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2. Trasformazioni sociali e sindacato

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Fabio Sebastiani
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Le foto del lavoro che cambia

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Negli ultimi mesi sono usciti ben tre libri che utilizzando lo stesso linguaggio, raccontano alcuni aspetti della condizione del lavoro e della lotta in Italia. Si tratta in tutti e tre i casi di raccolte preziose perché parlano della contemporaneità ed entrano di prepotenza in quel “mito” dell’invisibilità che certa sociologia modernista continua a propagandare tra le giovani generazioni. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un rinnovato interesse nei confronti della rappresentazione del lavoro. “I film che parlano di lavoro ci sono - scrive Angela Azzaro su Liberazione - ma poche opere del cinema di fiction affrontano la dura realtà della fabbrica, pochissimi la fanno vedere”. Quando due anni fa venne proiettato “Risorse umane”, colpì il fatto che la cinepresa varcava la soglia proibita, il rimosso, mostrando una condizione comune a tanti uomini e tante donne. «Il film ha diversi meriti - scrive l’Azzaro - in particolare quello di aver denunciato la logica delle imprese neoliberiste che si traveste da linguaggio gentile per proporre vecchi sfruttamenti. Ma senza quei corpi alle prese con la macchina, senza quei volti di operai che affrontano il duro lavoro, “Risorse umane” non avrebbe lo stesso effetto.

Il lavoro non è invisibile di per sé, quindi. Non deve essere invisibile. L’invisibilità del lavoro, la sua “trasparenza” ad ogni rappresentazione-non rappresentazione è il risultato di una precisa scelta politica e sociale: il capitalismo deve occultare l’oggetto del proprio misfatto perché la presa di coscienza è, ancora, un elemento di destabilizzazione. «Riportare al centro le lavoratrici e i lavoratori, i loro gesti, i loro luoghi paradossalmente è quasi una provocazione» scrive Francesca Re David, segretaria nazionale della Fiom-Cgil, nel presentare il libro di fotografie pubblicato dalla Fiom nell’ambito delle celebrazioni del centenario. La frase rende bene il significato che oggi ha rappresentare il lavoro. La pubblicazione a cura della Fiom si intitola “1981-2001. Ritratti e lavori”, sottotitolo: dalla grande impresa alla fabbrica del software. Dei tre è sicuramente il libro più propagandistico, in senso positivo, naturalmente, ed è anche quello che proprio per la forte sottolineatura di un aspetto, il legame tra il chi fornisce il lavoro e chi mette il capitale, porta dritto dritto ad una conclusione che sembra avere un valore rivoluzionario: il lavoro nella società moderna è ancora centrale. È per questo che si tenta ancora di occultarlo.

Quello raccontato nelle pagine del libro della Fiom è un lavoro in cui “l’operaio c’è”. E si vede. C’è, e non solo per quel gesto meccanico che lo lega ai suoi nemici di sempre, la macchina, l’attrezzo e il luogo di lavoro. C’è con tutto se stesso. Questo raccontano le fotografie. Raccontano di un lavoro che nasce dalla sintesi di responsabilità e attenzione, di dedizione e investimento che solo il lavoratore può “produrre”. Che sia un altoforno dell’Ilva, o un asettico laboratorio informatico alla Siemens. Che sia una “isola” alla Zanussi, o una postazione alla Fiat di Melfi il lavoro c’è dove c’è il lavoratore. E non dove qualcuno ha costruito un capannone intorno a una linea di produzione. Potrebbe sembrare un’ovvietà. E invece non lo è, perché oggi è da questa osservazione, raccontata dal libro con un realismo incantevole e una forza narrativa quasi senza precedenti, che parte la rivendicazione dei diritti. È da qui che si ricava l’humus culturale giusto per una battaglia di civiltà. Il lavoro frammentato, parcellizzato, precarizzato, flessibilizzato fino all’oltraggio è un lavoro che non solo attacca i diritti universali ma nebulizza la stessa integrità della persona e il risultato della sua attività. Attraverso questo libro, curato da Gianni Capaldi e Uliano Lucas, si torna a contatto con questa verità primordiale. E non sono solo i volti delle “vecchie” tute blu a dircelo ma anche i gesti e gli sguardi dei giovani. È una verità che riscontri in chi smeriglia un calco in plastica in una fonderia della Brianza e in chi, apparentemente immobile e senza storia, sta davanti ad un computer in attesa che il programma “giri”.

Certo, la responsabilità e la dedizione rappresentano proprio quel plusvalore che l’imprenditore non paga e che vuole tutta per sé. E questo dramma viene ben raccontato nelle foto. Una responsabilità e una dedizione sofferta, quindi, perché sotto ricatto. Ed è questo il secondo grande tema.

La lotta, quindi, come strumento di risoluzione del dramma è ciò che viene affrontato nella piccola raccolta di foto di Roberto Canò. “Immagini e frammenti di resistenza operaia”, edito a cura dell’Associazione per la liberazione degli operai. Le foto di Canò mettono in evidenza come la risoluzione di questo dramma è al di là da venire e che la strada che porta ad essa è piena di ostacoli e sacrifici. Canò riesce a fissare tutta la violenza interiorizzata nel corso della produzione e mai realmente “restituita”. È la realtà dell’oggettivazione del ricatto, la dura realtà che costringe alla lotta. Canò inquadra tutta la difficoltà e la durezza dell’iniziativa di lotta in quella immediatezza e semplicità che sfuggendo al racconto di “altri” comunica tutta la sua “naturalità”. Sono le facce stanche e tirate dei picchetti, i corpi costretti alla pantomima per attrarre l’interesse dei media, i gesti e gli sguardi di chi è costretto alla lotta e punta lì in quel momento tutto quello che ha: gli affetti, le fatiche, i desideri, i sogni e le capacità. C’è, in parte, un momento di liberazione autentico, e Canò fa bene a documentarlo nei sorrisi, gioiosi e superiori, delle ragazze della General 4, per esempio. Canò è un fotografo professionista e si mantiene lontano dalla facile interpretazioni ideologica della “crisi” e degli strumenti per farvi fronte. E la lotta non comunica, giustamente, quella ricomposizione cui allude. Certo, la lotta è vocazionalmente ricompositiva. Ma guardando le foto di Roberto ci si domanda cosa manchi ancora a quegli operai per rivolgere contro il padrone la violenza che sono costretti a subire. Le foto di Canò sono foto “moderne”, foto che documentano le assurdità della modernità. Goodyear, General 4, Abb: tutte aziende che hanno chiuso i battenti da un giorno all’altro senza un perché, senza cercare il confronto, senza dare una seppur minima prospettiva. È per questo che i volti dei lavoratori sono segnati da questo “abbandono” da questo lutto, da questo tradimento. Sono sguardi che interrogano e, nello stesso tempo, cercano un punto di riferimento. Ma è un punto di riferimento che si allontana sempre più. E lo sguardo, conseguentemente, diventa sempre più astratto, perso nel vuoto, immateriale. Sono foto che parlano dei guasti della concertazione e di un sindacato che della “vocazione ricompositiva” ha fatto una bestemmia. Anzi, lavora materialmente per negarla. I lavoratori sono quindi “costretti” all’autorganizzazione, a incamminarsi con fatica e sacrificio in quel percorso di riconoscimento e di sintesi che non è mai lineare e completo. Un percorso di vita con tutti i suoi aspetti positivi ma anche con tanti sacrifici e dolori. Roberto Canò ha un’idea ben precisa su cosa significhi oggi rappresentare il mondo del lavoro. «Non credo che la questione sia nei termini: la classe operaia non viene più rappresentata per immagini. Io dico: le classi che non hanno dimestichezza con il potere sono rappresentate male. E quindi gli operai, le donne, gli immigrati, i disoccupati e i giovani. Di immagini che magari mostrano queste classi ve ne sono a bizzeffe sui giornali e in televisione, ma molto spesso riflettono il punto di vista dei potenti. Ai padroni può far solo piacere vedere gli operai chini sulla catena di montaggio, concentrati e attenti. È così che li vorrebbero. Al loro posto. La foto quindi è piegata alle esigenze della parola scritta, costretta ad un ruolo secondario dalla gente di scrittura. E purtroppo molte immagini fotografiche si prestano volentieri a che tutto rimanga in alterato, senza sbavature. I giornali dal canto loro, stanno bene attenti a non usare immagini che possono dire veramente qualcosa. Al fotografo che inizia a pensare con la propria testa nessuno darà lavoro, e con la scusa delle nuove tecnologie tutto ciò sarà ancora più semplice. I “margini di manovra”, gli spazi per poter dire qualcosa fuori dal coro si fanno quindi sempre più angusti».

E veniamo al terzo prezioso volume, “Filmare il lavoro”. Il libro è una raccolta di saggi, contributi, schede e fotografie di Mario Dondero che fa parte della collana “Annali 2000” a cura dell’Archivio del movimento operaio e democratico. Il volume è diviso in quattro parti. La prima è a carattere generale, la seconda è dedicata interamente al panorama italiano, con contributi che esplorano da un lato due grandi aree tematiche e dall’altro le diverse fonti di provenienza degli audiovisivi sul lavoro (militante, sindacale, industriale). La terza parte degli Annali è dedicata alla contemporaneità: alla rappresentazione del mondo del lavoro oggi, un mondo che ha subito e continua a subire, come scrive Antonio Medici nella presentazione del volume, grandi trasformazioni, con la diffusione di nuove figure professionali che spesso hanno a che fare con la produzione di oggetti “immateriali” o, per altri versi, con l’estendersi dei cosiddetti “lavori atipici”, cioè precari, flessibili, privi di garanzie contrattuali e di un vero e proprio luogo di lavoro. La quarta ed ultima parte, infine, è dedicata ad altri archivi e ne presenta le schede informative.

“Filmare il lavoro” costituisce una occasione senza precedenti per una riflessione approfondita sul rapporto tra cinema e lavoro. Una riflessione sia sui “fondamenti” sui differenti “statuti”, che nella società contemporanea appaiono così illimitatamente distanti, sia sulle vicende storiche, sui fatti che hanno costruito materialmente la rimozione del lavoro dalla rappresentazione cinematografica, esclusi pochi, limitatissimi esempi, naturalmente.

Scrive Jean-Louis Comolli, cineasta, saggista, caporedattore dei “Cahiers du cinéma” dal 1966 al 1976: «Il lavoro stanca, la lotta fa paura». «La regola d’oro dell’illusione vuole che non si noti nessuno sforzo, a meno che non sia parte integrante del gioco». Disneyland ricorda qualcosa? A questo motivo strutturale si aggiunge nella modernità il bisogno da parte del capitale di produrre la distrazione e la rimozione. Distrazione e rimozione, industria del divertimento costituiscono un potente moltiplicatore di profitti e nello stesso tempo risolvono un sacco di problemi di controllo sociale. «La distrazione invade tutto - scrive Comolli - respinge tutto quel che non è tale: ed è al prezzo di perdere la loro condizione di operai che gli operai stessi sono incitati al consumo sfrenato di quelle merci che, in quanto operai producono». Così, se negli anni ’60-’70 il lavoro veniva scarsamente rappresentato oggi viene completamente rimosso in quanto oltre a non rientrare negli schemi della rappresentazione rappresenta un “disvalore”, un vero e proprio ostacolo nella produzione della rimozione della condizione sociale.