Recentemente, Lehman Brothers una delle più importanti
banche d’affari del mondo, stilando la classifica delle dieci società più
“affidabili” dal punto di vista dell’investimento borsistico ha quasi
azzerato la presenza dei titoli di società della New Economy. Tra le migliori
della lista dell’anno precedente c’è stata una vera e propria ecatombe:
titoli come Nortel Networks, segnalati come eccellenti quando erano a 68 dollari
ora viaggiano sugli 8 dollari. Tellabs è passata dagli oltre 62 dollari agli
attuali 16, tanto per fare qualche esempio. I consigli di Lehman non a caso
rimangono su posizioni difensive e legate alla vecchia economia. Sulla crisi
dell’economia legata a internet e all’hi.tech Michael J. Mandel nel suo
ultimo libro “Internet Depression” (Fazi editore, collana “e-pensiero”,
pp 221, 32.000 lire) prevede che quando sia la spesa in Information Technology
sia i titoli tecnologici andranno giù contemporaneamente «questo sarà un
segnale forte che il boom della New Economy potrebbe essere vicino alla fine».
Gli esperti di NE, al contrario, continuano a ripetere che la crisi non ha
toccato le imprese più solide e che il futuro si annuncia promettente, in
particolare per la riforma della pubblica amministrazione e il passaggio delle
old company al web. Visti da un’ottica “liberal” si tratta di due segnali
contraddittorii, soprattutto per quanto riguarda il primo che invoca un preciso
coinvolgimento dello Stato.
Insomma, il “futuro promettente” è più che altro una
sorta di raschiamento del fondo del barile e comunque, guarda caso, un affidarsi
alle scelte dello Stato e della pubblica amministrazione. E il libero mercato?
Arriverà il “Welfare” delle dot.com? C’è da aspettarselo. Del resto, il
panorama della NE è davvero disastroso. E a dirlo, più di ogni altro
indicatore, è l’insistenza, quasi maniacale, degli operatori del settore “sulle
magnifiche sorti e progressive”. È un punto importante, questo, per capire i
limiti della “bolla virtuale”. La ripresa, in pratica, viene legata ad una
scommessa ed alla capacità di creare nuovi miti sociali.
Come spiega Mandel nel suo ultimo libro il punto di forza
della NE è stato, in questi anni, la spinta verso l’alto dei titoli delle
start up dettata, più che da un solido progetto industriale, dalla copiosa
affluenza dei capitali di rischio. Più forte era l’effetto annuncio della
nascita di una nuova azienda della NE, più forte l’afflusso di capitali di
rischio, più forte il balzo verso le altissime vette delle quotazioni di borsa.
Un altro “critico” delle “magnifiche sorti e progressive” è Michael
Wolff, uno dei primi “bruciati” dalle fiammate della NE che attualmente si
occupa di media per il settimanale “New York Magazine” ed ha pubblicato un
altro libro “dissacrante”, “Burn Rate”. Wolff sostiene che se Yahoo,
tanto per fare qualche esempio, venisse trattata come un’azienda tradizionale
(con multipli che rispecchiano i dati reali dell’azienda) non si troverebbe in
questa situazione. Ma proprio le valutazioni stellari che società come questa
hanno raggiunto nei mesi scorsi ne hanno causato il tracollo. Il problema è che
è stato dato troppo peso alle valutazioni del mercato, constata Wolff. «Nelle
industrie tradizionali la quotazione del titolo in Borsa non pesa tanto quanto
ha pesato per le aziende Internet», dice Wolff che dà a Yahoo una valutazione
massima di 2 miliardi di dollari contro i 9 miliardi di dollari di qualche mese
fa e contro i 150 milliardi di dollari che il mercato le dava solo un anno fa.
Un meccanismo vecchio come il mondo che, applicato alla
speculazioni e alla ricerca del profitto non ha fatto altro che aumentare la
platea del “parco buoi” e i rischi per l’intera economia diminuendo i
tempi di “realizzazione” dei profitti dei titoli, in mano a pochissimi.
Naturalmente questo passaggio turbolento e devastante dei capitali di rischio
lascerà segni fortissimi.
Ora tutti sono alla ricerca di “nuovi titoli”, di nuove
start up da sparare sul mercato e allora ecco nuove sigle come e-government,
web-far, e-learnig. Ma si tratta di piccole “nicchie” speculative che non
saranno certo in grado di rilanciare alcunché. Cosa accadrà nella seconda
metà dell’anno 2001, quando tutti gli esperti, meno Greenspan, naturalmente,
prevedono una “ripresina” americana e una buona performance di quella
europea? Non è ancora chiaro, secondo gli esperti, se l’aumento della domanda
in Europa e in Asia sarà abbastanza forte da tenere a galla l’economia Usa.
In Europa, in particolare, i segnali di una NE caratterizzata da rapida crescita
e alti investimenti sono molto più modesti di quanto si sperasse. In Europa non
c’è nemmeno un evidente boom degli investimenti. Nel 1999 la produzione di
beni capitali è cresciuta appena al ritmo del 2,1% una cifra bassissima, e non
ci sono prove concrete di un boom della spesa europea in Information Technology.
Ironia della sorte, una ripresa in Europa e Asia potrebbe in realtà innescare
una crisi finanziaria negli Stati Uniti e forse anche a livello globale. Il boom
della NE negli Stati Uniti è dipeso da un crescente flusso di denaro dall’estero
per finanziare gli investimenti e i consumi interni. Se la NE si diffonde, è
questo il parere degli esperti, e gli investitori stranieri decidono
improvvisamente che ci sono migliori opportunità in altre parti del mondo, il
conseguente spostamento dei flussi degli investimenti potrebbe arrecare un grave
danno dell’economia statunitense. Il sospetto è che assisteremo allo
spettacolo di sempre: se non interviene la tanto vituperata “mano pubblica”,
sia sotto forma di politica monetaria sia sotto forma di spesa pubblica tutta
orientata all’IT, i capitali non avranno il coraggio di fare da scudo agli
attacchi della recessione, anzi, come prevedono alcuni della “stagflazione”,
stagnazione più inflazione. Tantomeno potrà farlo la NE. Ovunque, ma
soprattutto in America, si sono ricostituite ingenti masse di capitale che
aspettano un segnale convincente per tornare in Borsa. Lo aspettano soprattutto
dalle aziende della NE. Ma non è apparso niente di simile. A luglio si
aspettava un rialzo e invece è stata calma piatta: piccole impennate verso l’alto
e grandi discese, una attaccata all’altra. Tutte inserite però in una linea
di continuità che punta inesorabilmente verso li basso. È così da un anno.
Quasi tutti gli analisti americani avvertono che il settore hi-tech e NE abbia
tempi molto lunghi prima di uscire dalla palude di questi mesi. Non sarà una
cosa tanto facile. Prima che le imprese tornino a ordinare grandi quantità di
computer nuovi e nuovi collegamenti in fibra ottica devono essere andate in
ripresa forte e sentirsi molto sicuri che la ripresa non durerà sei o sette
mesi. Devono sentire, insomma, che per l’economia mondiale è cominciato un
nuovo, lungo ciclo espansivo. Ma la situazione, oggi, non è questa. Basta un
esempio per tutti. L’economia dell’auto scenderà nelle vendite in Usa dell’8-10%
rispetto all’anno scorso.
«La diffusione delle tecnologie è un processo
inarrestabile», sottolinea invece Elserino Piol, padre nobile della net
economy, mente innovativa prima di Olivetti e poi di Omnitel, oggi decano dei
venture capitalis italiani, quelli che amano “rischiare”. Spiega Piol: «Il
problema è che troppo spesso si è fatta confusione tra Internet e le aziende
giovani. Internet non c’entra con la crisi attuale, la colpa non è della
tecnologia abilitante, che è importantissima. La crisi è dovuta al fatto che
alcune aziende che basavano il loro business sulla Rete sono state
sopravvalutate. Credere che fosse facile diventare ricchi e famosi senza sforzo
semplicemente andando in Borsa, quelli che hanno diffuso queste idee sono gli
assassini della net economy. Un altro errore è stato pensare che il mondo
tecnologico non fosse soggetto a fenomeni ciclici, come altri settori. Anche il
settore hi.tech richiede una fase di assestamento». Piol, chiaramente,
dimentica di dire che ormai le “mele marce” hanno “contaminato” tutto il
carico e che i flussi dei capitali di rischio creati dalla net economy sono
talmente pesanti da condizionare, per il solo fatto di esistere, tutti gli
ambiti dell’economia mondiale e della politica. Basterebbe, per esempio,
analizzare il ruolo avuto dai fondi pensione in Usa. Secondo gli scenari
strategici disegnati da Piol, poi, finita l’epoca del denaro facile da pompare
nel calderone della dot.com ora toccherebbe alla OE cambiare il suo volto e
renderlo più simile al modello virtuale. Questo più che una speranza sembra un
atto di fede. La OE ha già scelto, e non certo l’innovazione. Che cosa è la
globalizzazione se non il tentativo della OE di strutturare nuovi territori di
sfruttamento tenendo come punto di riferimento il fatto, elementare, che la
concorrenza si fa a partire dai costi?
Mandel, in “Internet Depression” approfondisce il ruolo
avuto nello sviluppo della NE dai capitali di rischio e giunge alla conclusione
che ciò che verrà messo alla prova nella prossima recessione sarà proprio la
«propensione ad assumere rischi». Ora l’interrogativo è il seguente: che
interesse avrebbero i capitali internazionali a “mettersi in discussione”, a
cercare nuove strade tra old e new quando è la loro stessa “massa critica”
a costituire di per sé un ostacolo insormontabile? A fianco delle NE non è
cresciuta in questi anni proprio quella eccessiva finanziarizzazione che sta
portando i capitali, e quindi l’economia internazionale, ad avvitarsi su se
stessa?
La grande fase innovativa si è conclusa e ulteriori spinte
non arriveranno certo dalla OE. E poi spazi veri e propri per ulteriori “scoperte”
non ce ne sono più. Certo, a meno di intervenire pesantemente e rapidamente
sulle organizzazioni sociali. Da buon cantore delle “magnifiche sorti e
progressive” Mandel si guarda bene dal prendere in considerazione questi
interrogativi. Preferisce rifugiarsi nella possibilità di nuovi sviluppi dell’economia,
di nuove start-up, questa volta nel genoma umano e nei viaggi spaziali. Tutte
pilotate da una “saggia” politica monetaria, quella centralizzatrice della
Fed, naturalmente, che dovrebbe continuare a tener bassi i tassi anche quando ci
sarebbe bisogno del contrario. È realistica una cura del genere? I capitali a
zonzo per il mondo gradirebbero? E l’inflazione?
Il meccanismo è sempre lo stesso, lo ripetiamo, vendere l’illusione
per tentare di far riprendere l’economia. La differenza rispetto all’ultima
fase del capitalismo è che questa volta a “rischiare” devono essere anche
la gran massa dei lavoratori, mettendoci dentro diritti e tutele, mentre
precedentemente era il capitale stesso, per definizione, l’entità di rischio.
Anzi, era questa capacità che gli attribuiva la prerogativa di considerarsi “capitale”
e quindi presentarsi sul mercato rastrellando forza lavoro. Che cosa è che ha
rivoluzionato questi ruoli?
Mandel mette in evidenza come il mercato azionario di fronte
alla NE non è più soltanto un semplice spettatore innocente. «Al contrario,
con l’aumento del capitale di rischio il mercato è diventato il punto di
collegamento critico tra la crescita economica e l’innovazione. I corsi
azionari in ascesa non sono solo il riflesso di una crescita economica più
rapida, bensì una componente essenziale del sistema della NE di finanziare l’innovazione
e il cambiamento tecnologico». Dopo l’ultima crisi di dot.com e start up, e
delle aziende legate a queste, il meccanismo si è inceppato. Le aziende della
OE non innovano e ciò blocca la NE. «L’essenza della NE - scrive ancora
Mandel - è l’allargamento dei mercati azionari a investimenti più rischiosi.
Un numero crescente di persone ha investito denaro in titoli tecnologici a
elevata volatilità. Molte di queste società hanno appena qualche anno di vita
e non hanno mai esibito alcun utile - la definizione stessa di rischio. E non c’è
nemmeno la garanzia che diano qualche utile in futuro». Il mercato azionario
cresce vertiginosamente, alimentando il capitale di rischio per nuove aziende e
un processo d’innovazione più veloce. «Si crea così un processo che si
autoalimenta». «Ma questa forza è anche la debolezza della NE. Quando alla
fine il circolo virtuoso s’invertirà, tutti i fattori che sostenevano l’economia
volgeranno nell’altra direzione. Il tasso di innovazione tecnologica, il
livello di produttività e il livello di investimento aziendale diminuiranno
tutti. L’inflazione accelererà e il mercato azionario si guasterà». È
esattamente quello che è accaduto tra il 2000 e il 2001. Una caduta del mercato
influenza direttamente la quantità di capitale di rischio disponibile per le
nuove start-up, riducendo dunque il tasso di innovazione tecnologica e di
aumento della produttività. Questo, a sua volta, si ripercuote sul mercato
azionario, che va giù quando la produttività e gli utili crescono lentamente e
l’inflazione aumenta. «Nella NE - scrive ancora Mandel - il mercato azionario
è sincronizzato con le oscillazioni del ciclo tecnologico, creando perciò la
possibilità di contrazioni molto più intense che in passato». C’è poi un
ulteriore fattore aggiuntivo che aggrava la fase discendente del ciclo
tecnologico. A quanto pare, la natura stessa delle industrie high.tech le rende
molto più soggette ai cicli di espansione e contrazione. «I loro ingenti
investimenti - continua Mandel - in R&D (Ricerca e Sviluppo, ndr) e in nuovo
capitale immobilizzato sono una manna dal cielo quando l’economia va forte, ma
quando la crescita rallenta hanno un mucchio di spese che non possono tagliare
senza compromettere il futuro»: I massicci investimenti delle aziende high-tech
sono tutti giustificati sulla base della crescita presunta dell’economia e dei
mercati. Queste imprese stanno facendo enormi scommesse sul futuro. «Se la
crescita rallenterà per un periodo prolungato, risulterà che hanno investito
troppo e troppo velocemente, e dovranno cominciare a tagliare le spese in
R&D e gli investimenti di capitale. E un grandissimo numero di lavoratori
del settore tecnologico si ritroverà sulla strada». Un altro elemento che
chiarisce i limiti della NE è la legge dei rendimenti crescenti. In un ambiente
a crescita rapida ha senso sostenere alti costi e aspettarsi di recuperarli
quando i mercati esistenti cresceranno e se ne apriranno di nuovi. Nella OE i
rendimenti erano prevalentemente decrescenti. Nella NE, invece, quando la
crescita rallenta o s’inverte, le imprese hanno ancora enormi costi fissi,
senza molte entrate con cui coprirli. Una recessione rende molto rapidamente
meno efficienti e redditizie le aziende con rendimenti crescenti di scala». Non
hanno l’opzione di tagliare gli ordini di materie prime, perché ne hanno
relativamente poche, né di sospendere dal lavoro gli addetti alla produzione,
per lo stesso motivo. L’unica possibilità è ipotecare il futuro rallentando
lo sviluppo dei nuovi prodotti». Come scrive Mary Finn, i rendimenti crescenti
di scala «amplificano la risposta dell’economia ai disturbi provenienti da
ogni fonte». In parole povere, questo significa che si possono avere grandi
oscillazioni nell’economia a partire da disturbi piccolissimi. Il tutto in un
contesto in cui i mercati finanziari ampliano le frontiere del rischio, dal
venture capital alle azioni ipotecarie, il legame tra i lavoratori e le aziende
diventa sempre più disorganico e lo stipendio sempre più precario anche per i
dipendenti a tempo pieno e la globalizzazione ha creato la possibilità di crisi
finanziarie che sono fuori della portata dei regolatori nazionali. Mandel
inserisce la crisi della NE nella categoria della “Palm Pilot recession”.
Una crisi che farà sentire il suo impatto più devastante proprio sui
lavoratori istruiti, ben pagati, capaci di usare i computer, che si credevano
immuni agli altri e bassi dell’economia. Particolarmente colpita sarà la
forza lavoro mobile dei lavoratori temporanei, i consulenti indipendenti i
freelance, i programmatori e i Web designer “in affitto”, che durante il
boom della NE hanno prosperato. «Queste persone, che hanno giocato un ruolo
essenziale durante i tempi buoni, scopriranno che le aziende hanno molto meno
bisogno di loro quando la crescita, l’innovazione e l’assunzione di rischio
rallenteranno».
Quali rimedi? Il ruolo del controllo monetario e dell’innovazione
nella OE sono ancora strumenti importanti. Mandel dedica al primo un intero
capitolo del suo libro. «I policymaker - scrive Mandel - devono essere
consapevoli che è possibile che il rallentamento della produttività e l’aumento
dell’inflazione riflettano una difficoltà dei mercati del capitale di rischio
e non un eccesso della domanda sull’offerta. Alzare i tassi d’interesse,
proprio come alzare il muso di un aereo in stallo, avrà l’effetto di ridurre
ulteriormente il flusso dei finanziamenti per le nuove attività innovative,
peggiorando di molto una situazione già difficile. I riflessi necessari per far
volare la NE potrebbero essere molto diversi da quelli richiesti per guidare la
OE». Il punto, ormai è chiaro, è che OE e NE sono strettamente intrecciate e
quindi non è pensabile utilizzare uno strumento indirizzato esclusivamente
verso una delle due senza prevedere effetti contrari nell’altro campo. È
questa la contraddizione principale in questo momento. A sopportarla dovranno
essere, guarda caso, i lavoratori e i cittadini. Saranno “strumenti”,
quindi, che non solo attaccheranno i diritti consolidati, la vicenda delle stock
options (i salari di carta bruciati dai tonfi di borsa dei titoli delle
start-up) della NE in Usa lo dimostra ampiamente, ma porteranno una ulteriore
aggressione, semmai ce ne fosse stato bisogno dopo il martirio monetarista degli
anni ’80 e ’90, al Welfare e alla spesa sociale. La spesa pubblica, infatti,
dovrà essere massicciamente e prevalentemente orientata verso il cosiddetto “Welfare
delle dot.com” perché dovrà trainarne la ripresa. Senza parlare, poi, del
fatto che una politica “ribassista” dei tassi potrebbe riaccendere l’inflazione
e, conseguentemente, i vari governi metterebbero mano alla leva della
disoccupazione per tentare di raffreddarla.