L’estate che sta per chiudersi ha visto svilupparsi un
dibattito serrato e a tratti aspro sulla fase politica e le prospettive
immediate dell’autunno. Al centro di questo dibattito è stato, com’era
inevitabile dopo i fatti di Genova, il movimento no-global: i temi della sua
natura e collocazione politica, delle forme di organizzazione e di intervento,
dei suoi rapporti con le altre soggettività e formazioni del movimento di
classe. Si è trattato di una discussione, del resto ancora in corso, utile e
opportuna, che va sviluppata e difesa dai tentativi di soffocarla che, pure, da
più parti vengono compiuti. Si avverte, intorno al movimento no-global e al “popolo
di Seattle” il timore che riflessioni e critiche possano intralciarne la
marcia e persino metterne a repentaglio la crescita. Non è così. Al contrario,
solo la più franca ricerca e l’esercizio della critica possono irrobustire il
movimento e consentirgli di svilupparsi nella direzione giusta. Conformismo e
omertà sono sempre nemici mortali delle forze rivoluzionarie.
1. Il “paradigma della globalizzazione”
Uno dei temi principali intorno ai quali si è sviluppato
questo dibattito è la questione dei rapporti tra il movimento no-global e il
mondo del lavoro, le organizzazioni sindacali, le masse lavoratrici, il
proletariato precarizzato e ridotto a esercito di riserva dalle strategie di
innovazione tutte mirate (dalla metà degli anni Settanta in poi) al risparmio
di lavoro vivo. Molto sensibile ai più evidenti contraccolpi della “liberalizzazione
dei mercati” (polarizzazione della ricchezza globale e drammatico aumento
della povertà nel sud del mondo; riduzione in servitù delle economie nazionali
più deboli; danni all’ambiente e all’ecosistema planetario; tendenza alla
privatizzazione della ricchezza sociale fino al brevetto di organismi viventi),
il movimento no-global non sempre appare sufficientemente attento ai
contraccolpi che l’attuale fase dello sviluppo capitalistico mondiale genera
sulla forza-lavoro e sulle masse proletarie. Alla base di questa
sottovalutazione agisce con ogni probabilità una interpretazione degli attuali
processi di mondializzazione su cui conviene soffermarsi.
Per ragioni che non è qui possibile indagare (e che
evidenziano responsabilità dell’intera intellettualità “critica”, in
grave ritardo nell’analisi dei processi di trasformazione del sistema
capitalistico e delle forme di dominio), una interpretazione economicistica
della “globalizzazione” ha rapidamente affermato la propria egemonia nell’ambito
della sinistra critica. Alla base di tale interpretazione è l’idea che il
capitale transnazionale sia ormai divenuto il “sovrano” del mondo. Unificato
sotto il dominio capitalistico, ridotto a “Impero”, il pianeta sarebbe ormai
governato immediatamente dal capitale, dalle grandi multinazionali, le
quali non avrebbero ormai bisogno della mediazione politica né - a maggior
ragione - dell’intervento di apparati istituzionali (statuali o
internazionali) dotati di qualche autonomia decisionale. La politica come “sfera
di mediazione tra forze sociali in conflitto” non avrebbe più alcuna ragion d’essere,
e qualsiasi residuale contraddizione tra sfera politica e potentati economici si
sarebbe definitivamente eclissata a tutto vantaggio dal grande capitale, assurto
a “potere sovrano che governa il mondo”, per ciò stesso sganciato da
qualsiasi radicamento territoriale (nazionale o continentale).
Le conseguenze di questa prospettiva sono gravi e in parte
paradossali. Essa non impedisce soltanto di riconoscere e valutare in tutta la
sua drammaticità il ritorno della guerra al centro della scena politica
mondiale; rende altresì impossibile comprendere la centralità del
conflitto capitale-lavoro negli attuali processi di mondializzazione.
2. Il problema della guerra
Dalla presunta unificazione del mondo sotto il dominio di un
capitale compiutamente globalizzato discenderebbe la definitiva “obsolescenza”
degli Stati nazionali, estromessi dal governo effettivo dei corpi sociali e dei
processi di riproduzione e ridotti a “simulacri” di sovranità; da questa
circostanza deriverebbero, a loro volta, la fine dell’imperialismo e la
trasformazione della guerra in interventi polizieschi volti, da un lato, a
rinsaldare sul piano simbolico la primazia della potenza naturaliter imperiale
(gli Stati Uniti), dall’altro a sostenere il business planetario delle
grandi multinazionali. Fuori gioco sarebbe ormai la posta tradizionale dei
conflitti bellici: il controllo politico su territori e popolazioni.
Discende da questa interpretazione un primo effetto
apologetico di grande rilevanza. “L’importanza della guerra del Golfo” non
ruoterebbe intorno al controllo di un’area strategica sul piano “geopolitico”
ed economico, cruciale per gli equilibri militari nel Mediterraneo e in Medio
Oriente: essa deriverebbe “piuttosto dal fatto che presentò gli Stati Uniti
come la sola potenza capace di amministrare la giustizia internazionale non
in funzione di proprie ragioni nazionali, ma nel nome del diritto mondiale”
(Hardt e Negri, Empire, trad. franc., Paris 2000, p. 227). E lo stesso
dovrebbe dirsi per le guerre balcaniche seguite allo smembramento della
Federazione Jugoslava, per il conflitto israelo-palestinese, per lo stesso
progetto di costruzione dello “scudo stellare”.
Si illuderebbero dunque coloro che, ragionando ancora in
termini tradizionali, ritengono che l’egemonia militare sulla dorsale
sud-orientale dell’Europa serva agli Stati Uniti (concepiti ancora come
Stato nazionale) per contrastare “l’ascesa di altre potenze regionali
antagoniste” a cominciare da Russia, Cina e India e l’“autonomia politica
ed economica delle potenze alleate” (Brzezinski). Si ingannerebbero gli
strateghi del Pentagono nell’inquadrare le guerre in Jugoslavia entro il
contesto delle politiche “di sicurezza nazionale” in vista del nuovo secolo.
Sbaglierebbero quanti ritengono che il sostegno statunitense alla guerriglia
filo-albanese miri a “consolidare la sfera di influenza americana nell’Europa
sud-orientale” e sul “corridoio strategico per i trasporti, le comunicazioni
e gli oleodotti che attraversa la Bulgaria” (Chossudovsky). Si attarderebbero
su schemi arcaici quegli osservatori - tra cui Uri Avnery, leader di “Gush
Shalom” - che indicano in Bush e nella sua ristretta équipe (il
vicepresidente Cheney e il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleeza
Rice) “gli ispiratori delle ultime pratiche criminose” del governo Sharon
contro i palestinesi. Non coglierebbero nel segno, infine, coloro che
considerassero lo “scudo stellare” (argomento centrale del vertice Nato di
settembre a Napoli) un’arma offensiva di cui gli Stati Uniti intenderebbero
dotarsi nel quadro della tradizionale “dottrina del cappotto”, in base alla
quale gli Usa debbono disporre di armamenti sufficienti a vincere due conflitti
mondiali simultanei.
Niente di tutto questo, “ormai”. Dopo la costituzione
dell’“Impero” e la riclassificazione di tutti i territori nei termini di
suoi spazi interni, armi, eserciti e interventi militari altro non sono
se non azioni poliziesche intese a mantenere l’ordine pubblico secondo le
norme dettate dal capitale multinazionale. Non sorprende che, muovendosi sulla
base di queste premesse, “tutta la mobilitazione globale da Seattle in poi”
abbia lasciato “un po’ in ombra” (Mortellaro) la questione della guerra e
della pace, sottovalutando la crucialità della partita militare nella
competizione per il dominio su risorse e teatri strategici del pianeta.
Dinanzi a queste lacune, non è certo il silenzio la scelta
utile alla crescita del movimento. Esso costituisce un enorme potenziale
critico. La percezione diffusa e sempre più vasta della insostenibilità
sociale, politica, ambientale ed etica dell’attuale sviluppo capitalistico
può davvero segnare l’apertura di una nuova stagione di lotte di massa. Ma
perché ciò avvenga occorre che tale sentimento divenga reale consapevolezza, coscienza
di classe, e ciò implica analisi corrette degli strumenti di cui oggi l’Occidente
capitalistico si serve per perpetuare e rafforzare il proprio dominio.
3. Dall’“operaio sociale” al comunismo del capitale
Non è solo questo il portato del “paradigma imperiale”
attraverso cui vaste componenti del movimento no-global mostrano di leggere i
processi di trasformazione del capitalismo mondiale. Anche sul piano dell’analisi
sociale e politica esso approda a un esito paradossale, peraltro caratteristico
dell’economicismo.
A fare da pendant alla riduzione delle guerre ad
azioni di “polizia internazionale” è l’idea che le società siano
omogenee: corpi sociali unificati dalla pervasività del capitale, capillarmente
penetrato sin nella materialità dei corpi viventi. Come il pianeta sarebbe
unificato in quanto spazio continuo del capitale sovrano, così le collettività
sociali sarebbero unificate dalla totale coincidenza tra vita e lavoro,
attività produttive e attività improduttive, processi strutturali e dinamiche
sovrastrutturali. È la assolutizzazione della teoria dell’“operaio sociale”,
e poco importa, evidentemente, che questo trionfo sia fondato su un duplice
salto logico che ne mina la plausibilità alle fondamenta: da un lato l’analogia
formale tra la prassi vitale nella sua immediatezza (dinamiche
relazionali, agire comunicativo, scambio linguistico, pratiche riflessive ecc.)
e alcune attività produttive, considerate essenziali negli attuali processi di
riproduzione, è tradotta nella identità sostanziale di vita e lavoro;
dall’altro, queste determinate attività sono assunte a paradigma della
totalità delle funzioni riproduttive.
Sulla base di questo duplice movimento si erge l’edificio
teorico del “lavoro immateriale” e della immediata produttività della vita
stessa, dal quale discende una conseguenza forse inaspettata ma a guardar bene
caratteristica dell’economismo operaista, costituzionalmente incapace di
tematizzare la connessione dialettica tra politico e sociale e quindi costretto
a predicare l’autosufficienza delle dinamiche strutturali e, in apparente
alternativa, l’“autonomia del politico”. Se tutto è lavoro, se l’intera
collettività è costituita da proletari messi al lavoro nell’intero tempo
della loro vita, viene meno qualunque spazio per un conflitto di classe che si
rivela superfluo, oltre che impossibile in radice. La rivoluzione non va più
concepita come processo di costruzione di nuove soggettività, nuovi rapporti di
forza, un nuovo modo di produzione: essa è già, qui e ora. È, per dir
così, la “verità” di un capitalismo talmente avanzato da negare se stesso.
Il “potere delle soggettività produttrici” si è talmente sviluppato da
fare del lavoro l’espressione della loro autonomia desiderante, “il
potenziale per una sorta di comunismo spontaneo ed elementare”. “Oggi il
lavoro è immediatamente una forza sociale animata dai poteri della conoscenza,
dell’affettività, della scienza e del linguaggio”; e dunque invano “l’Impero
pretende di esser il signore di questo mondo”, ché, “in realtà, noi siamo
signori del mondo perché il nostro desiderio e il nostro lavoro
lo rigenerano continuamente” (Hardt e Negri, Empire, pp. 432 e 467).
4. Sul “radicalismo moderato”
Sortiscono da questo quadro ideologico, apparentemente
spregiudicato e “radicale”, un insieme di conseguenze politiche di segno
conservatore, a proposito delle quali si potrebbe parlare, con voluto ossimoro,
di radicalismo moderato.
Lo spontaneismo che connota la considerazione delle masse
subalterne nei termini di una “moltitudine” per natura rivoluzionaria
(dotata di una incoercibile “forza deterritorializzante”) spinge verso il
rifiuto di qualsiasi istanza di organizzazione del movimento di classe. Di qui
il feticismo della struttura reticolare del movimento, nel quale un limite
(conseguente alla dispersa molteplicità dei soggetti, delle culture, delle
strategie) è trasfigurato e riproposto come garanzia di autonomia e di
efficacia conflittuale. L’operaismo incontra così la dilagante propensione
all’anarchismo. Nel quadro della “radicale” messa sotto accusa del
Novecento - secolo del lavoro e, appunto, della organizzazione, oltre che di un
“comunismo storico” equiparato alla barbarie nazista - è rigettata
qualsiasi istanza di strutturazione delle soggettività anti-sistemiche,
ritenuta inevitabile premessa di disciplinamento. Consapevole o meno, la ripresa
dell’appello proudhoniano alla “disorganizzazione” è puntuale. Non è
difficile prevedere che, ove prevalessero, tali orientamenti finirebbero col
frustrare in breve tempo le potenzialità conflittuali, oggi ancora notevoli,
del movimento no-global.
Sul piano delle politiche economiche e, più in generale, dei
modelli sociali di riferimento, la propensione anarchica di alcune componenti
del movimento ben si concilia con la critica antimoderna (Marx direbbe
senza mezzi termini: “reazionaria”) del capitalismo e con la trasfigurazione
delle forme precapitalistiche (artigianato, piccola produzione immediata,
scambio extra-economico, equo e gratuito, ecc.). Se, sul piano culturale,
consegue a queste prospettive la introiezione di schemi ideologici decisamente
regressivi (la società premoderna in cui servitù, incesto, assenza di diritti
individuali erano la norma per la stragrande maggioranza delle persone, viene
raffigurata come l’idillio della coesione sociale e dell’armonia tra vita,
lavoro e sentimento di sé; dall’altra parte, la modernità è rigettata in
modo indiscriminato, lo sviluppo delle forze produttive sociali identificato col
dominio capitalistico, il progresso tecnico e scientifico letto come causa
immediata della furia devastatrice del capitalismo); sul piano politico
discendono dalla ripresa delle “utopie artigianesche” e neocomunitaristiche
la trasfigurazione ideologica del cosiddetto “terzo settore” (del sedicente no-profit)
e, di qui, la piena disponibilità allo smantellamento dei sistemi pubblici di welfare
e al loro lucroso subappalto agli imprenditori dello pseudo-volontariato
cattolico (Compagnia delle Opere, Acli, ecc.) e laico (cooperative sociali e
Forum del terzo settore in generale).
A sua volta, per concludere questo breve catalogo delle
conseguenze organicamente conservatrici di certo nuovo “radicalismo”, l’impronta
manifestamente privatistica di tali posizioni (la categoria di “pubblico non
statale” può ormai ingannare solo chi pervicacemente rifiuti di riconoscere i
connotati della liquidazione in atto dei sistemi pubblici di assistenza,
previdenza, sanità e istruzione: la loro evidente privatizzazione)
ispira il riduzionismo di certe parole d’ordine del movimento no-global, che
non si dichiara - come sarebbe naturale sulla scorta di un’analisi di classe
della “globalizzazione” - anticapitalista, bensì anti-liberista. Senonché,
scissa dalla critica del capitalismo in quanto tale, la lotta contro il
liberismo - indubbiamente necessaria - rischia di rifluire su posizioni,
appunto, moderate. Forse che un capitalismo protezionista, che tuteli le imprese
nazionali (o regionali, secondo l’ottica localistica della Lega nord) a suon
di dazi e misure fiscali, sarebbe la panacea di tutti i mali? José Bovet
parrebbe pensarlo e con lui, si capisce, anche molti paysans padani: c’è
da chiedersi quanti militanti no-global condividano tali posizioni e siano
consapevoli delle loro implicazioni.
5. Sul liberismo protezionista
D’altra parte, se si guardasse con più attenzione alla
costituzione materiale della cosiddetta “globalizzazione”, si vedrebbe
subito come la piattaforma anti-liberista sia inadeguata a guidare un movimento
di massa nella lotta contro lo stato delle cose presente. Il generico
riferimento al liberismo impedisce di comprendere la reale logica del governo
dei mercati per due distinti ordini di ragioni. Da un lato questa genericità
occulta il fatto che solo un mercato è effettivamente globalizzato, quello dei
capitali e dei flussi speculativi: non quello delle merci (il volume degli
scambi su scala mondiale raggiunge oggi a malapena i livelli del commercio
internazionale precedente la prima guerra mondiale) né quello della
forza-lavoro (ma ciò, benché chiaro a molti e non soltanto ai milioni di
migranti “irregolari” e “clandestini”, pare tuttavia sfuggire a chi
favoleggia della potenza “deterritorializzante” della “moltitudine”).
Dall’altro lato, l’equazione “globalizzazione”-neoliberismo induce a
perdere di vista il carattere politico delle forme di regolazione dei
mercati, della loro “determinazione”, come direbbe Gramsci.
Se si facesse più attenzione al modo in cui vengono
applicati (o violati) i trattati sul libero scambio e le norme anti-trust, si
comprenderebbe immediatamente che il liberismo funziona dove e quando premia gli
interessi dei paesi e delle economie più forti e finché avvantaggia le più
potenti corporations; e che invece, quando concorrenza e libero scambio
mettono a repentaglio gli interessi degli Stati e delle imprese più potenti,
non si esita a derogare alla legislazione anti-monopolistica (come mostrano da
ultimo i trionfi giudiziari di Bill Gates) né a ricorrere a multe e tariffe
doganali proibitive come quelle applicate dagli Stati Uniti in base all’“emendamento
Byrd” (una norma dichiaratamente protezionistica giustificata con l’esigenza
di proteggere l’industria nazionale dal dumping e dalla concorrezna
sleale). Ma tenere conto di queste apparenti contraddizioni imporrebbe di
cogliere l’elemento politico inerente agli attuali processi di sviluppo del
capitalismo (imporrebbe di riconoscere la banale ovvietà che il liberismo è
una forma di politica economica, tipica di determinate fasi del processo
di accumulazione) e ciò farebbe saltare in aria il paradigma interpretativo
della “globalizzazione” oggi maggiormente in voga.
6. “Che fare?” Centralità del conflitto capitale-lavoro e
organizzazione della lotta di massa
Il fatto che l’ideologia “critica” più diffusa nel
movimento no-global sia caratterizzata da una prospettiva economicistica non
esime tuttavia dall’obbligo di cercare di correggere tali orientamenti
mettendo nel dovuto risalto processi e conflitti che oggi, come si notava,
tendono a restare “un po’ in ombra”. Questa circostanza rende, al
contrario, quanto mai necessario spendersi affinché le analisi correnti nel
movimento guadagnino in rigore e organicità. In precedenza si è fatto
riferimento alla guerra e alla necessità di riconoscere in essa uno strumento
ancor oggi cruciale nella lotta per il dominio politico su territori e corpi
sociali oltre che per il controllo di risorse energetiche, materie prime e forze
produttive. Analoghe considerazioni debbono essere rapidamente svolte ora, in
chiusura, per quanto attiene al conflitto capitale-lavoro e al suo perdurante
ruolo di asse portante del conflitto di classe.
Contro analisi fantasiose che hanno contribuito a
disorientare tanti compagni, va ribadito che il mutare delle forme di
organizzazione del sistema capitalistico non ne modifica gli assetti
strutturali, nei quali lo sfruttamento della forza-lavoro resta principio
costitutivo e determinante. La proletarizzazione di massa rimane la chiave dell’accumulazione
e della riproduzione allargata anche in una fase caratterizzata dalla crescita
della disoccupazione (una crescita che va peraltro depurata dalla tradizionale
sottovalutazione dell’entità dell’economia sommersa e illegale). Ciò che
spesso non si coglie è che la disoccupazione è essa stessa una forma di
impiego delle forze produttive sociali e in questo senso una figura del
lavoro sociale al pari delle altre. E che anzi, in determinati passaggi
storici, la disoccupazione rappresenta l’essenza della fase meglio di altre
forme di utilizzo della forza-lavoro. Oggi è questo il caso. Insieme agli
atipici, ai lavoratori poveri, agli irregolari (in massima parte migranti), i
disoccupati contribuiscono a definire oggi il prototipo del proletario, in
quanto riflettono l’essenza di una fase del processo di accumulazione segnata
dalla tendenza a riportare il salario al minimo indispensabile alla riproduzione
fisica della forza-lavoro sociale.
Discende da qui una indicazione semplice ma irrinunciabile
per il movimento no-global e per tutta la sinistra “critica”. È
indispensabile che la caratteristica più importante del movimento - la
percezione della insostenibilità della “globalizzazione” - venga orientata
nella direzione della più concreta, intransigente ed efficace critica dello
sfruttamento della forza-lavoro sociale nelle forme del lavoro precarizzato,
nocivo e sovente mortale, ma anche nelle forme della disoccupazione e della
sotto-occupazione. A questo fine è necessario che l’intero movimento colga
una duplice unità: da un lato, la connessione organica che sussiste tra il
governo dell’attuale fase della mondializzazione nel segno di un generale
attacco ai diritti umani, sociali, civili e politici delle masse subalterne sul
piano planetario e l’offensiva padronale contro il lavoro nei paesi
capitalistici avanzati; dall’altro lato, la sostanziale unità dell’area del
lavoro subordinato (salariato classico, atipico, autonomo eterodiretto, area
della disoccupazione strutturale, ecc.) nel segno della sua dipendenza dal
comando capitalistico. Da questo punto di vista, si può dire che il movimento e
tutta la sinistra critica debbono compiere uno sforzo per rovesciare di
centottanta gradi l’ottica padronale, in base alla quale - come ben attesta l’attacco
all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori - l’unità del mondo del lavoro
dipendente è colta con grande precisione, benché, ovviamente, nel segno della
sua generale precarizzazione.
In ultima analisi, quel che si impone è un’opera di traduzione
del linguaggio genericamente anti-liberista nel più preciso linguaggio della
critica di classe del capitalismo. Perché questo compito possa essere svolto e
avere successo si richiede tuttavia una correzione di rotta rispetto a taluni
orientamenti oggi prevalenti. Ci si limiterà qui, per evidenti ragioni di
spazio, ad un’unica considerazione fondamentale.
Se la ricostruzione di un movimento di massa capace di
rilanciare il conflitto di classe è l’obiettivo strategico prioritario,
occorrerà allora guardare con la massima attenzione a quanto avviene nel mondo
del lavoro dipendente o eterodiretto, ivi comprese le masse di lavoratori
precarizzati o disoccupati. Ciò significa per un verso uscire dal politicismo,
guardarsi dallo scambiare i corpi sociali con la loro attuale ma contingente
rappresentanza politica e sindacale, e proprio per questo osservare con
la massima attenzione il travaglio dei Ds e dei sindacati confederali,
richiamati dall’esito disastroso delle ultime elezioni politiche alla dura
realtà del fallimento delle politiche concertative. Ma ciò significa anche,
per l’altro verso, promuovere una intensa attività di ricomposizione dell’intera
area sociale sottoposta allo sfruttamento capitalistico, e perciò fare in modo
ciascuno dalle proprie posizioni e sulla scorta dei propri convincimenti - che
vengano via via stringendosi stretti rapporti di collaborazione sociale e
politica tra tutti i soggetti (partiti, sindacati di base, movimenti) impegnati
sul terreno della lotta di classe.
Una parola va detta con chiarezza, a questo riguardo, sul
lavoro svolto dal sindacalismo di base nelle file del movimento no-global e
nella costruzione dell’iniziativa di massa. Come a Seattle, anche a Genova il
successo registrato, in termini di partecipazione, dalle manifestazioni del 19,
20 e 21 luglio contro il G-8 non sarebbe stato possibile se alle spalle non vi
fosse stata anche l’attività capillare svolta, nel corso di anni e in tante
realtà critiche del mondo del lavoro, sovente trascurate dal sindacato
confederale, da parte del sindacalismo di base, Rdb, Cub e Cobas in testa. Ciò
va ribadito contro l’oscuramento che di tale attività i media hanno
sistematicamente operato, allo scopo di accreditare una rappresentazione del
movimento come indistinta sommatoria di soggetti marginali, visionari o violenti
e di occultare la presenza rilevante del mondo del lavoro e delle sue
organizzazioni. Ma ciò va ribadito anche contro l’interpretazione che di
quelle giornate e, in generale, della lotta contro la mondializzazione
capitalistica forniscono talune componenti dello stesso movimento no-global,
troppo attente al cielo delle ideologie per prestare attenzione alle forze
sociali e alle soggettività organizzate che danno corpo e vigore al movimento
di classe.