Di fronte ad una campagna pubblicitaria, basata su slogan e
frasi ad effetto, che da anni grida e annuncia “fallimenti” del sistema
previdenziale, insinua contrapposti interessi tra la generazione dei giovani e
quella dei non meglio identificati “meno giovani”, dichiara la preminenza
delle ragioni dell’impresa e del capitale sulle esigenze di vita dignitosa
delle persone lavoratrici e pensionate, il libro di Rita Martufi e Luciano
Vasapollo Le pensioni a fondo (ed. Mediaprint, Roma, L. 25.000)
finalmente disvela luoghi comuni e vere e proprie falsità su cui si basano
coloro che, ancora oggi, prospettano, malgrado i tagli alle pensioni
susseguitisi dal 1992, ulteriori diminuzioni della tutela pensionistica.
L’opera riporta tabelle, schemi, grafici che rendono
leggibili a tutti i “numeri” del finanziamento, della spesa, dei pensionati
o aspiranti tali, delle prestazioni, sia confrontando la situazione italiana con
quella di altri paesi (soprattutto europei), sia riportando “conti”
previsionali e proiezioni del sistema previdenziale a medio e lungo termine
(soprattutto di provenienza INPS). Una esauriente rassegna, quindi, di dati “ufficiali”
che però dovrebbero essi per primi essere letti criticamente perché, come
ricordano gli autori, altrettanto “ufficiali” studi - addirittura
provenienti dalla medesima fonte- hanno ipotizzato alcuni anni fa il cosiddetto
“crack delle pensioni” prima per l’anno 2000, poi spostato al 2020 ed oggi
proiettato al 2050 (pag. 32).
E allora risalta ancora più evidente la discrasia e la
drammaticità tra ciò che allarmisticamente viene previsto dagli studiosi “ufficiali”
ma che, come detto, andrebbe verificato - sulla incapacità del sistema
previdenziale di mantenere i livelli di tutela tradizionali e ciò che invece,
attraverso le riforme ed i tagli attuati ed attuandi, è la prospettiva
pensionistica degli odierni lavoratori allorché andranno in pensione.
Due tabelle rendono l’idea di ciò che ha significato l’intervento
prima del Ministro Amato e poi di Dini, oltreché le previsioni anche della
scorsa finanziaria del Governo D’Alema, e sono quella, a pag.96, che
quantifica il taglio della pensione inteso come diminuzione della pensione
mensile con il sistema contributivo e con la “Amato a regime” rispetto alla
precedente normativa (una perdita superiore al 20%), e quella, a pag. 137, che
quantifica il grado di copertura della pensione complementare (il lavoratore
deve privarsi del 10 % del proprio reddito per 35 anni per poter avere una
pensione complementare di appena il 23%).
Ciò che poi riescono a far emergere gli Autori è che la,
pur scarsa, copertura previdenziale sarà possibile solo nei confronti di una
sempre minore quantità di persone. Infatti, la precarizzazione del rapporto di
lavoro, con l’alternarsi di periodi lavorati a periodi di disoccupazione,
avrà effetti sul quantum della pensione atteso che la pensione non sarà
più calcolata sulle “ultime” retribuzioni bensì sui contributi versati. E
allora il tanto decantato, anche da parte di alcuni settori sindacali, sistema
contributivo, di fronte ad una vita lavorativa interinale, con contratti a
termine, borse lavoro, inquadramenti e retribuzioni modeste, mostra che la
prospettiva è quella di un ulteriore abbattimento del livello pensionistico
già tagliato al lavoratore classico. La prospettiva di una società con
ampi settori della popolazione in miseria diventa allora, statisticamente, una
certezza. E per questo, sostengono Martufi e Vasapollo, non di “riforma
previdenziale” si dovrebbe parlare bensì di tagli, precarizzazione e
privatizzazione con lo scopo di aumentare le risorse per finanziare... il “capitalismo
finanziario”.
L’ingiustizia del sistema previdenziale prossimo-vigente
emerge non soltanto per le approfondite considerazioni degli Autori ma anche, a
giudizio di chi scrive, da una ulteriore considerazione per cui la prospettiva
dei “tre pilastri” (previdenza pubblica, previdenza complementare di origine
collettiva e previdenza individuale) ritenuta sufficiente per fondare un sistema
di sicurezza sociale rischia di coprire solamente quei settori del lavoro
tutelati, minoritari ed in via di estinzione, che quindi sono quelli che meno
hanno la vitale esigenza di un sistema di protezione sociale. Ed infatti se un
lavoratore gode di un previdenza complementare di origine collettiva è perché
appartiene ad una categoria sindacalmente forte, e se un lavoratore può
permettersi di finanziare un terzo livello previdenziale (individuale e privato)
è perché ha una capacità reddituale tale da permettersi di “diversificare”
il suo notevole risparmio anche in una polizza vita.
Su come riportare “a galla” le pensioni gli Autori
indicano diverse strade, tutte percorribili, ma principalmente quella dal
recupero dell’evasione contributiva e della lotta al lavoro nero. Tra le
ipotesi del finanziamento della previdenza viene anche prospettata, nelle
conclusioni, l’ipotesi di una seria tassazione dei capitali e cioè di
un sistema che socializzi l’accumulazione del capitale e quindi che
distribuisca la ricchezza derivante da incrementi di produttività che, oggi,
vanno ad esclusivo vantaggio del capitale e non del lavoro.
Si intravede, quindi, una prospettiva di politica del diritto
che andrebbe sviluppata ed interpretata alla luce dei principi costituzionali di
solidarietà sociale aggiornando, però, il valore lavoro con quello
di appartenenza alla società e facendo discendere da questo il diritto ad una
efficace protezione sociale a prescindere dallo status di lavoratore.