Smaltito l’entusiasmo iniziale, svanita la bolla
speculativa in Borsa, materializzati i primi licenziamenti di massa - Yahoo ne
ha annunciati 3.500 e Cisco diverse migliaia - per Internet e dintorni è venuto
il momento del Grande Ripensamento. Stanno saltando tutte le previsioni,
naturalmente, specie quelle sullo sviluppo dell’e-commerce, e nessuno è in
grado di dire con precisione da quale parte tirerà la Rete nel prossimo futuro.
Molti ridimensionano anche lo sviluppo della stessa new-economy, sulla cui
accezioni non ci sono più nemmeno opinioni concordi. . Nel suo ultimo libro,
“Internet Depression” Michael J. Mandel, redattore economico di “Business
Week”, scrive che la crisi dell’universo informatico avrà un disastroso
effetto trascinamento su tutta l’economia. Il boom della new economy è
destinato a trasformarsi in una recessione.
In termini di occupazione la Net Economy, secondo Nicola
Cacace, oggi pesa l’8% in America, il 6% in Europa e il 5% in Italia. Tra
dieci anni il lavoro. com sarà il 6,9% del totale. Non si prevede, comunque,
che il peso diretto di fornitori ed utilizzatori specifici superi il 10% dell’economia
neanche tra 10 anni, “e neanche nelle punte avanzate”. Tassi tutto sommato
molto più modesti di quelli favoleggiati negli scorsi anni. Secondo Mandel la
crisi <farà sentire il suo impatto più devastante sui lavoratori istruiti,
ben pagati, capaci di usare il computer, che si credevano immuni dagli alti e
bassi dell’economia. Particolarmente colpita sarà la forza lavoro mobile dei
lavoratori temporanei, i consulenti indipendenti, i freelance, i programmatori e
i Web designer “in affitto”, che durante il boom della New Economy hanno
prosperato>>.
Il 2001, secondo un altro esperto, Giancarlo Radice, ha
decretato la crisi dei cosiddetti portali generalisti, tipo CiaoWeb, di
proprietà dell’Ifil, la finanziaria della famiglia Agnelli, che nel 2000 ha
perso 46 miliardi, e Kataweb che di miliardi ne ha bruciati 100. È la crisi
dell’easy Internet, dell’accesso gratis. Le aziende che sono riuscite ad
arricchirsi con la miniera d’oro della pubblicità potranno continuare a “viaggiare”
verso il modello a pagamento, chi non ce l’ha fatta perirà inesorabilmente.
In Italia c’è ancora un po’ di spazio per le web agency, ma durerà poco.
Lo dimostra un dato che, manco a dirlo arriva dagli States. “Se fino a gennaio
del 2000 negli Usa ogni visitatore di un sito veniva “valorizzato” fino a
6.000 dollari - scrive Claudio Jampiglia sull’ultimo numero di “Guerra e
Pace” - dopo la caduta dei titoli tecnologici la valutazione è scesa a 1.500
dollari”. Insomma, se cade il finanziamento della pubblicità cade uno dei
pilastri fondamentali che tiene in piedi Internet. Le aziende tenderanno ad
offrire altri tipi di servizi più completi e rigorosamente a pagamento e per
far questo dovranno sottrarre informazioni da altre fonti “naturali”.
I primi a fare le spese di questa situazione saranno
ovviamente quelli che in Internet ci lavorano. Passeranno da una condizione di
lavoro duro e salari discreti ad una condizione di disoccupazione o, nel
migliore dei casi, lavoro duro e salari da fame. Molti rimpiangeranno la
cosiddetta old economy.
Bill Lessard e Steve Baldwin hanno raccolto le storie di vita
di questi nuovi proletari in un libro dal titolo “Netslaves, i forzati della
rete“ (Fazi Editore, 382, 35mila). Un po’ per esigenze di copione un po’
per demistificare il codice, “imbrigliato da un gergo astruso”, i nomi dei
netslavers sono tutti inventati. Lo stile è quello della fiction. Ma quello che
raccontano è tutto vero.
Mentre nella vecchia economia si porta avanti la battaglia
per le 35 ore, loro pagherebbero oro per lavorarne meno di 60-70 a settimana. Il
loro grado di flessibilità è al massimo. Al massimo è il loro livello di
sfruttamento. I padroni della rete saccheggiano i siti a suon di miliardi
arricchendosi attraverso spericolate operazioni finanziarie e loro sono
costretti a “stare al pezzo” anche per tre giorni di seguito, perché “c’è
un lavoro urgente da consegnare”. In Internet tutto è urgente. Tutto si gioca
sulla competitività. E la competitività è l’urgenza fatta schiavitù. Si
lavora di domenica e di notte. La reperibilità totale è la prima regola. Si
lavora fino a soffrire di gastrite acuta, mal di fegato, ansia e dissociazione
mentale. Si lavora fino a quando il tuo capo, anzi il tuo padrone, ti dice basta
e ti licenzia. Questo racconta il libro. E racconta pure che quando il
gruzzoletto intascato è finito e le stock option diventano carta straccia si
affaccia l’ombra del suicidio. “I giornali sono pieni di biografie di
ragazzini che dalla sera alla mattina sono diventati miliardari con Internet -
raccontano Lessard e Baldwin - e sono storie vere, come quella di Jerry Yang o
Marc Andeesen. Ma le storie di questo tipo sono qualche decina, quelle degli
schiavi della rete sono milioni”.
Nel ’95 quando Internet era la grande novità un tassista,
un progettista di siti, poteva guadagnare fino a 70 dollari l’ora. Oggi la sua
paga non arriva ai 10-15 dollari l’ora, tutto compreso, naturalmente. Eppure
sono la “fauna” più numerosa della NetSlavery, più del 50%. Fra i vari
fattori che stanno contribuendo a rovinare le tasche dei poveri diavoli della
Rete c’è l’esplosione dei programmi “Wysiwyg” (what you see what you
get, ciò che vedi è ciò che ti serve) e la riduzione di design a un numero
ristretto di operatori-chiavi nelle mani di grandi gruppi pubblicitari, che
cercano di mantenere i costi di produzione più bassi possibile e di imporre
tariffe sempre più alte a una clientela ancora inesperta e ferma alla logica
degli old media.
Internet è nata da un “sogno” militare, e ne ha
mantenuto lo stampo. La gerarchizzazione interna è molto alta, la
frammentazione dei compiti pure. Ognuno è legato ad un risultato e solo
apparentemente c’è un “gioco di squadra”. Dal committente, all’utente,
“che ha sempre ragione” - proprio come nella vecchia economia - all’usciere
del palazzo dove lavori, ma spesso il “palazzo” è la tua camera da letto,
sono tutti tuoi potenziali nemici, pronti a saltarti addosso al primo errore. E
poi alla prima ventata di crisi, come sta accadendo da circa un anno negli
States, viene tutto azzerato. Eri in “cielo” e cadi in terra, quella vera. C’è
un elemento sociologicamente interessante che il libro mette in luce solo in
parte. La Net Economy è un fenomeno che per il momento coinvolge, soprattutto,
la middle class americana, tenendo fuori per una gran massa di persone.
Osservata dal punto di vista della sua crisi sta diventando un vero e proprio
tritacarne della conoscenza e della professionalità. Esattamente il contrario
di quanto sostengono i propagandisti e i sostenitori della società dell’informazione.
Sarebbe uno dei pochi casi nella storia in cui la lotta di classe alligna nei
quartieri alti.
Un altro elemento interessante è che l’età del “disincanto”
si è abbassata notevolmente. Mentre in Europa soffriamo ancora della sindrome
di Peter Pan, questo almeno raccontano i sociologi, in America a 28 anni sei
già un rottame. Che fai a quel punto? “Se possiamo azzardare un pronostico -
aggiungono gli editori - se i web lavoratori non si daranno una calmata, se
continueranno a credere alla favola del programmatore di genio di 22 anni che va
avanti a pizza e Coca Cola e lavora per 36 ore filate, ci sarà un sacco di
gente malata nei prossimi anni, per giunta senza assistenza sanitaria”.
Lessard e Baldwin propongono una ricetta europea. “Se i NetSlaves decideranno
di investire nelle loro carriere, se si faranno assumere da aziende con un
minimo di stabilità e di rispetto per i dipendenti, se avranno attese
realistiche riguardo ai frutti del loro investimento, allora potranno sperare
per il meglio>>. Peggio dei web workers stanno gli addetti dei Call
center. Secondo una recente indagine dell’Ires Cgil il lavoratore di queste
unità è giovane, colto, single, guadagna poco e vive nella maggior parte dei
casi ancora in famiglia. I call center rappresentano il settore della new
economy che si sta avviando con una velocità maggiore sulla via della
sindacalizzazione. Per gli oltre 50mila addetti, infatti, la busta paga non
arriva ai due milioni al mese (96,5% dei casi) e per molti di loro (58,7%) il
contratto di lavoro è “atipico”. Molto spesso il loro “trattamento” sia
economico che normativo è inferiore anche rispetto a quanto contrattualmente
stabilito per i loro colleghi “dipendenti”. Le prime piattaforme di lotta,
che sono cominciate a spuntare proprio lo scorso anno, rivendicano proprio l’equiparazione
dei diritti. È il caso, per esempio, degli addetti ai Call center della Telecom
di Bologna. L’età media di chi risponde al telefono per le principali
società di telecomunicazioni ma anche di Internet e di customer care è pari a
29 anni. Le donne sono più giovani degli uomini (il 77% ha meno di 30 contro il
60% degli uomini). Il livello di scolarizzazione è abbastanza elevato: oltre l’80%
ha un diploma di scuola media superiore e il 17,3% ha una laurea contro una
percentuale sul totale degli occupati fino a 34 anni dell’11%. La maggior
parte dei lavoratori nei Call center ha un rapporto di lavoro atipico(58,7%),
naturalmente. Un terzo degli intervistati ha un contratto da lavoratore non
dipendente. Nel settore ci sono gradi di tutela molto diversificati. I
lavoratori delle aziende delle telecomunicazioni hanno soprattutto contratti a
tempo pieno (61%) e di formazione (21%) mentre quelli in outsourcing - in Italia
ce ne sono più di 100 - hanno soprattutto contratti di consulenza (64,3%) e di
collaborazione coordinata (21,4%). La retribuzione media è più bassa di un
milione e mezzo nel 53,7% dei casi. Il 12,7% degli addetti ai call center
guadagna meno di un milione al mese (21,8% dei lavoratori in outsourcing e l’8,5%
dei dipendenti delle società) mentre il 41% ha in busta paga tra uno e 1,5
milioni. Il 42,8% ha uno stipendio che varia tra 1,5 e due milioni. Solo il 2,9%
guadagna da due a tre milioni. Appena lo 0,6% oltre quattro milioni. A fronte di
livelli bassi di reddito comunque ci sono anche orari di lavoro più corti. Gli
addetti in outsorcing lavorano nel 51% dei casi con orari tra le 20 e le 29 ore
alla settimana mentre il 39% dedica al lavoro tra le 30 e le 39 ore alla
settimana. Le donne in media lavorano più degli uomini: il 41,1% occupa più di
40 ore contro il 30,6% degli uomini. Ma il regime degli orari non è certo una
“virtù” del sistema, bensì risponde a precise regole di flessibilità.
Una, per esempio, consente, utilizzando orari più corti, di non essere
obbligati alla pausa per il lavoro al viedeoterminale. La maggior parte degli
addetti non è sposata e vive con la famiglia di origine. I bassi livelli di
reddito non permettono una vita indipendente. Il 64,5% vive a casa con mamma
mente appena l’11,2% ha figli. Il settore, come dicevamo, non è certo immune
dal processo di sindacalizzazione. Si tratta di un processo spontaneo, anche in
considerazione del fatto che l’impostazione data dalle centrali sindacali
confederali risponde non ad una logica di categoria ma al principio della
tipologia contrattuale. È una logica che non ha senso nella storia sindacale
italiana. È come se i lavoratori attualmente dipendenti venissero distribuiti
in base al livello di appartenenza. Prima o poi questa “impostazione” si
renderà completamente obsoleta. All’estero la situazione è più o meno la
stessa. Ma in quel caso la spinta delle lotte sta producendo alcuni esperienze
interessanti. Tra le tante grane del gigante mondiale Microsoft, nel dicembre
scorso la società di Bill Gates è stata condannata al pagamento di 97 milioni
di dollari ad un insieme di collaboratori che avevano chiesto l’integrazione
dei benefici di cui godono gli impiegati. Microsoft da anni, come qualsiasi
altra azienda informatica, organizza buona parte della propria forza lavoro
attraverso contratti a tempo determinato, società interinali, contratti di
collaborazione. Nel 2000 circa un terzo dei lavoratori della sede centrale di
Redmond (Washington), erano *permatemps*, cioè lavoratori “permanenti
temporanei”, gente che da anni lavora quotidianamente all’interno degli
uffici e delle gerarchie aziendali (con sistemi di riconoscimento e accesso in
base a cartellini e pass elettronici di colori diversi da quelli degli impiegati
“regolari”, in una sorta di apartheid aziendale). I permatemps hanno chiesto
otto anni fa l’equiparazione alla copertura previdenziale, assicurativa e ai
premi di produttività dei dipendenti e alla fine Microsoft oltre a pagare, è
stata costretta a regolarizzare 3mila lavoratori temporanei (irrigidendo le
procedure per gli altri 8mila coinvolti). In Francia il sindacato Sud (un
sindacato di base indipendente dalle centrali)si è presentato alla sede di
Orleans per chiedere la solidarietà dei lavoratori francesi con i loro omologhi
Usa. Incassa poche adesioni e la risposta del responsabile della società nel
paese che si dichiara “aperto” alla presenza del sindacato. In Germania i
risultati sono decisamente migliori, i lavoratori interpellati dalla Ig Medien
decidono di indire elezioni per la nomina di un proprio rappresentante sindacale
in Amazon per chiedere il recupero degli straordinari e un contratto salariale
su base nazionale. È la prima volta nel settore tecnologico che i lavoratori di
diversi paesi coordinano le proprie lotte all’interno di una multinazionale,
riponendo al centro del dibattito la questione del lavoro, del tempo e del
rispetto transnazionaledei diritti dei lavoratori. Se negli Usa l’organizzazione
fa i conti con un’assenza di diritti di base dei lavoratori, in Germania la
presenza di rappresentanti sindacali nelle società Internet comincia a
diffondersi. Sono otto su cinquanta le società quotate al mercato tecnologico
che hanno un sindacato all’interno, e tra queste tutte le grandi
internazionali ad esclusione di Yahoo. Le adesioni dei lavoratori sono modeste
rispetto all’industria, in media il 4%, ma siamo solo all’inizio. In
Germania, di fronte alla “novità” del settore, cinque sindacati nazionali
hanno unito i loro sforzi in una coalizione unica diretta ai settori delle
telecomunicazioni, dell’informatica e nuove tecnologie e dell’industria dei
media, dando vita al sindacato Ver. di.
In Italia la situazione è ancora molto complessa. Da una
parte il processo di sindacalizzazione è partito dai Call center ma, dall’altra,
la difficoltà a reperire manodopera specializzata consente a tanti ragazzi di
guadagnare cifre interessanti. Ma durerà poco, è ovvio. Il sindacato,
,intanto, viene bandito dalle web agency e l’alta gerarchia dei ruoli porta il
rapporto di lavoro sul modello di quello individuale.
Joram Marino è un giovane di 21 anni. Lavora,
contemporaneamente, per una società leader nel settore tlc, per un’agenzia
pubblicitaria e per una web tv. Nella sua stanzetta, in una casa di Roma, passa
non meno di quindici ore al giorno. Il suo mestiere è web manager. È un po’
come dire il direttore di un giornale. Progetta, allestisce e consegna siti web
“chiavi in mano”. Quando riceve l’incarico dall’editore-cliente cerca di
mettere insieme una squadra di quindici persone che nel giro di un mese, due al
massimo, devono essere in grado di portare a termine il compito. Finito il
lavoro, finito l’impiego. Tutti a caccia di un altro cliente. Per “gestire”
il sito occorreranno al massimo, e mai continuativamente, un paio di persone. Di
ragazzi come Joram è pieno il mondo, ma in Italia ancora scarseggiano. È per
questo che l’enfant prodige, a differenza dei suoi “collaboratori”, riesce
a guadagnare la favolosa cifra di 200mila lire l’ora. È un caso limite,
certo. Tuttavia, per figure così specializzate il momento è ancora molto
buono. Fanno una vita d’inferno, però. Se non vogliono perdere il cliente
devono rendersi reperibili 24 ore su 24 e quando c’è bisogno arrivano a
lavorare anche 36 ore di fila, come i loro collaboratori. Questi ultimi non
guadagnano mai più di un paio di milioni al mese e non hanno un orario di
lavoro ben definito. Lavorano in team, e ciò significa che fino a quando c’è
uno della “squadra” che resiste gli altri non sono autorizzati a mollare.
Lavorano insieme, quindi. E vivono anche insieme. Come accade alla E. tree di
Treviso, una azienda informatica che cura i portali di imprese come Benetton,
Bnl e Sole 24 ore. In pratica non hanno una vita sociale perché tutto si svolge
in azienda: dal tempo libero al riposo. Il motto della E-tree è “the not
sleeping company”. È talmente “not sleeping” che i letti, rigorosamente a
castello, come nelle caserme, sono installati direttamente sul posto di lavoro.
“Anche per pranzo e cena si utilizza la cucina interna, ma molto spesso si usa
solo il forno a microonde. In ogni caso il tavolo da pranzo è la scrivania”.
Carlo (il nome è fittizio) è uno dei tanti ventiquattrenni attratti dal mito
del “problem solving”, del risolvere i problemi “degli altri”. Il team
non conosce riposi e il concetto di orario straordinario è del tutto
sconosciuto. “Ma c’è una specie di scambio di straordinari - racconta Carlo
contro un premio di produzione di sei mensilità al raggiungimento del budget
annuale prefissato. Chiaramente il premio di produzione lo ricevi solo se fai
straordinari a manetta”. Anche alla Tiscali di Renato Soru si lavora in team.
Alla Tiscali, come alla E-tree, del resto, buona parte dello “stipendio”
arriva attraverso le stock option. Vengono pagati con questa formula addirittura
quelli del gradino più basso, gli addetti al Call center. Una vera e propria
rapina, insomma. Lo stock option è un certificato, rilasciato dall’azienda,
che ti consente di acquistare le azioni della propria azienda ad un prezzo
bloccato. Ti può dire male o ti può dire bene. Ignazio Dessì, responsabile
delle risorse umane di Tiscali, vanta questa lotteria come il tratto più
innovativo nella politica retributiva dell’azienda. Un vero genio. “Riteniamo
questo aspetto centrale - dice - perché fa partecipare il dipendente all’azienda
e crea una reciprocità di giudizi”. Un’altra genialata è stata l’abolizione
del sindacato. Su questo punto, però, Dessì è molto diplomatico. “I
lavoratori non ne hanno sentito l’esigenza. Contrariamente a quello che accade
nella stragrande maggioranza delle altre aziende informatiche alla Tiscali il
personale, esclusi i “dannati” dei Call center, è tutto assunto a tempo
indeterminato. Ma non manca certo l’appalto esterno di intere fasi di
lavorazione. La retribuzione dei dipendenti non viene stabilita dal contratto
nazionale di categoria o dall’integrativo che, infatti, nelle aziende più
recenti non esiste, ma dal mercato e dalla trattativa individuale con il datore
di lavoro. Tanto è vero che una delle domande su cui c’è più reticenza da
parte delle aziende è quella che riguarda le politiche salariali. Si sa
soltanto che la parte variabile della retribuzione può oscillare tra il 25 e il
50%. La congiuntura, per il momento, gioca a favore dei professionals, ma il
futuro è pieno di incertezze. Cosa accadrà quando il loro numero aumenterà.
Cosa accadrà quando anche da noi comincerà a farsi sentire l’onda lunga
della crisi americana della Net-Economy?