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La transizione difficile

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Alessandro Mazzone
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Professore di Filosofia della Storia, Università di Siena

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La posta in gioco nell’Università

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Così dopo Liebig e l’agrochimica diventa possibile, nell’800, rimpiazzare tecniche tradizionali di coltivazione con altre più redditizie. Decise e attuò, o fece attuare, chi aveva il comando sull’uso dei terreni.

Così la fisica nucleare del primo ‘900 rende possibile il progetto Manhattan, ma la decisione e attuazione di questo progetto avvengono per opera del Governo degli Stati Uniti.

Così, con la nuova biologia molecolare, diventa possibile, oggi, intervenire sulla fecondazione, sulla trasmissione genetica, fino alla clonazione etc. - E diventa possibile anche una politica strozzina come quella delle varie Monsanto e Novartis - nonché la pretesa di brevettare sistemi viventi, etc. - Ma chi decide a attua queste politiche sono le varie Monsanto e Novartis e compagnia e servitorelli loro - NON “la scienza”.

Ora: man mano che ci si avvicina all’oggi si vede questo. Le decisioni di utilizzare conoscenze scientifiche per scopi (di potenza, o di arricchimento - o putacaso anche di assistenza, perché no?), scopi che altri, non “la scienza” pone e mette in opera - queste decisioni investonovia via più largamente, più direttamente e radicalmente la vita degli individui, dei popoli; talora forse (“compatibilità ecologiche”) l’insieme di tutti gli uomini ora presenti e dei loro discendenti futuri. Tali decisioni vengono prese, e attuate: per il bene e per il male. Non è questo il luogo di farne la storia. Basterà tener fermo un punto: esse non sono, perché per loro natura non possono essere, decisioni “della scienza” - né della “comunità scientifica” (quella vera, che è il luogo del processo critico in quanto passa attraverso individui, e non è “proprietà” loro!).
 Non c’è nessuna “onnipotenza”, e nessuna “sovranità” della scienza.

5. Ma quelle decisioni, che diventano sempre più numerose, gravi di conseguenze, importanti, e che riguardano la vita collettiva, vengono prese al coperto, dietro le quinte versicolori della c.d. “politica spettacolo”, spesso anche al di là di Parlamenti e Governi. Esse trovano sicofanti accademici che le predispongono, confortano e mettono in opera, prestando i loro servigi di “esperti”, e talvolta, partecipando agli “utili”. Costoro sono due volte felloni, infedeli all’impegno, traditori. (Sì: traditori, non “colpevoli” soltanto). Una volta, perché non possono non sapere, proprio loro scelti e pagati come “esperti”, né quale è la portata prevedibile, sulla vita collettiva, delle decisioni cui cooperano; né, ancor meno, che essi sottraggono all’universale, e rendono praticabili ai potenti di turno, e ai loro interessi per definizione parziali e privati, scelte, discussioni, decisioni, che perché riguardano la collettività, devono essere discusse nella sfera dell’universale - la critica, lo spirito critico, la consapevolezza civica. Così questi signori contribuiscono all’oscurantismo, alla distruzione della sfera pubblica e razionale, della politica in senso forte e democratico, comunque lo si voglia intendere.- E un’altra volta traditori, perché svendono e svuotano la funzione critica, infinita dell’Università: la quale non può certo, da sola e tutto in una volta, mettersi a “illuminare il popolo” (ah, Federico di Prussia!): ma può, per la natura che è sua, finché resta Università, preparare spiriti critici dentro le sue mura, e fuori di esse, diffondere, promuovere lo spirito critico, in prospettiva dunque la consapevolezza democratica e civica.

E però, non si tratta davvero di indignarsi! Si tratta di ben altro e meglio: di capire. Dunque, andiamo avanti. Come è pensabile il rapporto tra “Università” e vita civile nel mondo dell’avanzamento infinito della scienza e delle scienze, che è il nostro, irrevocabilmente?

Ricordiamo brevemente che le “visioni del mondo” o “ideologie”, o “filosofie” nel senso di A. Gramsci [Quaderno 11, § 12] - quelle per cui de facto “ogni uomo è filosofo”, e non è proprio pensabile un uomo, per quanto “semplice”, che non lo sia; per cui, di lì bisogna partire per vedere come ciascuno, con altri e non (solo) “con libri” può render coerente la sua “visione del mondo”, e portarla grado a grado fino “al livello più moderno e avanzato” [ivi] - queste visioni del mondo o “ideologie” o “filosofie”, che esistono comunque e necessariamente, possono benissimo, nel processo del loro affinarsi e diventar più critiche e comprensive e razionali, venir sostanziate di nozioni scientifiche: e lo sono anche, più e meno: si tratta di esperienza e di propagazione di cultura, in sostanza.

Ma è il loro modus operandi che è diverso da quello della ricerca scientifica (e accademica, quando l’Università è Università). Esse infatti sono le forme in cui gli uomini si danno conto di sé stessi, dei loro scopi, dei loro contrasti storici. Perciò la “sintesi totale” risulta dallo scambio, dallo scontro, dal dibattito nel senso più ampio - discussione, insegnamento, famiglia (dove almeno si sa che coi bambini bisogna parlare), ogni forma di vita e organizzazione sociale. In ognuna di queste, si scontrano oggi lo spirito critico e il suo contrario, l’insegnamento vero e l’addestramento di utili idioti specialistici, diciamo pure: la volontà di far pensare autonomamente, e l’oscurantismo. (Chi dei lettori è insegnante, o ha figli, lo sa dalla pratica di una vita).

Così non può esserci “sintesi ultima”, mai. L’opera di cui si parla, è la vita stessa, infinita, della ragione negli uomini e per loro, e per opera loro. A questa l’Università, che non diventa addestramento di abilità per scopi allotri, imposti dall’esterno, e che né docenti né discenti han più da sindacare (come si vorrebbe e si tenta di attuare), ma è conforme alla sua idea, può dare un contributo multiforme e grandissimo. E - nell’età della scienza - solo essa, in quanto luogo della ricerca infinita, può darlo.

E lo ha dato, in parte, e darà - anche se l’idea dell’Università dovesse esser scacciata dalle sedi chiamate ancora “Università”, ma ridotte ad ammaestramento cosiddetto “professionalizzante”, e trovar tetto in altre istituzioni e forme di vita.

6. Vero è che l’Università di per sé non può, anche qui, farsi carico di tutta l’opera. Ma può - in quanto sia davvero luogo unitario della scienza / delle scienze - da una parte offrire (nel senso detto sopra), risultati conoscitivi, “scientifici”. I quali saranno sempre, come tali, mezzi di decisioni pratiche, “politiche” (certo - anche quando “politica” sia degradata ad “affarismo”: questo l’Università può combattere, nel suo seno, e grazie alla sua azione critica nella vita pubblica: ma non, come Università, eliminare).

E può in secondo luogo contribuire, come si diceva più avanti (e come Arnd Morkel insiste nel suo libro) a obiettivare e a render razionali i criteri di scelta comuni, applicando lei, Università, il suo metodo dell’esame razionale disinteressato.

Ma, allora, si vede. Tutto questo - sia il “lavoro scientifico” dell’Università, in senso stretto, sia il contributo scientifico-critico, offerto dalle discipline “umanistiche” ma non solo da loro, e anzi nell’interscambio con le altre nella stessa vita universitaria - tutto questo è contributo, in ultima analisi, alla discussione tra cittadini, alla trasparenza e consapevolezza, delle scelte che ci spettano, nel mondo della scienza e della vita moderna.

E poiché questa è la “funzione”, la “utilità” dell’Università nel mondo di oggi, è ora facile vedere che questa funzione si attua solo in quanto l’Università, sia nelle “scienze” che nelle “humanitates”, salvaguardi, difenda, affermi il suo ruolo di sede della ricerca, infinita e disinteressata, nella continuità delle generazioni.

Luogo perciò, poi, di indagine permanente e altrettanto infinita, tanto dei fondamenti delle scienze, che di quelli della convivenza civile.

E si vedono ormai altre tre cose. (Chiedendo venia al lettore per il lungo giro fatto prima di arrivarci - indipensabile tuttavia, per le tante ubbie, superficialità e menzogne addensate oggi davanti al problema essenziale, e che Arnd Morkel, in tante pubblicazioni e interventi, ha avuto il merito di pazientemente, modestamente dissipare).

Primo. L’Università come Università è incompatibile con l’uso, come che sia camuffato, di conoscenze scientifiche per scopi di lucro, di potere, di prevalenza di interessi particolari sulla, e dunque contro, la collettività.

Secondo. L’Università come Università è incompatibile con un “mondo” (o una c.d. “cultura”) diviso in “esperti” (casta sacerdotale nell’antica Babilonia, o sicofanti e giullari oggi) da una parte, e “pubblico bue” dall’altra - al quale per definizione, e come vediamo tuttodì, si propinerà qualunque insensatezza, stimolo immediato, emozione volgare. Per definizione, perché “pubblico-più-esperti” vuol dire: non-discussione critica, non-cittadini, ma: chi pontifica di qui, chi ascolta di là.

Terzo. L’Università come Università è non solo compatibile, ma nel mondo moderno, e nell’universo delle scienze moderne, necessariamente collegata con una progressiva realizzazione della consapevolezza pratica, operante, fattiva, riguardo alle scelte che concernono la collettività. “La verità rende liberi” è formula evangelica. Si può, modestamente, aggiungere: la ricerca infinita della verità, la produzione di spirito critico e di spiriti critici sono fonte di trasparenza e capacità di giudizio. Perciò sono condizione necessaria (anche se non sufficiente), di ogni autogoverno, di ogni “democrazia” in qualunque senso reale, non fittizio e d’impostura.

L’attacco all’Università è attacco a quanto si frappone all’uso particolaristico del sapere, per fini anche distruttivi e rovinosi, e però sempre, per loro natura, inconfessabili, perchè non-universali, non-comuni, né conosciuti e ragionevolmente discussi dalla collettività. Questo attacco, come viene condotto ora, è lo sbocco conseguente della subordinazione di tutta la vita sociale ad interessi particolaristici, sotto il manto stracciato del mito neoliberale.

L’attacco all’Università, che è in corso, è un aspetto dell’attacco alle basi della cultura in quanto vita multiforme ma comune, cioè alla cultura come opera tendenzialmente di tutti, nella discussione, nei “cento fiori”, nello spazio collettivo, sempre rinnovato, del linguaggio verbale, artistico ecc. - L’Università è luogo di produzione di cultura essenzialmente pubblica, e tanto più essenzialmente pubblica quanto più “alta” (contrariamente al pregiudizio e alla spocchia dei cercatori di “nicchie” e “mode”: ma i Promessi sposi, la Divina Commedia, Vivaldi e Verdi sono pur “roba nostra”, come lo sono Galileo e Einstein). Essa diventa ora terra di conquista e di colonizzazione per l’anticultura, variamente camuffata, mirante a rinchiudere settori della popolazione ciascuno nel suo ghetto. Questo, verso l’esterno.

Ma non è difficile vedere che un tale “esterno” ben si correla alla colonizzazione interna dell’Università per scopi di potere, di arricchimento, sotto la logica dell’interesse personale, aprendo la strada a tutte le corruzioni, le clientele, le “cordate”.

Finalmente, l’attacco all’Università è attacco all’alleato più essenziale, nel mondo moderno e della scienza moderna, che lo spirito democratico possa avere.

Senza questo alleato, che è la scienza, la cultura, la critica razionale, paziente e impacificabile, le esigenze di democrazia sono destinate a restare protesta, conventicola, testimonianza. I signori del “mercato” e della “cultura d’impresa” lo sanno da un pezzo.