e il pieno recupero dell’egemonia imprenditoriale sulla vita di fabbrica, la pratica dei premi doveva essere solo istituzionalizzata quale elemento della strategia retributiva Fiat. Le trattative romane tra i sindacalisti dei metalmeccanici e la Fiat giunsero a conclusione la notte tra il 17 e il 18 luglio 1988 mentre le delegazioni della FIOM-CGIL erano assenti dal tavolo delle trattative, gli esponenti della FIM-CISL e della UILM firmarono l’accordo. La vertenza della Fiat del 1988 costituì un nuovo successo della strategia imprenditoriale diretta a neutralizzare il movimento sindacale e fece emergere le contraddizioni all’interno della componente sindacale comunista che prefiguravano la crisi che fra il 1989 e il 1991 portò allo scioglimento del Partito comunista italiano e alla nascita del PDS, Partito democratico della sinistra. L’intero processo di trasformazione del PCI in PDS fu logorante, contraddittorio e traumatico; un astioso dibattito interno sfociò nella scissione di Rimini nel febbraio 1991, di Rifondazione comunista.
Il sindacalismo concertativi si trovò a fronteggiare la dura contrapposizione del sindacalismo di base e le tensioni per i rischi dello sfaldamento della sinistra politica. Nella strategia difensiva posta in atto dalla CGIL assunse rilevanza nel 1991 la decisione di sciogliere le correnti interne di matrice partitica; una mossa simbolica ma piena di significato. Al congresso del 1991, il voto unanime sui nomi dei massimi dirigenti assunse un alto valore anche se lasciò margini significativi alla minoranza facente capo a Fausto Bertinotti.
Ci furono all’inizio dell’ultimo decennio del secolo le tensioni polemiche sull’immigrazione clandestina dall’Africa, l’esodo in massa di profughi albanesi; su queste vicende il movimento sindacale non seppe che manifestare forme di solidarietà senza porsi il problema di una strategia mondiale diretta a ridurre il divario fra i paesi del benessere e quelli della fame. Anche sui grandi temi istituzionali il movimento sindacale italiano fu incapace di fornire suggerimenti al di fuori delle posizioni dei singoli partiti. Il sindacalismo degli anni Novanta raramente apparve capace di assumere posizioni controcorrente e quando ciò avvenne fu per iniziativa di singoli sindacalisti.
La concertazione, in ogni caso, è sistematicamente al ribasso, vedendo i rappresentanti della classe lavoratrice accordare una serie di privilegi e vantaggi alle classi privilegiate, protagoniste dell’azione economica e politica.
Un momento sicuramente esemplare di questa dialettica squilibrata è quello della firma, nel 1992, dell’accordo sottoposto a sindacati e Confindustria dal Presidente del Consiglio Giuliano Amato, che chiede al segretario della CGIL Bruno Trentin di acconsentire ad una nuova politica dei sacrifici, rinunciando definitivamente alla scala mobile. Dopo lunghe esitazioni, il segretario firmò provocando nel sindacato una lacerazione insanabile, peraltro aggravata dagli esiti di quel gesto:
Alla base di questo (nefasto) accordo, accettato con tribolazione da Trentin in nome dell’unità sindacale e della supina accettazione del Trattato di Maastricht, vi era la garanzia che la Banca Centrale mai avrebbe provveduto a una svalutazione della lira, per evitare un incremento dell’inflazione, ora che i salari non sarebbero stati più protetti dal rincaro del costo della vita. La storia ci racconta che poco più di un mese dopo, il 9 settembre 1992, il Sistema Monetario Europeo collassa e la lira comincia la più grande svalutazione del dopoguerra (superiore anche a quella della seconda metà degli anni Settanta: -30% in un anno). La forte instabilità valutaria e i vincoli posti dallo stesso Trattato di Maastricht portano il Governo a decretare una manovra finanziaria ‘lacrime e sangue’ dell’ammontare di 90.000 miliardi, la prima di una lunga serie di leggi finanziarie tese a smantellare lo Stato sociale per consentire il rispetto dei parametri di Maastricht in materia di deficit pubblico e inflazione. Ha inizio così il processo di convergenza verso l’armonizzazione monetaria europea, il cui costo verrà elusivamente addebitato ai ceti del lavoro dipendente e precario, sia in termini di organizzazione che di salario.41
8. Dopo il diluvio:
le trasformazioni degli anni ’90
Una valutazione complessiva degli anni ’90, rispetto ai due decenni precedenti, non può non rilevare la fruttuosità delle politiche economiche intraprese, soprattutto considerando la grave crisi manifestatasi nel ’92 con il rischio concreto di bancarotta dello stato. Centrare solo pochi anni dopo l’obiettivo dell’ingresso nell’Unione Europea e del passaggio all’euro, non è stata certo cosa da poco. Nonostante la flessione occupazionale (7,1% nella manifattura, almeno per il primo quinquennio), tutti i settori produttivi risentirono positivamente della svolta antinflazionista e della manovra straordinaria, accompagnate da nuove politiche concertative che riducevano il conflitto sociale.
Non sono mancate però alcune zone d’ombra, costituite dal fallimento delle politiche di privatizzazione delle imprese pubbliche e dall’adeguamento del mercato del lavoro agli standard europei, che ha provocato un peggioramento generale dei livelli salariali e delle condizioni del lavoro, determinati mediante la cosiddetta «politica di concertazione centralizzata»42, che ha portato il sindacato confederale sul terreno della programmazione economica, allontanandolo dalle istanze dei luoghi di lavoro e allineandolo al pensiero unico in economia. Il vero e proprio flagello, costituito dal compiuto smantellamento dello Stato sociale e dall’introduzione delle logiche della precarietà nell’occupazione, non ha dunque incontrato resistenze in una diversa cultura del lavoro e della comunità, che il sindacato tradizionale non riusciva più a rappresentare.
La fine del decennio è stata caratterizzata, sul piano internazionale, da una nuova e più accesa competizione tra poli, che ha assunto nella rappresentazione mediatica le sembianze della “globalizzazione”, meglio della competizione globale43. La spinta del catching up da tempo esaurita ha riavvicinato i ritmi di crescita dell’Europa a quelli statunitensi: una volta ridotte le distanze dal leader, infatti, la crescita degli inseguitori diminuisce. Gli Stati Uniti, peraltro, hanno invertito la tendenza negativa, riprendendo una crescita quantitativa sostenuta dall’economia di guerra ,dal keynesismo militare.
9. Il nuovo millennio:
prospettive e minacce
Nessun avvenimento come l’attacco dell’11 settembre 2001 al World Trade Center, al centro di New-York, nel cuore dell’America, può riassumere meglio le minacce che la società contemporanea sente pesare sulle proprie spalle, insieme alle prospettive di un nuovo assetto geopolitico del pianeta. In questo modo Hobsbawm ne ha sintetizzato la portata:
Forse nessun altro evento inatteso nella storia del mondo è stato visto direttamente da un numero maggiore di persone. Io lo seguii sul televisore di un ospedale londinese. Per uno storico vecchio e scettico, nato nell’anno della rivoluzione russa, questo evento condensava in sé tutti gli aspetti negativi del Novecento: i massacri, le tecnologie sofisticate ma inaffidabili, i proclami che sarebbe ora iniziata una guerra globale all’ultimo sangue tra la causa di Dio e quella di Satana, mentre la realtà imitava gli spettacoli hollywoodiani. Gli opinionisti inondarono il mondo occidentale di sciocchezze, mentre i giornalisti cercavano le parole per esprimere l’indicibile e, sfortunatamente, le trovarono.44
Immediatamente evidente fu la diversa percezione dei fatti dentro e fuori dagli Stati Uniti: nel resto del mondo, sembrarono un attacco terroristico brutale e crudele come altre volte era accaduto nella storia recente; negli Stati Uniti furono visti come il segno della fine di un’epoca, anzi della fine della storia così come finora s’era manifestata. E - era evidente anche questo - fu l’interpretazione statunitense a fare la differenza e a cambiare concretamente le relazioni internazionali, le condizioni di vita di un numero enorme di persone e le prospettive di medio termine della politica e dell’economia mondiali.
Dopo l’attentato, gli Stati Uniti, alla guida di una coalizione di paesi alleati, hanno inaugurato una grande “crociata contro il terrorismo”, individuando in alcune nazioni medio-orientali le basi logistiche e i centri di elaborazione strategica della destabilizzazione dell’ordine mondiale: a quest’analisi sono seguiti due conflitti sanguinosi, il primo in Afghanistan, regione già martoriata dalla lunga occupazione sovietica, che ha portato al rovesciamento del regime teocratico dei Taliban; il secondo, invece, ha preso di mira l’Iraq, già attaccato dagli Stati Uniti di Bush padre a seguito dell’occupazione del Kuwait, zona petrolifera d’interesse strategico. Il conflitto in Iraq, che ancor oggi si protrae, ha cambiato davvero il volto del pianeta, appiccando il fuoco alla polveriera mediorientale: il dialogo tra il mondo islamico e quello occidentale s’è fatto difficile, le relazioni su cui s’era retto lo sviluppo dell’Europa e dell’Italia si sono disgregate.
Dagli avvenimenti politici e militari di questi ultimi anni è emerso un dato inequivocabile: dopo il crollo dell’URSS e della prospettiva socialista in Europa, sulla Terra è rimasta una sola grande superpotenza, che nel bene e nel male condizionerà i destini prossimi dell’umanità; il sistema dei blocchi, che ha determinato le condizioni della ripresa e ha plasmato per mezzo secolo lo sviluppo del mondo, non c’è più. Le nuove condizioni del progresso, dunque, dovranno inevitabilmente tener conto di questo dato.
Insieme a questo processo di concentrazione del potere politico ed economico, in nuce cominciato già vent’anni prima con la reazione dirigista degli Stati Uniti agli shock petroliferi, hanno acquistato forza tanti percorsi locali di emancipazione e autodeterminazione, che rendono evidente l’insofferenza di molte aree del pianeta verso il sistema politico-economico definito dalla fine della guerra fredda. In America Latina i movimenti di base degli agricoltori, del proletariato costretto a vivere nelle baraccopoli sorte attorno alle grandi concentrazioni urbane, gli indios relegati ai margini del potere politico ed esclusi dalla ricchezza sociale, hanno acquistato una visibilità e un’area di ascolto sicuramente impensabile solo qualche anno fa: le lotte dei sem terra brasiliani, dei lavoratori delle piantagioni colombiane, l’ascesa o il consolidamento di governi d’ispirazione socialista e popolare in molti Stati del continente americano indicano il rilievo che stanno assumendo, come contrappeso ad una globalizzazione eterodiretta, le economie locali, le identità culturali alternative, i diritti delle classi e dei paesi penalizzati dal sistema di governo del mondo.
Queste due condizioni determineranno, con tutta evidenza, le prossime trasformazioni del pianeta, condizionando inevitabilmente le regole dello sviluppo e delle relazioni economiche globali.
Se ne vedono già gli effetti anche nel nostro Paese, che vive da novella “periferia dell’impero” le contraddizioni più stridenti del nuovo ordine globale. Gli scandali finanziari degli ultimi due anni, con le collusioni registrate negli organi di controllo dell’economia italiana, di cui s’è detto ampiamente nell’introduzione, mostrano con tutta evidenza il processo di concentrazione del potere e, soprattutto, la tendenza alla subordinazione della politica agli interessi dell’economia. I decreti sulle privatizzazioni e le liberalizzazioni, firmati rispettivamente dai ministri Lanzillotta e Bersani dell’ultimo governo di centrosinistra, costituiscono soltanto l’ultima prova in ordine di tempo di questo assunto, poiché costituiscon la piattaforma giuridica per altre liberalizzazioni del mercato e per un’ultetriore saccheggio del capitale pubblico (a rischio soprattutto i servizi pubblici locali, che non potranno essere più assegnati direttamente a società a capitale pubblico, ma dovranno essere sottoposti a gare d’appalto).
D’altra parte, bisogna pur rilevare che il governo Prodi non è caduto - nel febbraio 2007 - per un’azione isolata di maldestri franchi tiratori, ma per l’eplosione di contraddizioni profonde tra i tentativi di concentrazione del potere economico e le rivendicazioni dei movimenti e di ampie parti dell’opinione pubblica, che lamentano una evidente crisi della rappresentanza (soprattutto per quanto riguarda partiti e sindacati consociativi di sinistra), additando nel contempo all’attenzione della politica i problemi dell’ambiente, della salute, della precarietà diffusa e delle nuove povertà.
Per capire come si sia giunti ad una tale drammatica divaricazione tra le strutture tradizionali della rappresentanza e la classe, bisogna però fare un passo indietro, considerando le vicende nazionali successive all’instaurazione del nuovo ordine modiale dopo l’attentato alle torri gemelle.
10. L’Italia neoliberista
d’inizio millennio
Nell’Italia d’inizio millennio, il processo politico più evidente è la perdita d’iniziativa, la diminuzione di fatto dell’autonomia del governo del Paese, la provincializzazione della penisola in un contesto geo-politico - quello occidentale - sempre più calamitato dalle decisioni e dalle direttive della politica statunitense. Chiariamo subito: si tratta di un processo ben più ampio, che ha a che vedere con il declino generale della vecchia Europa, in piena fase di ristrutturazione, e che coinvolge l’Italia soltanto in misura maggiore rispetto ad altri paesi, la cui tradizione politica (si veda la Francia o la Germania) è ispirata da sempre ad una maggiore libertà d’azione.
L’Italia ha funzionato, invece, per decenni in base ad un principio e a una pratica che la pubblicistica ha chiamato consociativismo, e abbiamo provato a spiegarlo. A parte alcuni momenti della storia del Dopoguerra, sostiene Giuseppe Turani, «in generale le decisioni fondamentali di politica economica sono state prese non per scelta unilaterale di una delle parti in causa, ma attraverso la trattativa e il consenso tra le parti sociali».45 Per quanto il giudizio non sia totalmente condivisibile, Turani invece punta giustamente il dito contro «il blocco sociale e politico legato ai partiti di Centro-Destra che ha espresso, all’inizio del nuovo Millennio, un gruppo di industriali, guidati da Antonio D’Amato, decisi a farla finita con il consociativismo attraverso una battaglia ideologica contro l’articolo 18 (dello Statuto dei Lavoratori). La società non ha dimostrato di capire, anzi ha cominciato a non credere più in un gruppo e in un programma che promettevano sempre una ripresa che non arrivava mai. In questo contesto è nata l’opportunità per un rovesciamento delle posizioni e per l’arrivo alla guida degli industriali di una nuova squadra di comando, al cui centro si è trovato Luca Cordero di Montezemolo»46, dietro alla cui elezione alla testa di Confindustria c’è molto di più che un cambio di presidente e di linea politica. C’è la nascita di un blocco di imprenditori, dagli ex presidenti di Confindustria Vittorio Merloni e Luigi Abete, Emma Marcegaglia, Andrea Pininfarina, Alberto Bombassei, Diego Della Valle, all’amministratore delegato di Unicredit e all’oramai ex presidente di Telecom Italia, Marco Tronchetti Provera. Una nuova “razza padrona” che si inserisce in un contesto economico di un paese declinante, le cui imprese non crescono e sono poche.
La presenza italiana nei grandi settori innovativi è sempre più ridotta. Gli investimenti in ricerca sono la metà di quelli medi dei paesi Ocse. E le esportazioni italiane che coprivano, nel 1996, una quota del 4,8% del mercato mondiale, sono scese al 4,1% mentre la Germania sale dal 9,1 al 9,4%. I prodotti italiani, insomma, sembrano troppo tradizionali e poco innovativi, sicché il mercato mondiale li snobba a favore di quelli dotati di un contenuto maggiore di ricerca e di tecnologia.47
Questa classe è nata dal tentativo di riformare il sistema economico italiano le cui relazioni politiche sono state incarnate in Italia, dal 2001, dal governo Berlusconi48, che ha la grave responsabilità di aver leso l’equilibrio dei poteri dello Stato, con un potere legislativo asservito al potere esecutivo e il potere giudiziario continuamente delegittimato49, un esecutivo solido che ha precocemente caratterizzato la propria azione secondo due direttrici:
• In politica estera, l’allineamento alla strategia statunitense e la saldatura degli interessi italiani con quelli dei paesi filo-atlantici, come la Spagna di Aznar e l’Inghilterra di Blair;
• In politica economica, la tutela degli interessi del capitalismo finanziario, degli immobiliaristi e dei titolari di rendite, attraverso una sistematica deregulation che ha portato alle leggi sul falso in bilancio, sulle rogatorie internazionali, e al progetto di riforma della giustizia; a questo si aggiunga una sistematica opera di scardinamento delle basi giuridiche tradizionali del lavoro, che in realtà continuano un’opera inaugurata già verso la fine degli anni ’80 e culminata, alla fine del decennio appena trascorso, con la promulgazione del “pacchetto Treu” sulla flessibilità del lavoro, flessibilità gradita anche alla nuova razza padrona, alla ricerca un “nuovo centro” politico forte che elimini le due ali radicali dei due poli, estrema destra ed estrema sinistra.
Non si tratta, come spesso accade, di atteggiamenti che durano lo spazio di una legislatura o dipendono, stricto sensu, dall’ideologia della parte politica che detiene il governo del Paese in un dato momento storico, quanto piuttosto di strategie profonde, che rappresentano interessi e convinzioni di blocchi sociali solidi e duraturi, che trovano rappresentanza presso le diverse culture politiche.
Effettivamente, l’avvicendamento al governo della primavera 2006, con l’affermazione di misura del centro-sinistra guidato dal governo Prodi, non sembra aver segnato reali discontinuità nell’azione politica e nella direzione dell’economia: il rifinanziamento della missione dei soldati italiani in Afghanistan e il rinvio del ritiro delle truppe dall’Iraq mostrano una sostanziale adesione alle esigenze della politica egemonica americana, mentre la dura manovra finanziaria che si prepara rispolvera il clima sociale instaurato dai governi d’emergenza d’inizio anni ’90.
Anche dagli intellettuali più illuminati della sinistra moderata giungono critiche di sostanza a questa sostanziale assenza di “discontinuità”, soprattutto in tema di politiche del lavoro e di ricette dello sviluppo. A tal proposito, in un intervento del 2002, Becattini ammoniva indirettamente i riformatori a riaprire una riflessione libera da semplificazioni e brutali tecnicismi sulla questione del lavoro, in un’epoca di supina adesione al verbo della flessibilità:
Il mercato del lavoro è diverso da tutti gli altri mercati. L’esigenza dell’equilibramento fra domanda e offerta su di un prezzo che le eguagli, che vale per ogni altra merce, non vale, infatti, incondizionatamente per la specialissima merce «lavoro umano», per il semplice - e spesso dimenticato - motivo che questo non è solo un mezzo, ma anche un fine del processo sociale. Il lavoro subordinato di milioni di persone non è solo il loro modo di procurarsi un reddito, ma è anche una porzione importante della loro vita.50
11. Una stasi inquietante
A giustificare, almeno ad una lettura superficiale dei dati, il clima quasi emergenziale sta il ristagno preoccupante dell’economia italiana di questi anni, una stasi che la crisi mondiale non basta a spiegare né, d’altronde, a ridimensionare.
Fabrizio Barca comincia con il delimitare la geografia della crisi, osservando che la recessione riguarda l’economia europea e non in generale quella mondiale. I rapporti di cambio tra euro e dollaro sono stati caratterizzati nel nuovo inizio di millennio da uno svantaggio della moneta europea, nonostante il deficit crescente americano. Tra i fattori che hanno concorso anche alla più recente svalutazione dell’euro ci sono il crescente differenziale sui tassi d’interesse a breve a favore del dollaro, le prospettive di andamento della crisi e - non ultime - le incertezze sul futuro politico di un’area ancora poco caratterizzata.
In tale contesto, peraltro, l’economia italiana cresce meno di quella dei suoi competitori continentali. Ancor più preoccupante, se possibile, lo stato della produzione industriale, che è inferiore a quella dei principali competitori e mercati di sbocco: la Francia e la Germania. La tendenza tutt’altro che positiva è vincolata ad un aumento modesto della produttività: sempre tenendo conto di Francia e Germania.
Una ricerca delle cause di questa differenza si basa, per ora, su una serie d’ipotesi, che tuttavia contribuiscono a disegnare il quadro di un Paese in generale difficoltà, con problemi strutturali non risolti negli assetti del capitalismo nazionale e delle sue relazioni con il mondo del lavoro.
Le spiegazioni, chiamano in causa la competizione internazionale dei nuovi attori, ma ne aggiungono altre, come quella che si riferisce alla produttività oraria del lavoro, dipendente dalla quota di popolazione in età lavorativa e dal tasso di occupazione, entrambi in calo da vent’anni: nonostante la nostra produttività sia tra le più alte al mondo, non sarebbe stata sufficiente a sostenere una crescita significativa del reddito pro-capite51.
Un’analisi strutturale delle cause di questo nuovo handicap, che si collega agli argomenti della prima interpretazione, punta l’attenzione sul nanismo delle aziende italiane, che contano un numero di addetti per unità pari ad appena un terzo della media dai paesi industrializzati, anche nel caso delle multinazionali. Questa condizione non permette, evidentemente, di sfruttare le economie di scala e le possibilità finanziarie e manageriali per seguire le innovazioni tecnologiche , organizzative e commerciali. Per giunta le aziende italiane si sono specializzate, a partire dagli anni ’70, soprattutto in settori produttivi tradizionali, poco dinamici, a basso contenuto tecnologico, senza manodopera specializzata. Se queste dimensioni contenute e l’ancoraggio alla tradizione erano state un vantaggio per il tessuto produttivo italiano, esse non risultavano più adatte al mutamento delle condizioni della competizione internazionale: l’ingresso prepotente di nuovi competitori come India, Cina, Pakistan, Brasile che sfruttano in questi anni il vantaggio del catching up, ha messo in evidenza il limite del modello del distretto industriale, che pure ha costituito una chiave fondamentale per lo sviluppo italiano.
12. Crisi strutturale della borghesia
italiana nel capitalismo
non riformabile: rilanciare l’iniziativa
di classe
In Italia, tali processi di trasformazione del capitalismo hanno assunto, come abbiamo detto, rilievo macroscopico: alla classe industriale del Novecento, aristocratica, dispotica, conservatrice, poco creativa e intraprendente e molto avventurista dominante e mai dirigente e chi più ne ha più ne metta, s’è sostituita la schiatta dei grandi banchieri manovratori di finanzieri spregiudicati e speculatori aggressivi, immorali, o dei «furbetti del quartierino», nuovi interlocutori della politica nel controllo del mondo economico, in un nuovo perverso intreccio tra politica, affari, corruzione e spesso criminalità.
Si tratta di un sistema che fonda sull’illegalità o, quantomeno, sull’abuso spericolato delle regole, gran parte del proprio successo, che deriva, come scrive Giulio Sapelli, dalla «possibilità di continuare a operare senza interferenze che possano venire non da contropoteri direttamente politici, ma da minacce che possano derivare dall’azione legale perseguita da quelle istituzioni in grado di esercitare poteri di veto facendo leva sulle competenze di vigilanza e di autorizzazione, poteri che esistono non solo in Italia, ma in ogni moderno Paese a economia di mercato»52.
I luoghi in cui più che altrove s’è aggrumata l’ingiustizia sono le grandi aree metropolitane del Paese, non soltanto i tradizionali poli dello sviluppo che diedero vita al triangolo industriale, ma anche le conurbazioni meridionali, cresciute in maniera irregolare e imprevedibile negli ultimi decenni.
Mentre i teorici riformisti dello sviluppo distraevano l’attenzione parlando di piastrelle da bagno e prosciutti, indicando nei distretti e nella piccola e media impresa53 la formula del futuro sviluppo italiano, le grandi aree metropolitane hanno continuato a generare la maggior parte del Prodotto Interno Lordo e, contestualmente, a ospitare le situazioni di maggior sofferenza, le più dure condizioni dello sfruttamento.
Come hanno dimostrato le inchieste del CESTES sulla rivista «Proteo», nel corso degli ultimi anni le figure produttive si sono progressivamente concentrate nelle aree urbane, dove le diverse forme di remunerazione, come le rendite e i profitti, sono più alte e diffuse. È proprio in questi luoghi, tuttavia, che l’effetto collaterale della grande concentrazione di classe può produrre le condizioni di un nuovo antagonismo sociale, in cui i nuovi soggetti diversificati dello sfruttamento possono trovare la sintesi necessaria a un’azione comune.
Per porne le basi, è necessario tuttavia tracciare le nuove geografie della classe, frammentata dalle violente ristrutturazioni del capitale e - soprattutto - alterata dall’ingresso di nuove figure di sfruttati e di nuovi soggetti del disagio, dello sfruttamento capitalista, provenienti dalle rotte dell’emigrazione, dagli strati più deprivati del lavoro ma anche da gruppi precedentemente appartenenti al cosiddetto «ceto medio».
Ormai è chiaro a molti che il capitalismo non è riformabile; gli effetti devastanti che ha prodotto sulle condizioni di vita dei lavoratori, sulla sicurezza sociale, sulle prospettive e le aspettative di futuro della gente comune, sulle condizioni ambientali e di pura sopravvivenza sul pianeta, il continuo smantellamento dello Stato di diritto, mostrano che proprio oggi, nella fase della sua maggiore aggressività, il mondo della legge del profitto scricchiola sotto il peso dei suoi fallimenti ed è più fragile che mai.
Per questo motivo, il progetto di ripresa di una lotta di classe organizzata con l’obiettivo, a lungo termine, della liquidazione dell’attuale modello di sviluppo, richiede la ripresa della pratica dell’inchiesta, già inaugurata con le prime lotte operaie d’inizio ’900 e praticata con rinnovata intelligenza dalle avanguardie più avvedute del movimento degli anni ’60 e ’70 e ripresa nel contesto attuale del conflitto sociale dal Centro Studi CESTES-Proteo in questi ultimi quindici anni.
Alla globalizzazione neoliberista si contrappone la globalizzazione delle mille forme di resistenza dei popoli, dei movimenti sindacali di classe, dei movimenti ambientalisti e di difesa dei diritti civili. E i resistenti continuano a pagare sulla propria pelle, spesso con la vita, la loro ricerca della libertà. Dalle centinaia e centinaia di sindacalisti assassinati e fatti sparire, imprigionati ogni anno in Asia, in America Latina, alle migliaia di morti sotto i bombardamenti per mano di chi impone il dominio della propria «democrazia» con la guerra, a Carlo Giuliani e ai resistenti e ribelli in cerca di giustizia sociale, che come lui gridano la loro rabbia contro il mondo dei potenti e ricevono pallottole, morte, lunghi anni di galera.
Saldare le rivendicazioni degli esclusi, dei disoccupati, dei precari, degli immigrati senza prospettive che affollano le periferie delle nostre aree metropolitane con le lotte che percorrono l’America Latina, le campagne, le città, con la resistenza dei popoli per la loro autodeterminazione nei luoghi assoggettati dalla guerra di conquista e di espansione imposta con le aggressioni dell’imperialismo, rappresenta oggi la premessa concreta della lotta per il superamento dell’attuale modello capitalista. La globalizzazione delle resistenze alle politiche neoliberiste, nelle loro diverse modalità attuative, pone da subito le ragioni della costruzione dei differenti e autonomi percorsi per un’economia altra, per una società altra, che in tanti ormai identificano nel socialismo nel XX secolo.
È per questo che continua a fischiare il vento... nonostante tutto... eppure soffia!
1 Per approfondimenti sui contenuti di questo articolo si veda: L. Vasapollo, Storia di un capitalismo piccolo piccolo, Jaca Book, 2007.
2 G. Bocca, Pandemonio. Il miraggio della new economy, Mondadori, Milano 2001, p. 72.
3 G. Bocca, Pandemonio. Il miraggio della new economy, Mondadori, Milano 2001, pp. 72-73.
4 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino, 2003., p. 96.
5 G. Cannella, Quale governo quale giustizia, in “Il Ponte” (numero monografico), marzo 2002.
6 «L’altro concetto in cui a mio parere si concretizza il contesto ambientale nel quale prende forma la neoborghesia è la terziarizzazione dell’economia. [...] qui io considero la terziarizzazione nel senso molto più ampio della crescita di capacità occupazionale e dello sviluppo socio-economico che il settore terziario è in grado di generare in una geocomunità. Con terziarizzazione intendo una dinamica che inevitabilmente riguarda anche le attività direttamente produttive, e che in ogni caso ha diretti riflessi sulla composizione sociale» (A. Bonomi, La neoborghesia e il capitale sociale, in A. Zaniboni (a cura di), Che fine ha fatto la borghesia? Dialogo sulla nuova classe dirigente in Italia, Einaudi, Torino 2004, p. 82).
7 Cfr. G. Cannella, Quale governo quale giustizia, in “Il Ponte” (numero monografico), marzo 2002.
8 Il metodo di produzione Toyota, definito anche modello ohnistico, consiste nella «totale riduzione degli sprechi e incessante perseguimento della riduzione dei costi di produzione, primo fra tutti il costo del lavoro». Per ulteriori approfondimenti, cfr. P. Caputo, Lavorare in team alla FIAT da Melfi a Cordoba, Immaginatoli edizioni, 2004.
9 Fabbriche statunitensi costruite al confine con il Messico, che impiegano a basso salario e con diritti ridotti ampie fasce di manodopera messicana, costituita da lavoratori pendolari che ogni giorno varcano la frontiera con permessi speciali per recarsi sul posto di lavoro.
10 G. Bocca, Pandemonio. Il miraggio della new economy, Mondadori, Milano 2001, p. 101.
11 G. Bocca, Pandemonio. Il miraggio della new economy, Mondadori, Milano 2001, p. 101-102.
12 P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, Famiglia, società civile, Stato, Einaudi, Torino 1998, p. 114.
13 Cfr. Eurispes, Rapporto Italia 2005, cap. 2.
14 G. De Rita, Composizione sociale e borghesia, in A. Zaniboni (a cura di), Che fine ha fatto la borghesia? Dialogo sulla nuova classe dirigente in Italia, cit., p. 55.
15 G. Nardozzi, Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione, Laterza, Roma-. Bari, 2004., p. 119.
15 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino, 2003, p. 9.
16 Fazio under fire, in “The Economist”, 28 luglio 2005.
17 R. Ruozi, Il valore dell’impresa, Spirali, Milano, 2006., p. 22.
18 A proposito della dissipazione del patrimonio di conoscenze, strutture e credibilità dell’Olivetti (alla morte di Adriano contava 36.000 dipendenti, di cui oltre la metà all’estero) nel quadro della storia dell’impresa italiana, cfr. il capitolo dedicato all’azienda di elettronica in L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, cit.
Sulla figura di Adriano Olivetti, e su quello che ha rappresentato il suo modello nella storia del Paese, cfr. B. Caizzi, Camillo e Adriano Olivetti, Utet, Torino 1962; G. Berta, Le idee al potere: Adriano Olivetti tra la fabbrica e la comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1980; G. Pampaloni, Adriano Olivetti: un’idea di democrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1980; V. Ochetto, Adriano Olivetti, Mondatori, Milano 1985 e - da ultimo - il recente G. Soavi, Adriano Olivetti: una sorpresa italiana, Rizzoli, Milano 2001.
19 N. Nesi, L’etica del capitalismo borghese, che ha caratterizzato gli ultimi due secoli, è finita, in “Proteo”, n. 1, 2004.
20 Oscar Sinigaglia è uno dei padri della siderurgia e - più in generale - dell’industria pesante in Italia. La sua attività di organizzatore del settore risale agli anni successivi alla Grande Crisi, in cui si occupò dei gruppi siderurgici passati sotto il controllo della Sofindit. Tre dei maggiori centri siderurgici italiani sono stati modernizzati direttamente da lui: quello di Cornigliano, vicino a Genova, che gli è stato intitolato; quello di Piombino e quello di Bagnoli, a Napoli. A lui si deve anche la costruzione del nuovo centro siderurgico di Taranto, che sarà il motore dell’industrializ-zazione delle Puglie e uno degli stabilimenti d’avanguardia del settore. Ricoprì diversi incarichi nel comparto dell’industria pesante, con mandati di rinnovamento: fu presidente dell’ILVA nel biennio 1933-34 e, dal 1945 sino alla morte, intervenuta nel 1953, fu presidente della Finsider, per incarico di Alcide De Gasperi. In questo ruolo allestì il grande piano di risanamento e di sviluppo della siderurgia italiana, che rese possibile il miracolo degli anni ’50.
21 Cfr. N. Nesi, L’etica del capitalismo borghese, che ha caratterizzato gli ultimi due secoli, è finita, , in “Proteo”, n. 1, 2004.
22 A. Carreras, Un ritratto quantitativo dell’industria italiana, in Storia d’Italia. Annali 15. L’industria, a cura di F. Amatori - D. Bigazzi - R. Giannetti - L. Segreto, Torino, Einaudi, 1999., p. 218.
23 G. Bruno e L. Segreto, Finanza e industria in Italia (1963/1995), Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, tomo 1, Torino, Einaudi, 1996., pp. 614-615.
24 «La metafora del “selvaggio West” impiegata ad usura per illustrare la spregiudicatezza mostrata da Berlusconi per realizzare la propria strategia nel mondo dei media deve essere sfruttata in tutte le sue accezioni. È vero che i rapporti, le amicizie, le contiguità con i detentori del potere politico ufficiale (con Craxi soprattutto e poi con il cosiddetto CAF - Craxi, Andreotti, Forlani) e con quello occulto (la P2 di Licio Gelli) sono stati determinanti per disporre di condizioni favorevolissime per affermarsi come unica, autentica “alternativa” alla Rai. È anche vero, però, che la Fininvest ha dovuto muoversi talvolta proprio come un “pioniere” in un territorio inesplorato, creando nel giro di una dozzina d’anni una realtà aziendale complessa e articolata. Meno fortunate sono state le esperienze internazionali in Francia e Spagna, dove Berlusconi ha trovato maggiori difficoltà sia nei rapporti con il potere politico sia una concorrenza meno disposta a subire». (G. Bruno e L. Segreto, Finanza e industria in Italia (1963/1995), Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, tomo 1, Torino, Einaudi, 1996., p. 616).
25 «Nell’aprile del 1977, Schimberni, legato a doppio filo al suo “sponsor” e maestro Enrico Cuccia, diviene vicepresidente della Montedison ed il 24 aprile 1980 ne assume la presidenza. Dal ponte di comando di Foro Bonaparte però non si accontenta di amministrare il dopo-Cefis, ma architetta un’operazione a dir poco temeraria: scala la Bi-Invest, holding del Gruppo Bonomi, uno dei partner di Gemina, divenuta il principale azionista proprio di Montedison. Un attacco dall’interno al salotto “buono” dell’alta finanza che scatena un terremoto in borsa, ma non incrina ancora il rapporto fiduciario con Cuccia, che lo appoggia.Conclusasi nel 1985 l’operazione Bi-Invest al costo di 320 miliardi, l’“omino in grigio” (uno degli altri soprannomi che lo hanno accompagnato, per il colore immutabile dei suoi abiti di vigogna) non si ferma e punta, nell’estate dell’86, alla conquista della Fondiaria. Montedison sale dal 25 al 37% della compagnia assicurativa fiorentina, da sempre fiore all’occhiello di Mediobanca. Uno “sgarro” che il gotha del capitalismo italiano non digerisce, e che Gianni Agnelli bolla con la celebre battuta: “Bi-Invest humanum, Fondiaria diabolicum”.
L’idea di Schimberni di fare del colosso chimico italiano una grande Public company è l’opposto del disegno perseguito da Cuccia, che abbandona il suo pupillo. Nell’ottobre dello stesso anno la Montedison diviene oggetto di una nuova scalata, che consacra la nuova stella dei “raider” Raul Gardini. A dicembre, Schimberni lascia quindi il vertice del gruppo, ma pochi mesi dopo si rilancia in una nuova e ancor più ambiziosa avventura: accetta di diventare l’amministratore straordinario delle Ferrovie. Arriva in piazza della Croce Rossa negli anni degli scandali e dagli sprechi della gestione Ligato. Da commissario delle Fs, Schimberni riprende a dar battaglia: sostiene l’idea di una ferrovia “leggera” con il conto economico in ordine. Chiude i rubinetti degli investimenti e blocca il progetto dell’Alta Velocità. Sia nella prima fase della sua gestione, basata su una sostanziosa cura dimagrante, fatta di tagli al personale e ai rami secchi della rete e di chiusure di cantieri per opere mangia-soldi; sia nella seconda, quando punta a far ordine nella costosa galassia delle partecipate Fs, Schimberni si scontra spesso con il potere politico. Memorabili i suoi confronti con l’allora ministro dei Trasporti, Carlo Bernini, cultore di piani faraonici e poco disposto alla cura Schimberni. Una cura che non passò il vaglio del Parlamento, e portò Schimberni ad andarsene nel 1990. Il nome di Schimberni è anche legato alla sfortunata vicenda della Armando Curcio Editore, che rileva tramite la Fincentro, per divenirne amministratore delegato (la Curcio finirà in amministrazione controllata per nove mesi per poi fallire il 21 febbraio ‘94), e al capitolo giudiziario fondi neri Enimont”, che lo vedeva imputato per falso in bilancio: reato caduto poi in prescrizione» (http://www.repubblica.it/online/economia/schimberni.html).
26 G. Bruno e L. Segreto, Finanza e industria in Italia (1963/1995), G. Bruno e L. Segreto, Finanza e industria in Italia (1963/1995), Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, tomo 1, Torino, Einaudi, 1996. p. 625.
27 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino, 2003, p. 9.
28 Cfr. CENSIS, Nuovi poteri ed economia territoriale, IV Forum Nazionale delle Economie Locali, Roma, 8 luglio 1994. Sull’evoluzione del concetto di distretto cfr. anche M. Lombardi, L’evoluzione del distretto industriale come sistema informativo: alcuni spunti di riflessione, in “L’industria. Rivista di economia e politica industriale”, XV, n.3, luglio-settembre 1994.
29 Becattini, pur non disponendo di una mole di dati stabile e affidabile, individua nell’ultimo quindicennio ancora una sostanziale crescita dell’organizzazione distrettuale, con alcuni cambiamenti nella distribuzione geografica: in particolare l’industria “tipica” più dinamica si sposta sulle ali del Paese, verso Sud lungo l’Adriatico e verso Nord nella pianura veneta; al Sud registra, invece, un attrito determinato dalla presenza della criminalità organizzate e dai disincentivi che essa rappresenta per l’imprenditoria sana (cfr. G. Becattini, I sistemi locali nello sviluppo italiano, in Il distretto industriale, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, p. 154).
30 Cfr. A. Fubini e F. Corsico (a cura di), Aree metropolitane in Italia, p. 565, in Proteo, n. 3 , 2005
31 G. Becattini, I sistemi locali nello sviluppo italiano, in Il distretto industriale, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, p. 154.
32 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino, 2003., p. 12.
33 M. Fortis, Il made in Italy, Il Mulino, 1996., p. 79.
34 Cioè quelli con un salario inferiore ai due terzi delle distribuzioni medie a tempo pieno.
35 R. Curcio (a cura di), Il dominio flessibile. Individualizzazione, precarizzazione e insicurezza nell’azienda totale, Sensibili alle foglie, Dogliani 2003, p. 49.
36 Secondo una ben nota distinzione, a differenza della paura, l’angoscia non è applicata ad un oggetto particolare: equivale invece ad un senso indefinito di trovarsi in balia degli eventi che occorre specificare per poter prendere delle adeguate contromisure. Di fronte all’angoscia, dunque, siamo in buona misura indifesi. Cfr. tra l’altro R. Curcio e N. Valentino, Nella città di Erech, Sensibili alle foglie, Dogliani 2001.
37 R. Curcio (a cura di), Il dominio flessibile, cit., p. 49.
38 Per approfondimenti cfr. J. Arriola - L. Vasapollo, L’uomo precario nel disordine globale, Jaca Book, Milano 2005.
39 A tale indagine ha collaborato il professore Lorenzo Bordogna docente di sociologia dell’organizzazione all’università di Brescia. Rilevabile dal sito www.ilsole24ore.com, tale indagine è stata condotta prendendo in considerazione un campione di 320 amministrazioni.
40 G. Vaciago, Per tornare a crescere, Milano, Il Sole 24 Ore, 2005, p. 90.
41 A. Fumagalli, Breve storia e alcune riflessioni sulla flessibilità del lavoro e contrattazione individuale: il declino dei diritti di cittadinanza, da DeriveApprodi, aprile 2002, p. 1 di 5 (ora su www.altremappe. org/Fumagalli-breve-storia.htm).
42 G. Berta, Imprese e sindacati nella contrattazione collettiva, in Storia d’Italia. Annali 15. L’industria, a cura di F. Amatori - D. Bigazzi - R. Giannetti - L. Segreto, cit., p. 1037s.
43 Per una critica a tale concetto, cfr. L. Vasapollo - M. Casadio - J. Petras - H. Veltmeyer, Competizione globale e movimenti di resistenza, Jaca Book, Milano 2004.
44 E. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, Rizzoli, Milano 2002, p. 452.
45 Da una intervista a Giuseppe Turani, in merito alla pubblicazione de La nuova razza padrona. Politica e affari da Cefis a Montezemolo, Sperling & Kupfer, Milano, 2004, su http://www.
valuepartners.com, p. 1
46 Da una intervista a Giuseppe Turani, in merito alla pubblicazione de La nuova razza padrona. Politica e affari da Cefis a Montezemolo. Sperling & Kupfer, Milano, 2004, su http://www.
valuepartners.com
47 Da una intervista a Giuseppe Turani, in merito alla pubblicazione de La nuova razza padrona. Politica e affari da Cefis a Montezemolo , Sperling & Kupfer, Milano, 2004, su http://www.
valuepartners.com,p. 2.
48 E sarà proprio Berlusconi - che dopo tanti anni di politica, ormai, un po’ ci capisce, osserva Turani - a lanciare la candidatura di Montezemolo, tra il serio e il faceto, durante un convegno di Confindustria.
49 Sono le espressioni usate da Guido Rossi, ex presidente della CONSOB, in un’intervista rilasciata a “il manifesto” del 30 aprile 2004.
50 G. Becattini, Il fattore B, in Id., Per un capitalismo dal volto umano. Critica dell’economia apolitica, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 305.
51 Nel 2005, in controtendenza con un contesto produttivo effettivamente fragile, il secondo trimestre ha registrato un certo recupero, con una variazione sul PIL in termini congiunturali di + 0,7%.
52 Per i dati cfr. F. Barca, Italia frenata, Donzelli, Roma 2006, pp. 18-20.
53 cfr. F. Barca, Italia frenata. Donzelli, Roma 2006., p. 21. Per queste ipotesi si vedano: Banca d’Italia, Assemblea generale ordinaria dei partecipanti, Roma, 31 maggio 2005; R. Faini e A. Sapir, Un modello obsoleto? Crescita e specializzazione dell’economia italiana, in Boeri et al. (a cura di), Oltre il declino, Il Mulino, Bologna 2005.
54 G. Nardozzi, Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione, Laterza, 2004., p. 93.
55 G. Sapelli, Anatomia delle intercettazioni, in «Il Sole 24 ore», 23 giugno 2007.
56 Per tali dinamiche, la connessa diversificazione del conflitto sociale e il ruolo del sindacalismo di base, in particolare delle RdB/CUB, si veda D. Antoniello, L. Vasapollo, Eppure il vento soffia ancora, Jaca Book., Milano, 2006