“The Federal Business Revolution”
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Parte Seconda. Dal Terzo Settore al "Welfare dei Miserabili": gli altri strumenti della Grande Riforma della P.A.
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1. Il nuovo ciclo flessibile del "Welfare dei miserabili"
1.1. Welfare State: cambiamenti e modifiche degli ultimi anni
E’ a partire dalla seconda guerra mondiale che si comincia
ad usare il termine Welfare State ossia, lo "Stato del benessere",
per indicare un sistema a carattere sociale, politico ed economico nel quale
lo Stato si incarica di garantire ai cittadini il benessere sociale ed economico.
Attraverso anche la creazione di imprese diventa predominante la presenza in
settori quali l’assistenza sanitaria, l’istruzione, la previdenza, l’assistenza
sanitaria.
Per dare una collocazione storica al concetto di Welfare State
va ricordato che già nei primi secoli dell’era cristiana la Chiesa aveva realizzato
una sorta di aiuto con interventi a sostegno dei poveri, dei malati, degli anziani,
ecc.; in Gran Bretagna poi è del 1597-98 la cosiddetta Poor Laws (rimasta in
vigore fino al 1834) che si fondava sull’obbligo del lavoro per i poveri abili,
sul divieto di accattonaggio, sui sussidi per gli inabili e quelli per la disoccupazione
temporanea. Si rafforza, così, un sistema di assistenza e di cooperazione tra
pubblico e privato, in quanto mentre i governi avevano il compito di vigilare
sull’ordine pubblico, sulla sanità e sul rischio di epidemie e carestie, le
istituzioni laiche e religiose amministravano gli ospedali e fornivano i servizi
necessari ai poveri. Nel 1800, la crescente industrializzazione e urbanizzazione
collegate alla “questione operaia” fanno sì che il Welfare State diventi la
risposta alle nuove e sempre più complesse esigenze che non avevano più la possibilità
di contare sul solidarismo tradizionale. Il capitalismo industriale porta allo
sviluppo sempre più massiccio della classe operaia che si ritrova ad essere
il ceto sociale più bisognoso di interventi (malattia, invalidità, disoccupazione,
anzianità). Bismarck (tra il 1883 e il 1889) introdusse in Germania una assicurazione
obbligatoria gestita dallo Stato che tutelava le malattie, la vecchiaia, l’invalidità
e gli infortuni. Questo nuovo modello di Welfare ebbe una grande influenza in
tutta Europa, mettendo in discussione anche il cosiddetto “Welfare inglese”;
il modello tedesco, infatti, si caratterizzava per il fatto che la protezione
sociale era un diritto del lavoratore che doveva essere garantito dallo Stato.
È del 1942 il “Piano Beveridge” che ha istituzionalizzato una
generalizzazione del Welfare a tutti i soggetti e a tutti i rischi; in altre
parole furono introdotti i principi di onnicomprensività e di universalità ai
quali si è aggiunto poi il principio dell’egualitarismo delle prestazioni. Dopo
le due guerre mondiali sono state date applicazioni diverse nei vari paesi europei
del “Piano Beverdidge”. Da un lato vi è stato il modello scandinavo che tutela
tutti i cittadini (universalistico), il modello tedesco, occupazionale o particolaristico
(applicato anche in Francia, Lussemburgo, Austria, Paesi Bassi e Belgio) che
assicura i lavoratori ed infine il modello misto (nel quale rientra anche l’Italia).
Dalla fine degli anni settanta si è avuta una accelerazione
del processo di globalizzazione in tutti i paesi; questo sia per la riduzione
sempre più marcata delle restrizioni alla circolazione delle merci, delle persone
e dei capitali sia per il progresso tecnico che ha notevolmente migliorato i
costi di trasporto e di comunicazione.
Questa situazione pur portando alcuni vantaggi ha molte ripercussioni
negative: in primo luogo va rilevato che i benefici non hanno una distribuzione
uniforme in quanto non solo interessano diversamente i vari paesi ma, anche
all’interno degli stessi spesso riguardano solo alcuni settori produttivi ed
anzi peggiorano la situazione di altri. Infatti nei paesi dell’UE vi è una grande
differenza tra i sistemi di Welfare, differenza dovuta soprattutto alla diversa
storia civile, sociale, economica e religiosa esistente. Comunque vi sono due
principali sistemi di Welfare State: il primo, al quale si rifanno i paesi europei
si caratterizza per uno Stato sociale di tipo universalistico con una forte
presenza pubblica e il secondo, tipico degli Stati Uniti, nel quale il ruolo
pubblico è molto limitato e una grande parte delle prestazioni sociali è originata
da accordi fra lavoratori e imprese.
Infatti "Nei paesi europei il sistema di protezione sociale
copre praticamente la totalità della popolazione in tutti i comparti di spesa.
In Europa è quindi ragionevole parlare di uno Stato sociale universalistico
(che trova il necessario corrispettivo o nel finanziamento contributivo proporzionale
al monte salari o nel ricorso alla fiscalità generale secondo una ripartizione
riconducibile al reddito individuale)... in Europa, o perlomeno in Europa continentale,
la componente privata è circoscritta. In Italia, solo il 14% della spesa era
nel 1994 privata, rientrando in questa componente la spesa sanitaria privata
ed i trattamenti di fine rapporto, oltre ad interventi minori... nei primi anni
Novanta la quota di spesa privata sul totale della spesa sanitaria era pari
in tutti i paesi europei al 25% del totale". [1]
Questi dati, anche se riferiti soprattutto alla prima metà
degli anni ’90 (in quanto sono gli ultimi disponibili), confermano che la spesa
complessiva per il Welfare in Europa (con valori tra il 27 e il 31% del PIL)
è paragonabile a quella degli USA (i valori sono intorno al 28%). Va rilevato,
però, che pur essendo abbastanza vicini i valori percentuali è molto diversa
la composizione delle spesa tra i paesi europei e gli Stati Uniti; in questi
ultimi, infatti, oltre il 40% della spesa è riferito al settore privato.
Con i piani di ristrutturazione post-fordista accompagnati
da politiche monetariste restrittive e con il venir meno della conflittualità
sindacale delle organizzazioni dei lavoratori, sono entrati in crisi tutti i
sistemi di Welfare State fino ad arrivare addirittura ad una “cultura anti-assistenziale”,
affermatasi soprattutto nella seconda metà degli anni ’90 quando la maggior
parte dei paesi europei ha dovuto praticare politiche atte a riequilibrare la
finanza pubblica per sottostare ai parametri di Maastricht.
Gli anni ’90, infatti, complessivamente evidenziano una generale
diminuzione delle spese totali delle Amministrazioni Pubbliche in quasi tutti
i paesi dell’area dell’euro. Tutti i sistemi di Welfare che caratterizzano i
paesi industrializzati hanno in comune l’ipotesi guida secondo la quale coloro
che si trovano in condizioni di bisogno fanno parte di una “società residuale”
nei confronti della quale si deve intervenire in forma assistenziale.
Dopo una iniziale crescita della presenza dello Stato a garanzia
dei diritti dei cittadini si è assistito, soprattutto negli ultimi anni, ad
un drastico taglio della spesa sociale.
Qualche dato ci conferma quanto sostenuto: ad esempio "dal
1990 al 1993, le spese per la protezione sociale, rispetto al PIL, nel nostro
Paese sono aumentate in linea con la media europea di quattro punti, passando
dal 25 al 29 per cento; dal 1993, invece, il rispetto dei parametri di Maastricht
è coinciso con una fase di contrazione della spesa... La Danimarca destina alla
famiglia, all’abitazione e alla lotta contro l’esclusione sociale, il 19% del
PIL, mentre l’Italia ne impegna il 3,4%... L’insieme dei dati... consente anche
di confutare alcune teorie molto diffuse, prima fra tutte quella secondo cui
a una bassa spesa sociale corrisponda un alto livello di occupazione. Si tratta
di un equazione che non ha riscontri realistici, dal momento che, ad esempio,
l’Italia, con il 24,6% di spesa sociale rispetto al PIL, ha un livello di disoccupazione
dell’11%, mentre l’Olanda, con una spesa sociale del 31,6%, ha un tasso di disoccupazione
pari al 5%." [2]
Se si guarda al rapporto del Censis del 1999 si rileva che
la domanda di protezione sociale nel nostro Paese sta cambiando molto; ad esempio
cresce "la diffusione di malattie cronico-degenerative a forte impatto
assistenziale dovute all’invecchiamento della popolazione, tendenza che, secondo
le previsioni di qui all’anno 2040, dovrebbe ancora accentuarsi: al 1 gennaio
1999, in Italia gli ultrasessantacinquenni sono oltre 10 milioni, rappresentano
il 17,7% della popolazione, complessiva e, unico paese al mondo, superano il
numero di ragazzi con meno di quindici anni (che sono il 14,5%)... Qualsiasi ridefinizione
del Welfare, dal lato del finanziamento e dell’offerta di protezione sociale,
non potrà, poi, prescindere dai più generali processi di innovazione tecnologica
e sociale..." [3]
Negli ultimi decenni il cambiamento del panorama economico
e politico europeo e mondiale, ha determinato sempre più l’esigenza di riformare
e ridefinire il Welfare, per adattarlo alle nuove situazioni che si sono generate.
Il Welfare in questo senso dovrebbe divenire tale da permettere la semplificazione
della vita della famiglia, intesa non più in senso tradizionale, cioè salvaguardando
il capofamiglia e i lavoratori dipendenti, ma più allargato, considerando dunque
tutti i vari aspetti della società moderna e delle figure professionali e sociali
che in essa si vanno affermando.
Questa situazione ha inciso profondamente sul cosiddetto sistema
di Welfare State. Infatti “Disuguaglianza e rischi crescenti sembrano condurre
alla conclusione che il «bisogno» di Welfare aumenta in un’epoca di globalizzazione...
Si profila, quindi, la tesi secondo cui la globalizzazione esercita una duplice
e contraddittoria pressione sul Welfare State: da un lato essa ne richiede l’espansione,
dall’altro ne impone il ridimensionamento”. [4]
L’internazionalizzazione dell’economia, il superamento della
cosiddetta era fordista e taylorista, il cambiamento del modello di sviluppo
hanno portato alla nascita di nuovi bisogni che hanno acutizzato la crisi dello
Stato sociale. Le difficoltà legate alla natura stessa del mantenimento dello
Stato di benessere comportano la trasformazione del bisogno sociale da
esperienza collettiva a esperienza individuale, con una capacità redistributiva
favorevole soprattutto ai ceti medio-alti, che ha quindi provocato il prodursi
di forme nuove di povertà.
Basta ricordare, ad esempio, che negli ultimi anni si sono
avute forti ripercussioni negative nel mercato del lavoro: a partire dalla stagnazione
e spesso diminuzione del salario dei lavoratori, alla crescita delle differenze
di retribuzione tra lavoratori più o meno qualificati fino ad arrivare alla
crescita impressionante della disoccupazione soprattutto dei lavoratori meno
qualificati.
Alcuni elementi contribuiscono ad aumentare la crisi dello
Stato sociale: ”Il progresso tecnologico in molti campi come quello sanitario,
da un lato, ha favorito la riduzione dei costi, ma, dall’altro, ha dischiuso
un ampio ventaglio di innovazioni particolarmente costose. Ne è derivata una
domanda di nuovi beni e servizi con elevata elasticità rispetto al reddito...
L’invecchiamento della popolazione ha accentuato la crescita della spesa sociale
in campo sanitario e pensionistico... La crisi di alcune istituzioni sociali,
come la famiglia, nell’ambito delle quali hanno luogo processi di fornitura
di servizi (come la cura di bambini e di anziani) e di compensazione dei redditi,
almeno in parte alternativi rispetto a quelli garantiti dallo stato sociale,
ha implicato un accresciuto ricorso a quest’ultimo, con effetti simili a quelli
derivanti dall’invecchiamento della popolazione” [5].
Va fortemente sottolineato che le esigenze che hanno fatto
nascere il Welfare State (ossia combattere la povertà ed assicurare ad ogni
persona attraverso la sicurezza sociale il trasferimento dei rischi dall’individuo
alla collettività) sono a tutt’oggi ancora molto presenti soprattutto in una
fase come quella attuale nella quale si accentuano sempre di più i disagi sociali
e le differenziazioni tra le classi.
Ma l’attuale crisi del Welfare State è dovuta soprattutto al
cambiamento del ruolo dello Stato, poiché l’eccezionale fase di trasformazione
che sta vivendo l’economia da industriale a post-industriale richiede una più
grande flessibilità del mercato del lavoro, rendendo inadeguata la forma-Stato
legata al “ciclo vitale piatto e rigido fordista”.
È interessante evidenziare in che modo i vari sistemi di Welfare
differiscono nei vari paesi dell’Unione Europea. Vi sono da fare subito quattro
distinzioni [6]:
a) i modi delle le prestazioni;
b) le norme di eleggibilità o di accesso;
c) i modi di finanziamento;
d) gli apparati di gestione ed organizzazione.
Rispetto a questi elementi possono essere evidenziati accostamenti
geopolitici e caratterizzazioni politico-economiche e sociali diverse.
[1] N. Acocella (a cura di),
“Globalizzazione e Stato...”, pag. 192.
[2] Crf. G. Berlinguer, "Albert Einstein e Gioacchino Belli",
in Qualità, Equità, n.18/2000, pag. 8,9.
[3] Censis, Rapporto 1999, tratta da Internet.
[4] N. Acocella (a cura di), “Globalizzazione
e Stato sociale”, il Mulino, Bologna, 1999, pag. 37,38.
[5] N. Acocella (a cura di),
“Globalizzazione e stato...”, op. cit., pag. 171, 172.
[6] Sull’argomento si veda: M. Ferrera:, "Le trappole del welfare",
Il Mulino, 1998.