Rubrica
Lo sviluppo alternativo eco-socio compatibile

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Sergio Garavini
Articoli pubblicati
per Proteo (2)

Deputato, Presidente “Associazione per la sinistra”

Argomenti correlati

Ambiente

Lavoro

Nella stessa rubrica

Convegno Ambiente e Lavoro
Sergio Garavini

“Contraddizione ambientale” e mercato del lavoro
Luciano Barca

 

Tutti gli articoli della rubrica "Lo sviluppo alternativo eco-socio compatibile"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Roma, 25 gennaio 2001

Convegno Ambiente e Lavoro

Sergio Garavini

Relazione introduttiva

Formato per la stampa
Stampa

La globalizzazione è divenuta negli ultimi anni il tema centrale di molti scritti e saggi. Essa è ora vista come un fatto ineluttabile connesso al progresso delle nuove tecnologie e come tale da accettare nel bene e nel male, quasi come fatto esterno alla volontà della persona umana e delle sue istituzioni politiche e sociali; ora è invocata e auspicata come garanzia di caduta di ogni barriera e come decisivo fattore di eguaglianza; ora è temuta come spada livellatrice al minimo comune denominatore di paesi e popoli di culture e tradizioni diverse e collocatisi nella storia, a volte attraverso guerre di potere e di conquista ma, anche, all’opposto grazie a lotte sociali riformatrici e, talvolta, rivoluzionarie a livelli diversi non solo di benessere, ma di libertà e di sicurezza.

In realtà la globalizzazione è contemporaneamente tutto questo e come altre fasi della storia dell’umanità presenta contemporaneamente molte facce, di cui alcune indubbiamente progressive, ed altre cariche di rischi e di pericoli. Nessuno può rallegrarsi che l’umanità entri nel terzo millennio recando ancora i segni delle divisioni stabilite da Metternich al Congresso di Vienna del 1821 o dal colonialismo, ma nessuno può neppure rallegrarsi che queste divisioni cadano non per un incontro di popoli e di culture, non per esaltare ciò che ciascuno ha saputo elaborare di meglio nei secoli passati, ma per imporre ai popoli un modello unico elaborato da quel terzo della popolazione che si è appropriato dei due terzi delle risorse mondiali e che ha in sé, come sua stessa essenza, la continua creazione di altre divisioni, di altre drammatiche separazioni e contrapposizioni.

Ben vengano dunque analisi e saggi come quello scritto da Luciano Vasapollo e Rita Martufi - Eurobang- che contrapponendosi alle volgari apologie analizzano con ricchezza di dati i processi di internazionalizzazione in atto e la loro conseguenze sulla società umana.

Dirò subito che anche per l’appartenenza ad una generazione diversa la forma da essi scelta per esporre le loro tesi non mi è congeniale. Il mio carattere di stampa preferito è ancora il bodoni - ormai introvabile nelle tipografie (il carattere che più gli si avvicina è, a seguito della globalizzazione, il Times New Roman) - e sono rimasto fedele alla vecchia regola saggistica e giornalistica che vuole l’esposizione dei fatti distinta dalle opinioni. Ma sono pronto a riconoscere che quello che sbaglia sono probabilmente io e che se si vuole essere letti oggi dai giovani bisogna forse gridare alcune parole, stamparle come parole di un manifesto, fare insomma bang.

Che non ostante questa difficoltà di approccio - che non posso non confessare ad amici che stimo - io abbia apprezzato il libro è comunque testimonianza di un contenuto degno di attenzione sia per la messe di dati che esso mette a disposizione dello studioso e del lettore, con un attento e documentato rinvio a fonti italiane e internazionali, sia per le tesi che il saggio dibatte.

Il libro è fondamentalmente organizzato attorno a tre interrogativi.

Il primo: se i processi concretamente in atto configurano una reale globalizzazione dell’economia e della finanza oppure se essi non rischiano di approdare ad una competizione a carattere politico strategico tra tre blocchi economici: Stati Uniti, Unione Europea e polo giapponese- asiatico.

Secondo: quale strategia deve darsi l’Europa di fronte ai processi in atto.

Terzo: quali controdenze è possibile mettere in atto, in particolare in Europa, nel momento in cui i processi in atto aggravano lo sfruttamento dei lavoratori e aumentano anziché ridurre la disoccupazione; e nel momento in cui, d’altra parte, la fabbrica ha cessato di essere la principale sede di organizzazione dei lavoratori dipendenti.

La risposta al primo interrogativo non è dubbia per gli autori: si va ad uno scontro tra i tre blocchi che non esclude alcuno strumento di lotta fino “all’uso indiscriminato della vera e propria guerra guerreggiata per la supremazia su aree internazionali ritenute strategiche”. Affermazione che può suonare eccessivamente pessimistica, ma che diventa realistica se alla guerra guerreggiata si sostituiscono “le guerre guerreggiate”. Guerre recenti sono infatti già state scatenate dagli Stati Uniti (Jugoslavia, Irak per non citare che i casi più clamorosi) e guerre non certo solo tribali sono in corso in Africa per il controllo di preziose materie prime. Particolare da non trascurare, tuttavia, è che l’Europa ha supinamente non solo avallato tali guerre ma, sia pure con sottili distinzioni tra Paese e Paese e, in particolare tra la Gran Bretagna di Blair e gli altri ha direttamente partecipato ad esse alienandosi simpatie pazientemente costruite con danno della sua autonomia e della sua economia.

Ho trovato molto interessante - e qui già entro nel merito della risposta che il libro dà al secondo interrogativo - l’analisi che Vasapollo e Martufi fanno della politica dell’Unione Europea e del suo assetto a sviluppo diseguale. Lo studio da essi condotto delle varie aree macroeconomiche risulta particolarmente utile per valutare le ricadute interne ai vari paesi degli impegni di Maastricht ma non meno utili appaiono i dati relativi a gruppi di Paesi. Da essi è possibile infatti partire per approfondire il discorso apertosi dopo il compromesso minimale di Nizza e valutare le prospettive che potranno aprirsi per quegli accordi particolari di cooperazione che finiranno con l’aggravare le disuguaglianze all’interno dell’Europa dando vita a raggruppamenti a diverse velocità.

Ma è proprio il compromesso minimale di Nizza, con i gravi interrogativi che esso lascia aperti, ma anche con le indubbie vittorie segnate in primo luogo dalla Germania e dalla Gran Bretagna, che dovrebbe spingere gli autori della ricerca a continuare ad approfondire la tematica europea e, forse, a rivedere alcune delle conclusioni tratte sulla competizione a tre.

È indubbio che la vittoria della tesi dell’allargamento dell’Unione su quella dell’approfondimento dei rapporti è, come dicevamo, in primo luogo un successo di Schoeder e poi di Blair. Schoeder e la Germania considerano di avere quasi un diritto di prelazione sui paesi dell’Est (alcuni dei quali già legati profondamente a Berlino: Croazia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Repubblica Ceca, Lituania) e di potere, ergendosi a loro portavoce, portare ancora più su Berlino - come è stato rilevato da più osservatori - il pendolo del potere sul Continente. Blair d’altra parte ha tutto l’interesse, a fronte dei numerosi avversari dell’Unione che ha nel suo stesso partito. a presentare una Europa minimale, senza troppi vincoli in merito alla salvaguardia degli aborriti diritti sociali.

Ma è da domandarsi se dietro il successo dell’estensione concepita come obiettivo primario non ci siano anche ed in modo rilevante le pressioni degli Stati Uniti, quegli Stati Uniti che non appena l’Europa si è azzardata a parlare di esercito europeo si sono affrettati, senza distinzioni tra il vincitore Bush e lo sconfitto Gore, a parlare di “esercito complementare alla Nato” e cioè ben subordinato alle strategie militari americane.

Gli Stati Uniti hanno un vecchio obiettivo: arrivare con la loro diretta e indiretta influenza fino ai confini della Russia, per circondarla ed isolarla e l’obiettivo non è mutato con la fine dell’URSS: anzi è riemerso con nitidezza non appena il corruttibile Eltsin, che non muoveva foglia senza telefonare a Washington, è stato sostituito da un uomo, Putin, che con mosse volutamente esibite ha sottolineato che la Russia non intende rinunciare a giocare il ruolo di grande potenza.

Ecco perché, partendo dall’analisi condotta da Rita Martufi e Luciano Vasapollo, è bene continuare la ricerca e, intanto, rendere più dubitative certe affermazioni (l’ho già accennato a proposito di alcune sanguinose guerre scatenate dagli Stati Uniti). È indubbio che una competizione tra USA ed UE è in atto in molti campi, ma è una competizione le cui regole in molti casi sono stabilite da una parte sola: Casa Bianca o Federal Reserve che sia.

È dunque più che giusto vedere i danni che il passivo allineamento dell’Italia a modelli di altri paesi europei ha provocato e denunciare il ricatto che in nome dello “stare in Europa” è stato fatto pesare sul mondo del lavoro non solo non redistribuendo gli incrementi di produttività diretti e indiretti ai lavoratori, in termini di incrementi di salario o di orario di lavoro, ma mettendo in discussione diritti acquisiti e il ruolo stesso, in taluni casi originale, dei sindacati italiani. Ma è anche necessario contemporaneamente opporsi al minimalismo ed impegnarsi per un’Europa indubbiamente più autonoma dagli Stati Uniti e dal dollaro ma, soprattutto, per un’Europa dei diritti nella quale i popoli possano far sentire la propria voce, ed Europa dei diritti implica la difesa del Welfare State, una difesa non arroccata su vecchie formule, ma che in ogni caso richiede un impegno pubblico diretto e la serenità scientifica di rilevare i fallimenti del mercato accanto a quelli degli Stati e della Commissione europea.

E qui si colloca il terzo interrogativo posto da Rita Martufi e Luciano Vasapollo.

Dove far leva per organizzare forze in grado di mettere in atto controtendenze e di condizionare governanti sempre più lontani e, troppo spesso, nascosti dietro organismi tecnocratici il cui ruolo è in taluni casi solo quello di far da apriporta al capitalismo selvaggio?

La mia risposta concorda totalmente con quella data dagli autori del saggio. È il territorio il centro verso il quale far convergere una parte rilevante degli interessi della collettività, le nuove soggettualità che operano in una “fabbrica sociale diffusa nel sistema territoriale”, i nuovi soggetti, i movimenti dal basso. Sia lecito ricordare che nell’immediato dopo guerra tre grandi maestri e capi del sindacalismo italiano, Di Vittorio, Buozzi e Grandi, ebbero questa intuizione sia alla luce della realtà industriale ed agricola di allora sia alla luce dei comprovati rischi del corporativismo. E attingendo alla peculaliare memoria storica del riformismo italiano lanciarono e organizzarono su tutto il territorio italiano le Camere del Lavoro, come sedi fondamentali in cui far incontrare categorie diverse e mediare interessi diversi. Ancora prima delle mode europee fu la particolare concezione sindacale della Cisl a portare tutti i sindacati a smobilitare quasi senza combattere, - ricordo solo la strenua opposizione di Rinaldo Scheda - questo decisivo istituto. Non si tratta oggi di riesumare per forza questo o quell’organismo, ma certo si tratta di dare vita a sedi territoriali diffuse dove possa maturare quella socializzazione della politica, a partire dal basso, senza la quale avremo solo leaders senza seguito, referenziati da gruppi economico- finanziari o da ristrette lobbies.

Allora e solo allora l’intervento delle varie articolazioni dello Stato, che io non vedo necessariamente in opposizione al mercato smithiano, potrà avere un ruolo positivo anche in un‘Europa che compia nuovi passi verso una vera unione.