Negli ultimi mesi sono usciti ben tre libri che utilizzando
lo stesso linguaggio, raccontano alcuni aspetti della condizione del lavoro e
della lotta in Italia. Si tratta in tutti e tre i casi di raccolte preziose
perché parlano della contemporaneità ed entrano di prepotenza in quel “mito”
dell’invisibilità che certa sociologia modernista continua a propagandare tra
le giovani generazioni. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un rinnovato
interesse nei confronti della rappresentazione del lavoro. “I film che parlano
di lavoro ci sono - scrive Angela Azzaro su Liberazione - ma poche opere del
cinema di fiction affrontano la dura realtà della fabbrica, pochissimi la fanno
vedere”. Quando due anni fa venne proiettato “Risorse umane”, colpì il
fatto che la cinepresa varcava la soglia proibita, il rimosso, mostrando una
condizione comune a tanti uomini e tante donne. «Il film ha diversi meriti -
scrive l’Azzaro - in particolare quello di aver denunciato la logica delle
imprese neoliberiste che si traveste da linguaggio gentile per proporre vecchi
sfruttamenti. Ma senza quei corpi alle prese con la macchina, senza quei volti
di operai che affrontano il duro lavoro, “Risorse umane” non avrebbe lo
stesso effetto.
Il lavoro non è invisibile di per sé, quindi. Non deve
essere invisibile. L’invisibilità del lavoro, la sua “trasparenza” ad
ogni rappresentazione-non rappresentazione è il risultato di una precisa scelta
politica e sociale: il capitalismo deve occultare l’oggetto del proprio
misfatto perché la presa di coscienza è, ancora, un elemento di
destabilizzazione. «Riportare al centro le lavoratrici e i lavoratori, i loro
gesti, i loro luoghi paradossalmente è quasi una provocazione» scrive
Francesca Re David, segretaria nazionale della Fiom-Cgil, nel presentare il
libro di fotografie pubblicato dalla Fiom nell’ambito delle celebrazioni del
centenario. La frase rende bene il significato che oggi ha rappresentare il
lavoro. La pubblicazione a cura della Fiom si intitola “1981-2001. Ritratti e
lavori”, sottotitolo: dalla grande impresa alla fabbrica del software. Dei tre
è sicuramente il libro più propagandistico, in senso positivo, naturalmente,
ed è anche quello che proprio per la forte sottolineatura di un aspetto, il
legame tra il chi fornisce il lavoro e chi mette il capitale, porta dritto
dritto ad una conclusione che sembra avere un valore rivoluzionario: il lavoro
nella società moderna è ancora centrale. È per questo che si tenta ancora di
occultarlo.
Quello raccontato nelle pagine del libro della Fiom è un
lavoro in cui “l’operaio c’è”. E si vede. C’è, e non solo per quel
gesto meccanico che lo lega ai suoi nemici di sempre, la macchina, l’attrezzo
e il luogo di lavoro. C’è con tutto se stesso. Questo raccontano le
fotografie. Raccontano di un lavoro che nasce dalla sintesi di responsabilità e
attenzione, di dedizione e investimento che solo il lavoratore può “produrre”.
Che sia un altoforno dell’Ilva, o un asettico laboratorio informatico alla
Siemens. Che sia una “isola” alla Zanussi, o una postazione alla Fiat di
Melfi il lavoro c’è dove c’è il lavoratore. E non dove qualcuno ha
costruito un capannone intorno a una linea di produzione. Potrebbe sembrare un’ovvietà.
E invece non lo è, perché oggi è da questa osservazione, raccontata dal libro
con un realismo incantevole e una forza narrativa quasi senza precedenti, che
parte la rivendicazione dei diritti. È da qui che si ricava l’humus culturale
giusto per una battaglia di civiltà. Il lavoro frammentato, parcellizzato,
precarizzato, flessibilizzato fino all’oltraggio è un lavoro che non solo
attacca i diritti universali ma nebulizza la stessa integrità della persona e
il risultato della sua attività. Attraverso questo libro, curato da Gianni
Capaldi e Uliano Lucas, si torna a contatto con questa verità primordiale. E
non sono solo i volti delle “vecchie” tute blu a dircelo ma anche i gesti e
gli sguardi dei giovani. È una verità che riscontri in chi smeriglia un calco
in plastica in una fonderia della Brianza e in chi, apparentemente immobile e
senza storia, sta davanti ad un computer in attesa che il programma “giri”.
Certo, la responsabilità e la dedizione rappresentano
proprio quel plusvalore che l’imprenditore non paga e che vuole tutta per sé.
E questo dramma viene ben raccontato nelle foto. Una responsabilità e una
dedizione sofferta, quindi, perché sotto ricatto. Ed è questo il secondo
grande tema.
La lotta, quindi, come strumento di risoluzione del dramma è
ciò che viene affrontato nella piccola raccolta di foto di Roberto Canò. “Immagini
e frammenti di resistenza operaia”, edito a cura dell’Associazione per la
liberazione degli operai. Le foto di Canò mettono in evidenza come la
risoluzione di questo dramma è al di là da venire e che la strada che porta ad
essa è piena di ostacoli e sacrifici. Canò riesce a fissare tutta la violenza
interiorizzata nel corso della produzione e mai realmente “restituita”. È
la realtà dell’oggettivazione del ricatto, la dura realtà che costringe alla
lotta. Canò inquadra tutta la difficoltà e la durezza dell’iniziativa di
lotta in quella immediatezza e semplicità che sfuggendo al racconto di “altri”
comunica tutta la sua “naturalità”. Sono le facce stanche e tirate dei
picchetti, i corpi costretti alla pantomima per attrarre l’interesse dei
media, i gesti e gli sguardi di chi è costretto alla lotta e punta lì in quel
momento tutto quello che ha: gli affetti, le fatiche, i desideri, i sogni e le
capacità. C’è, in parte, un momento di liberazione autentico, e Canò fa
bene a documentarlo nei sorrisi, gioiosi e superiori, delle ragazze della
General 4, per esempio. Canò è un fotografo professionista e si mantiene
lontano dalla facile interpretazioni ideologica della “crisi” e degli
strumenti per farvi fronte. E la lotta non comunica, giustamente, quella
ricomposizione cui allude. Certo, la lotta è vocazionalmente ricompositiva. Ma
guardando le foto di Roberto ci si domanda cosa manchi ancora a quegli operai
per rivolgere contro il padrone la violenza che sono costretti a subire. Le foto
di Canò sono foto “moderne”, foto che documentano le assurdità della
modernità. Goodyear, General 4, Abb: tutte aziende che hanno chiuso i battenti
da un giorno all’altro senza un perché, senza cercare il confronto, senza
dare una seppur minima prospettiva. È per questo che i volti dei lavoratori
sono segnati da questo “abbandono” da questo lutto, da questo tradimento.
Sono sguardi che interrogano e, nello stesso tempo, cercano un punto di
riferimento. Ma è un punto di riferimento che si allontana sempre più. E lo
sguardo, conseguentemente, diventa sempre più astratto, perso nel vuoto,
immateriale. Sono foto che parlano dei guasti della concertazione e di un
sindacato che della “vocazione ricompositiva” ha fatto una bestemmia. Anzi,
lavora materialmente per negarla. I lavoratori sono quindi “costretti” all’autorganizzazione,
a incamminarsi con fatica e sacrificio in quel percorso di riconoscimento e di
sintesi che non è mai lineare e completo. Un percorso di vita con tutti i suoi
aspetti positivi ma anche con tanti sacrifici e dolori. Roberto Canò ha un’idea
ben precisa su cosa significhi oggi rappresentare il mondo del lavoro. «Non
credo che la questione sia nei termini: la classe operaia non viene più
rappresentata per immagini. Io dico: le classi che non hanno dimestichezza con
il potere sono rappresentate male. E quindi gli operai, le donne, gli immigrati,
i disoccupati e i giovani. Di immagini che magari mostrano queste classi ve ne
sono a bizzeffe sui giornali e in televisione, ma molto spesso riflettono il
punto di vista dei potenti. Ai padroni può far solo piacere vedere gli operai
chini sulla catena di montaggio, concentrati e attenti. È così che li
vorrebbero. Al loro posto. La foto quindi è piegata alle esigenze della parola
scritta, costretta ad un ruolo secondario dalla gente di scrittura. E purtroppo
molte immagini fotografiche si prestano volentieri a che tutto rimanga in
alterato, senza sbavature. I giornali dal canto loro, stanno bene attenti a non
usare immagini che possono dire veramente qualcosa. Al fotografo che inizia a
pensare con la propria testa nessuno darà lavoro, e con la scusa delle nuove
tecnologie tutto ciò sarà ancora più semplice. I “margini di manovra”,
gli spazi per poter dire qualcosa fuori dal coro si fanno quindi sempre più
angusti».
E veniamo al terzo prezioso volume, “Filmare il lavoro”.
Il libro è una raccolta di saggi, contributi, schede e fotografie di Mario
Dondero che fa parte della collana “Annali 2000” a cura dell’Archivio del
movimento operaio e democratico. Il volume è diviso in quattro parti. La prima
è a carattere generale, la seconda è dedicata interamente al panorama
italiano, con contributi che esplorano da un lato due grandi aree tematiche e
dall’altro le diverse fonti di provenienza degli audiovisivi sul lavoro
(militante, sindacale, industriale). La terza parte degli Annali è dedicata
alla contemporaneità: alla rappresentazione del mondo del lavoro oggi, un mondo
che ha subito e continua a subire, come scrive Antonio Medici nella
presentazione del volume, grandi trasformazioni, con la diffusione di nuove
figure professionali che spesso hanno a che fare con la produzione di oggetti
“immateriali” o, per altri versi, con l’estendersi dei cosiddetti “lavori
atipici”, cioè precari, flessibili, privi di garanzie contrattuali e di un
vero e proprio luogo di lavoro. La quarta ed ultima parte, infine, è dedicata
ad altri archivi e ne presenta le schede informative.
“Filmare il lavoro” costituisce una occasione senza
precedenti per una riflessione approfondita sul rapporto tra cinema e lavoro.
Una riflessione sia sui “fondamenti” sui differenti “statuti”, che nella
società contemporanea appaiono così illimitatamente distanti, sia sulle
vicende storiche, sui fatti che hanno costruito materialmente la rimozione del
lavoro dalla rappresentazione cinematografica, esclusi pochi, limitatissimi
esempi, naturalmente.
Scrive Jean-Louis Comolli, cineasta, saggista, caporedattore
dei “Cahiers du cinéma” dal 1966 al 1976: «Il lavoro stanca, la lotta fa
paura». «La regola d’oro dell’illusione vuole che non si noti nessuno
sforzo, a meno che non sia parte integrante del gioco». Disneyland ricorda
qualcosa? A questo motivo strutturale si aggiunge nella modernità il bisogno da
parte del capitale di produrre la distrazione e la rimozione. Distrazione e
rimozione, industria del divertimento costituiscono un potente moltiplicatore di
profitti e nello stesso tempo risolvono un sacco di problemi di controllo
sociale. «La distrazione invade tutto - scrive Comolli - respinge tutto quel
che non è tale: ed è al prezzo di perdere la loro condizione di operai che gli
operai stessi sono incitati al consumo sfrenato di quelle merci che, in quanto
operai producono». Così, se negli anni ’60-’70 il lavoro veniva
scarsamente rappresentato oggi viene completamente rimosso in quanto oltre a non
rientrare negli schemi della rappresentazione rappresenta un “disvalore”, un
vero e proprio ostacolo nella produzione della rimozione della condizione
sociale.