Così dopo Liebig e l’agrochimica diventa possibile,
nell’800, rimpiazzare tecniche tradizionali di coltivazione con altre più
redditizie. Decise e attuò, o fece attuare, chi aveva il comando sull’uso dei
terreni.
Così la fisica nucleare del primo ‘900 rende possibile il
progetto Manhattan, ma la decisione e attuazione di questo progetto avvengono
per opera del Governo degli Stati Uniti.
Così, con la nuova biologia molecolare, diventa possibile,
oggi, intervenire sulla fecondazione, sulla trasmissione genetica, fino alla
clonazione etc. - E diventa possibile anche una politica strozzina come
quella delle varie Monsanto e Novartis - nonché la pretesa di brevettare
sistemi viventi, etc. - Ma chi decide a attua queste politiche sono le varie
Monsanto e Novartis e compagnia e servitorelli loro - NON “la scienza”.
Ora: man mano che ci si avvicina all’oggi si vede questo.
Le decisioni di utilizzare conoscenze scientifiche per scopi (di potenza,
o di arricchimento - o putacaso anche di assistenza, perché no?), scopi che
altri, non “la scienza” pone e mette in opera - queste decisioni
investonovia via più largamente, più direttamente e radicalmente la vita
degli individui, dei popoli; talora forse (“compatibilità ecologiche”) l’insieme
di tutti gli uomini ora presenti e dei loro discendenti futuri. Tali
decisioni vengono prese, e attuate: per il bene e per il male. Non è questo il
luogo di farne la storia. Basterà tener fermo un punto: esse non sono, perché
per loro natura non possono essere, decisioni “della scienza” - né
della “comunità scientifica” (quella vera, che è il luogo del processo
critico in quanto passa attraverso individui, e non è “proprietà” loro!).
Non c’è nessuna “onnipotenza”, e nessuna “sovranità” della
scienza.
5. Ma quelle decisioni, che diventano sempre più
numerose, gravi di conseguenze, importanti, e che riguardano la vita collettiva,
vengono prese al coperto, dietro le quinte versicolori della c.d. “politica
spettacolo”, spesso anche al di là di Parlamenti e Governi. Esse trovano
sicofanti accademici che le predispongono, confortano e mettono in opera,
prestando i loro servigi di “esperti”, e talvolta, partecipando agli “utili”.
Costoro sono due volte felloni, infedeli all’impegno, traditori. (Sì:
traditori, non “colpevoli” soltanto). Una volta, perché non possono non
sapere, proprio loro scelti e pagati come “esperti”, né quale è la
portata prevedibile, sulla vita collettiva, delle decisioni cui cooperano; né,
ancor meno, che essi sottraggono all’universale, e rendono praticabili ai
potenti di turno, e ai loro interessi per definizione parziali e privati,
scelte, discussioni, decisioni, che perché riguardano la collettività, devono
essere discusse nella sfera dell’universale - la critica, lo spirito critico,
la consapevolezza civica. Così questi signori contribuiscono all’oscurantismo,
alla distruzione della sfera pubblica e razionale, della politica in
senso forte e democratico, comunque lo si voglia intendere.- E un’altra volta
traditori, perché svendono e svuotano la funzione critica, infinita dell’Università:
la quale non può certo, da sola e tutto in una volta, mettersi a “illuminare
il popolo” (ah, Federico di Prussia!): ma può, per la natura che è sua,
finché resta Università, preparare spiriti critici dentro le sue mura, e fuori
di esse, diffondere, promuovere lo spirito critico, in prospettiva dunque la
consapevolezza democratica e civica.
E però, non si tratta davvero di indignarsi! Si tratta di
ben altro e meglio: di capire. Dunque, andiamo avanti. Come è pensabile
il rapporto tra “Università” e vita civile nel mondo dell’avanzamento
infinito della scienza e delle scienze, che è il nostro, irrevocabilmente?
Ricordiamo brevemente che le “visioni del mondo” o “ideologie”,
o “filosofie” nel senso di A. Gramsci [Quaderno 11, § 12] - quelle per cui de
facto “ogni uomo è filosofo”, e non è proprio pensabile un
uomo, per quanto “semplice”, che non lo sia; per cui, di lì bisogna partire
per vedere come ciascuno, con altri e non (solo) “con libri” può render
coerente la sua “visione del mondo”, e portarla grado a grado fino “al
livello più moderno e avanzato” [ivi] - queste visioni del mondo o “ideologie”
o “filosofie”, che esistono comunque e necessariamente, possono
benissimo, nel processo del loro affinarsi e diventar più critiche e
comprensive e razionali, venir sostanziate di nozioni scientifiche: e lo sono
anche, più e meno: si tratta di esperienza e di propagazione di cultura, in
sostanza.
Ma è il loro modus operandi che è diverso da quello
della ricerca scientifica (e accademica, quando l’Università è Università).
Esse infatti sono le forme in cui gli uomini si danno conto di sé stessi, dei
loro scopi, dei loro contrasti storici. Perciò la “sintesi totale” risulta
dallo scambio, dallo scontro, dal dibattito nel senso più ampio - discussione,
insegnamento, famiglia (dove almeno si sa che coi bambini bisogna parlare), ogni
forma di vita e organizzazione sociale. In ognuna di queste, si scontrano oggi
lo spirito critico e il suo contrario, l’insegnamento vero e l’addestramento
di utili idioti specialistici, diciamo pure: la volontà di far pensare
autonomamente, e l’oscurantismo. (Chi dei lettori è insegnante, o ha figli,
lo sa dalla pratica di una vita).
Così non può esserci “sintesi ultima”, mai. L’opera
di cui si parla, è la vita stessa, infinita, della ragione negli uomini e per
loro, e per opera loro. A questa l’Università, che non diventa addestramento
di abilità per scopi allotri, imposti dall’esterno, e che né docenti né
discenti han più da sindacare (come si vorrebbe e si tenta di attuare), ma è
conforme alla sua idea, può dare un contributo multiforme e grandissimo. E -
nell’età della scienza - solo essa, in quanto luogo della ricerca
infinita, può darlo.
E lo ha dato, in parte, e darà - anche se l’idea dell’Università
dovesse esser scacciata dalle sedi chiamate ancora “Università”, ma ridotte
ad ammaestramento cosiddetto “professionalizzante”, e trovar tetto in altre
istituzioni e forme di vita.
6. Vero è che l’Università di per sé non può, anche
qui, farsi carico di tutta l’opera. Ma può - in quanto sia davvero luogo
unitario della scienza / delle scienze - da una parte offrire (nel senso detto
sopra), risultati conoscitivi, “scientifici”. I quali saranno sempre, come
tali, mezzi di decisioni pratiche, “politiche” (certo - anche quando “politica”
sia degradata ad “affarismo”: questo l’Università può combattere, nel
suo seno, e grazie alla sua azione critica nella vita pubblica: ma non, come
Università, eliminare).
E può in secondo luogo contribuire, come si diceva più
avanti (e come Arnd Morkel insiste nel suo libro) a obiettivare e a render
razionali i criteri di scelta comuni, applicando lei, Università, il suo metodo
dell’esame razionale disinteressato.
Ma, allora, si vede. Tutto questo - sia il “lavoro
scientifico” dell’Università, in senso stretto, sia il contributo
scientifico-critico, offerto dalle discipline “umanistiche” ma non solo
da loro, e anzi nell’interscambio con le altre nella stessa vita
universitaria - tutto questo è contributo, in ultima analisi, alla
discussione tra cittadini, alla trasparenza e consapevolezza, delle scelte che
ci spettano, nel mondo della scienza e della vita moderna.
E poiché questa è la “funzione”, la “utilità” dell’Università
nel mondo di oggi, è ora facile vedere che questa funzione si attua solo in
quanto l’Università, sia nelle “scienze” che nelle “humanitates”, salvaguardi,
difenda, affermi il suo ruolo di sede della ricerca, infinita e disinteressata,
nella continuità delle generazioni.
Luogo perciò, poi, di indagine permanente e altrettanto
infinita, tanto dei fondamenti delle scienze, che di quelli della convivenza
civile.
E si vedono ormai altre tre cose. (Chiedendo venia al lettore
per il lungo giro fatto prima di arrivarci - indipensabile tuttavia, per le
tante ubbie, superficialità e menzogne addensate oggi davanti al problema
essenziale, e che Arnd Morkel, in tante pubblicazioni e interventi, ha avuto il
merito di pazientemente, modestamente dissipare).
Primo. L’Università come Università è incompatibile con
l’uso, come che sia camuffato, di conoscenze scientifiche per scopi di lucro,
di potere, di prevalenza di interessi particolari sulla, e dunque contro, la
collettività.
Secondo. L’Università come Università è incompatibile
con un “mondo” (o una c.d. “cultura”) diviso in “esperti” (casta
sacerdotale nell’antica Babilonia, o sicofanti e giullari oggi) da una parte,
e “pubblico bue” dall’altra - al quale per definizione, e come vediamo
tuttodì, si propinerà qualunque insensatezza, stimolo immediato, emozione
volgare. Per definizione, perché “pubblico-più-esperti” vuol dire:
non-discussione critica, non-cittadini, ma: chi pontifica di qui, chi ascolta di
là.
Terzo. L’Università come Università è non solo
compatibile, ma nel mondo moderno, e nell’universo delle scienze moderne, necessariamente
collegata con una progressiva realizzazione della consapevolezza pratica,
operante, fattiva, riguardo alle scelte che concernono la collettività. “La
verità rende liberi” è formula evangelica. Si può, modestamente,
aggiungere: la ricerca infinita della verità, la produzione di spirito critico
e di spiriti critici sono fonte di trasparenza e capacità di giudizio. Perciò
sono condizione necessaria (anche se non sufficiente), di ogni autogoverno, di
ogni “democrazia” in qualunque senso reale, non fittizio e d’impostura.
L’attacco all’Università è attacco a quanto si frappone
all’uso particolaristico del sapere, per fini anche distruttivi e rovinosi, e
però sempre, per loro natura, inconfessabili, perchè non-universali,
non-comuni, né conosciuti e ragionevolmente discussi dalla collettività.
Questo attacco, come viene condotto ora, è lo sbocco conseguente della
subordinazione di tutta la vita sociale ad interessi particolaristici, sotto il
manto stracciato del mito neoliberale.
L’attacco all’Università, che è in corso, è un aspetto
dell’attacco alle basi della cultura in quanto vita multiforme ma comune, cioè
alla cultura come opera tendenzialmente di tutti, nella discussione, nei “cento
fiori”, nello spazio collettivo, sempre rinnovato, del linguaggio verbale,
artistico ecc. - L’Università è luogo di produzione di cultura
essenzialmente pubblica, e tanto più essenzialmente pubblica quanto più “alta”
(contrariamente al pregiudizio e alla spocchia dei cercatori di “nicchie” e
“mode”: ma i Promessi sposi, la Divina Commedia, Vivaldi e
Verdi sono pur “roba nostra”, come lo sono Galileo e Einstein). Essa diventa
ora terra di conquista e di colonizzazione per l’anticultura,
variamente camuffata, mirante a rinchiudere settori della popolazione ciascuno
nel suo ghetto. Questo, verso l’esterno.
Ma non è difficile vedere che un tale “esterno” ben si
correla alla colonizzazione interna dell’Università per scopi di
potere, di arricchimento, sotto la logica dell’interesse personale, aprendo la
strada a tutte le corruzioni, le clientele, le “cordate”.
Finalmente, l’attacco all’Università è attacco all’alleato
più essenziale, nel mondo moderno e della scienza moderna, che lo spirito
democratico possa avere.
Senza questo alleato, che è la scienza, la cultura, la
critica razionale, paziente e impacificabile, le esigenze di democrazia sono
destinate a restare protesta, conventicola, testimonianza. I signori del “mercato”
e della “cultura d’impresa” lo sanno da un pezzo.