1. Premessa
Mi pare che, per comprendere a fondo il significato della
Riforma universitaria avviata dal governo di centro-sinistra e di fatto
accettata, forse con qualche cambiamento, anche dal governo Berlusconi, si debba
tenere conto del fatto che l’autonomia concessa alle istituzioni universitarie
è solamente finanziaria, e sicuramente non ideologico-culturale, e tantomeno
politica. D’altra parte, non mi pare ci sia tanto da meravigliarsi, dal
momento che viviamo in una fase in cui gli uomini politici in genere
sottolineano la necessità di mettere in piedi governi stabili (cioè non messi
a rischio dal malcontento popolare), e, su questa base, elogiano i sistemi di
voto maggioritari, che di fatto mettono il potere nelle mani di pochi ed
impediscono a molti settori sociali di avere dei rappresentanti istituzionali.
Mi sia concesso di aprire una breve parentesi su questi nuovi
sistemi politici ed elettorali, affermatisi negli ultimi anni, e ricordare che
sono stati definiti dallo studioso americano Robert Dahl (1990) una forma di
poliarchia, nella quale cioè governa un piccolo gruppo e la partecipazione
delle masse consiste unicamente nello scegliere i dirigenti, nell’ambito di
elezioni manipolate dagli schieramenti in lotta. In tale contesto, solo pochi
sono investiti dell’autorità di prendere decisioni di grande rilevanza
economica e sociale per tutti i membri di una comunità.
Sulla svolta verticistica della politica universitaria non
dico nulla di nuovo, giacché Alessandro Monti (Università di Camerino) fa
notare che (2001: 28-29) «è ora il Ministro che definisce sia i criteri
generali che esso stesso deve osservare nella definizione delle tipologie
nazionali dei corsi, sia i criteri specifici che le università debbono
rispettare per la messa a punto dei piani di studio... Sono così abrogate le
regole previste dalla legge 341 del 1990, che il Governo Andreotti-Ruberti aveva
promosso per l’aggiornamento dei tipologie dei corsi esistenti e l’istituzione
di nuovi corsi (parere tecnico vincolante del Consiglio universitario nazionale
al Ministro, avviso preventivo dei rappresentati degli ordini e dei collegi
professionali, valutazione delle prospettive occupazionali) e sostituite con
regolamenti emanati in via amministrativa».
Monti sostiene anche le classi delle lauree, stabilite dal
Ministro, «prevedono vincoli e condizionamenti all’autonomia decisionale
degli atenei, prefissando obiettivi formativi, ambiti disciplinari, quantità e
tipologia delle attività didattiche, crediti formativi» (ibidem).
Insomma, mi pare si possa dire che il Ministero ha stabilito
i contenuti, le forme della didattica e gli obiettivi di quest’ultima, in
evidente contrasto con la libertà di insegnamento prevista dalla nostra
Costituzione.
Non è un caso, pertanto, che l’Associazione italiana dei
costituzionalisti ha mosso una serie di critiche alla politica universitaria di
questi ultimi anni. In primo luogo, essi rilevano in un documento del febbraio
2000 che: «...l’autonomia universitaria deve, secondo quanto dispone l’art.
33 della Costituzione svolgersi nell’ambito delle leggi della Repubblica (e
non di semplici regolamenti ministeriali) sì da offrire agli utenti-studenti e
alla società intera un servizio in termini di formazione culturale e
professionale qualitativamente omogeneo».
Quanto alla valutazione i costituzionalisti scrivono: «...i
criteri e i parametri per la valutazione sarebbero, anziché fissati dal
legislatore, demandati ad un organismo, il Comitato nazionale per la valutazione
del sistema universitario, la cui nomina e composizione non offrono sufficienti
garanzie relativamente alla formazione dei criteri per apprezzare la qualità
dell’impegno scientifico e didattico dei docenti universitari. Né appare
conveniente che la valutazione dell’attività scientifica e di quella
didattica di ogni singolo docente sia effettuata in forma centralizzata dai
Nuclei di Ateneo...»:
La veridicità della tesi qui sostenuta (la Riforma ribadisce
l’autonomia finanziaria e non culturale degli atenei) potrà esser meglio
dimostrata se ci soffermiamo ad analizzare i procedimenti di valutazione, che
saranno applicati al funzionamento ed allo sviluppo dell’organizzazione
universitaria. Ovviamente l’impostazione verticistica non si riscontra solo
nella valutazione, essa è presente in tutto l’impianto della riforma, che
sottomette la ricerca scientifica e l’attività didattica alle esigenze di
commitenti esterni e/o al ministero, che li rappresenta.
Si tenga presente inoltre che, proprio in questi giorni, il
ministro della Pubblica Istruzione (che ora accorpa università, scuola e
ricerca) Moratti ha reso note, attraverso la stampa, le sue idee sulla
valutazione anche nella scuola. Il Sole-24ore del 13 luglio 2001 scrive (pag.
6), infatti: «Oggi al ministero della Pubblica Istruzione si riunisce una
commissione di 14 persone - esperti della scuola e del mondo aziendale - che
dovrà mettere a punto un nuovo modello di Istituto di valutazione in grado di
misurare i risultati delle strutture scolastiche pubbliche e private».
Nelle intenzioni del Ministro (in realtà è questa una
scelta politica già fatta in altri paesi europei) la valutazione dovrà essere
affidata ad un agenzia di carattere privatistico, indipendente
dall’amministrazione scolastica e strettamente legata alle imprese. La
valutazione degli insegnanti determinerà, inoltre, il loro trattamento
economico, che sarà stabilito in base alle specifiche manioni svolte ed alle
competenze acquiste, accantonando il fattore anzianità. Come sempre avviene in
questi casi, tali procedure di valutazione, connesse al trattamento economico,
si tradurranno in forme di pressione su coloro che saranno valutati da parte dei
valutatori. E ciò naturalmente non favorirà l’instaurazione di un clima di
collaborazione nelle nostre scuole.
2. La valutazione
Molti aspetti della riforma universitaria sono stati
analizzati e sono stati oggetto di dibattito. Un aspetto - mi - pare è stato
trascurato ed è quello delle procedure di valutazione, che già sono operative
e che mirano alla valutazione dell’attività didattica, di ricerca e di
gestione della struttura universitaria, con lo scopo di stabilire l’entità
delle risorse da distribuire alle varie università.
L’aver trascurato questo aspetto è cosa grave, proprio
perché i sostenitori della riforma lo considerano un elemento fondamentale,
senza il quale la stessa riforma non potrebbe essere messa in pratica, dato che
valutazione e autonomia sono legate da una relazione di complementarità e
debbono essere realizzate contestualmente (Guerzoni, 1997: 3-4).
Per scrivere questo articolo, ho utilizzato pubblicazioni
ufficiali, da cui ho ripreso anche certe espressioni, le quali esprimono molto
bene l’ideologia che sta alla base della nuova concezione dell’università,
le cui attività (didattica e ricerca) dovranno essere orientate al
raggiungimento di fini ad essa esterni. Ad esempio, come si vedrà, alcuni
esperti di queste procedure parlano di laureato come «prodotto finito», dando
così l’idea - non del tutto errata - che nel nostro mondo tutto è ridotto a
cosa, o meglio a merce.
Come cercherò di mostrare, ritengo che il nuovo sistema di
valutazione è anche uno strumento fondamentale per far accettare ai docenti la
riforma universitaria, per far cambiare loro la stessa concezione della ricerca
e della didattica, sulla base del criterio dell’inclusione o esclusione dall’accesso
alle risorse disponibili per l’università. A mio parere questa ulteriore
innovazione nella vita universitaria è sostanzialmente antidemocratica, perché
prevede che il funzionamento dell’università non sia valutato nell’insieme
da coloro, che studiano e lavorano in essa; dicono alcuni, ciò sarebbe
autoreferenziale, e pertanto negativo. E proprio per evitare questa
autoreferenzialità sono stati creati organismi (i cui caratteri descriverò
brevemente), che funzionano come “istituzioni sorveglianti” rispetto ad “istituzioni
sorvegliate”.
Come si vede l’idea di istituzioni sorveglianti è in
contrapposizione con la stessa nozione di autonomia prevista dalla riforma.
Inoltre, non è prevista la risposta alla vecchia domanda: chi sorveglierà i
sorveglianti? Inoltre, dato che ad un certo punto la scala gerarchica dovrà
pure terminare, a meno di far direttamente riferimento a Dio, anche i
sorveglianti dovranno essere necessariamente aureferenziali.
Come ho già detto, le norme sulla valutazione universitaria
distruggono la già scarsa democraticità della vita universitaria, la quale
proprio perché strumento fondamentale per la riproduzione della classe
dirigente, ha sempre conosciuto forme fortemente selettive e di cooptazione del
personale universitario, in molti casi destinato a rivestire importanti ruoli
politici (si pensi a Prodi ed Amato, si pensi al fatto che circa il 10% dei
parlamentari sono professori universitari). Non posso fare a meno di
sottolineare che l’università è caratterizzata dalla limitazione del diritto
di voto. Infatti, nei diversi organismi universitari le decisioni sono prese
sulla base del voto secondo il ruolo di appartenenza: i professori ordinari
hanno il diritto di votare su ogni questione, gli associati possono esprimersi
su una gamma meno vasta di problemi ed i ricercatori, in alcune università, non
possono nemmeno eleggere il preside e il rettore.
In un incontro col Presidente della Conferenza dei rettori,
avvenuto il 3 luglio 2001, la stessa Moratti ha criticato il sistema concorsuale
italiano, affermando che non ha eliminato due mali cronici: «... lo ius loci
che fa preferire troppo spesso i candidati locali, una certa faciloneria nel
concedere idoneità, la stesura di reti di accordi tra professori delle
stesse materie in sedi diverse». Mi pare che non ci sia bisogno di nessun
commento (il corsivo è mio).
3. Scienza e profitto
Riguardo al tema, che assume oggi una grande rilevanza nel
contesto della cosiddetta riforma universitaria, ossia la relazione tra scienza
e profitto, mi pare che i meccanismi di valutazione, così come si stanno
configurando, hanno lo scopo di controllare sempre più l’impiego delle
risorse e di indirizzarle ad una ricerca applicata o finalizzata alla produzione
industriale, ad un’attività didattica in grado di fornire come “prodotto
finito” un laureato efficiente e produttivo.
In primo luogo comincerò col dire che sin dal 1996 è stato
istituito l’Osservatorio per la valutazione del sistema universitario, che è
stato affiancato da Nuclei di valutazione negli atenei, anche se non tutte le
università hanno proceduto in questo senso.
Nell’istituzione dei Nuclei di valutazione gli atenei hanno
tenuto conto dell’indicazione della CRUI (Conferenza dei Rettori), secondo la
quale dovrebbe trattarsi di «organismi meramente tecnici e non di
rappresentanza politica». Proprio per questa ragione i loro membri debbono
essere nominati (dal rettore o dal consiglio di amministrazione a seconda degli
statuti), e non eletti dalle diverse componenti universitarie. I membri del
nucleo di valutazione possono essere interni o esterni rispetto ad una certa
università; di fatto, i nuclei di valutazione esistenti sono costituiti dai
professori ordinari che valutano la loro università o che vanno a valutare le
università altrui (Rizzi, 1997: 28-29).
Sull’attività dell’Osservatorio nazionale, anch’esso
nominato e non eletto, e sottoposto direttamente al ministro, - come si è visto
esprimono riserve persino i costituzionalisti, i quali rilevano che i criteri
valutativi da esso adottati (e non stabiliti dal legislatore) e la sua stessa
composizione non garantiscono una corretta valutazione dell’attività di
ricerca e di insegnamento.
Come si vede viene messa persino in discussione la democrazia
rappresentativa: oggi non è più sufficiente pilotare dall’alto gli esiti
elettorali, si ha addirittura la forza di imporre in maniera diretta ed
esplicita coloro che dovranno controllare il meccanismo della macchina
universitaria.
Queste osservazioni - mi pare - mettono in evidenza come la
riforma universitaria, fondata sulla cosiddetta autonomia, nasconda in realtà
il tentativo di subordinare gli atenei a forme di controllo ad essi esterne, e
che sostanzialmente fanno capo al ministero e quindi alla linea politica del
governo. È evidente che tutto ciò lascerà poco spazio a linee di ricerca o di
attività didattica “dissenzienti”, o poco produttive sulla base dell’ottica
aziendalistica ormai dominante.
4. I criteri della valutazione
Ma vediamo quali sono i criteri della valutazione, che ci
vengono ampiamente illustrati da una serie di numeri della rivista “Università
Ricerca” pubblicata dal MURST.
Cercherò di essere breve per evitare di annoiare il lettore
con una serie dati tecnici, limitandomi a dare alcune informazioni che ci
permettono di cogliere lo spirito della nuova valutazione.
In primo luogo nell’opinione degli esperti del ministero il
processo di valutazione deve essere tradotto in termini quantitativi, in modo da
poter attribuire all’attività didattica e ricerca un punteggio e creare così
graduatorie (o meglio liste di controllo, come viene detto esplicitamente).
Faccio un esempio per farmi capire. La valutazione della
ricerca di un professore può essere fatta sulla base di tecniche “bibliometriche”,
quali l’individuazione del numero delle sue pubblicazioni, il numero delle
volte che il suo lavoro viene citato da riviste di rilevanza internazionale.
Tutto ciò concorrerà a stabilire in termini quantitativi il cosiddetto fattore
di impatto di una certa ricerca, ed anche in questo caso renderà possibile la
compilazione di graduatorie.
Come si vede, uno dei perni fondamentali del sistema di
valutazione è dato dalla convinzione di poter trasformare la qualità in
quantità, di poter ridurre a un numero il valore di una ricerca scientifica, la
scoperta di una nuova impostazione in un certo ambito di studi, l’individuazione
di elementi finora trascurati in un determinato settore.
Questa convinzione non è certo nuova e si fonda sul
tentativo di dare un velo di oggettività a valutazioni, che ne sono del tutto
prive, dal momento che sono formulate sulla base di certe esigenze di politica
economico-sociale. Queste ultime sono l’espressione dell’attuale fase
storica e il loro rispetto favorirà una minoranza a discapito di una
maggioranza, che comincia però a dar segni di disagio e di malessere. In
definitiva, non vi è niente di più soggettivo di tale sistema di valutazione,
non vi è niente di più improbabile dell’operazione con cui si tenta di
trasformare la qualità in quantità, anche perché l’obiettivo è reso
trasparente dalle stesse parole utilizzate dagli esperti: creare liste di
controllo.
Inoltre, si finge di non sapere che, almeno in certi ambiti,
la pubblicazione di un articolo o di un libro non sono sempre legati al loro
valore scientifico, ma all’esistenza di legami di vario tipo tra l’autore e
l’eventuale editore.
Un altro modo di valutare la ricerca è individuato nell’analisi
del rapporto costi-benefici e costi-efficacia. Tale rapporto ci consentirà di
scegliere tra i diversi percorsi di ricerca, per individuare quello che con
costi minori sarà più efficace nel favorire lo sviluppo sociale ed economico e
produrrà, pertanto maggiori benefici.
Un esperto così si esprime su questo tema: « L’attenzione
per queste tecniche discende dall’opportunità, che esse paiono fornire, dell’utilizzo
di uno strumento di analisi comparativa oggettiva attraverso indicatori
sintetici tra le diverse opzioni possibili, a fronte di interventi da
realizzarsi con una quantità limitata di risorse pubbliche» (Silvani, 1998:
12).
In questa prospettiva valutativa sembra evidente ad alcuni
che la differenza tra ricerca di base e ricerca applicata tenderà a scomparire,
o meglio sembra chiaro che saranno preferite quelle ricerche in cui tale scarto
può essere facilmente superato. Infatti, come scrive la rivista della CGIL
Università, in certi settori disciplinari, come nelle biotecnologie, la
distanza fra un risultato scientifico di base e le sue applicazioni industriali
può essere brevissima. Sempre per la rivista della CGIL è tempo ormai di
capire il vero senso dell’economia basata sulla conoscenza (come hanno fatto
Usa, Giappone, Germania, Finlandia etc.) e riconoscere in ogni scoperta
scientifica gli elementi che possono trasformarla, direttamente o
indirettamente, in prodotti o servizi nuovi e remunerativi (Biorci, 2000: 10).
In questo senso lo stesso il documento sul Programma nazionale di ricerca,
elaborato dagli esperti del governo, viene giudicato arretrato dall’autore su
menzionato. Quest’ultimo ricorda il documento presentato dal commissario
europeo Busquin (Towards a European Research Area), nel quale si tace
sulla distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata e si individua un’unica
motivazione della ricerca. Tale ragione sarebbe quella di «... essere
funzionale allo sviluppo e al benessere della società, in tutti i suoi aspetti,
dalla salute dei cittadini ai trasporti di persone e merci, dalle comunicazioni
alla tutela dell’ambiente» (ibidem).
Lo stesso autore osserva che il mondo industriale italiano
sembra poco propenso ad investire nella ricerca come invece sarebbe auspicabile
e come prevede il documento Linee Guida del Programma Nazionale di Ricerca.
Quest’ultimo ipotizza un aumento degli investimenti privati nella ricerca e
nell’innovazione, il quale dovrebbe in sei anni colmare il divario tra i primi
e gli investimenti pubblici. Ciò darebbe naturalmente un grande slancio allo
sviluppo della tecnologia italiana (ibidem).
5. Presupposti
Cosa possiamo ricavare da questo quadro sintetico? In primo
luogo mi pare si possa dire che viene istituito un sistema puramente formale di
valutazione, apparentemente neutrale ed obiettivo, ma che dà per scontati e,
quindi, considera indiscutibili una serie di presupposti.
Primo presupposto: la ricerca deve essere funzionale allo
sviluppo ed al benessere della società, in tutti i suoi aspetti, senza
specificare che implicitamente ci si sta riferendo all’attuale configurazione
sociale. E ciò perché si dà per scontato che il ricercatore non si faccia
abbagliare dall’idea di altre ipotesi sociali, e che le scelga come
presupposti della sua attività di ricerca. Egli piuttosto si deve far guidare
dai decision maker politici e sindacali, i quali sanno elaborare meglio
di lui la politica della ricerca scientifica o individuare i suoi obiettivi
politici ed economici. Non a caso dunque gli organismi di valutazione son detti
essere di natura tecnica e non politica. In realtà, essi sono di natura
celatamente politica (nella misura in cui non mettono in discussione una
determinata configurazione socio-economica), e dichiaratamente tecnica.
Secondo presupposto: il rifiuto di quelle ricerche volte
all’ampliamento delle conoscenze, in cui generalmente si collocano, ma non
solo, le ricerche umanistiche (con l’esclusione della cosiddetta ingegneria
sociale), perché si tratta di definizione assai vaga, la quale secondo Silvani
non chiarisce in maniera precisa all’obiettivo da raggiungere, e non permette
il controllo del processo realizzativo. Pertanto egli la considera rischiosa
(Silvani, 1998: 7). Per queste ragioni, inoltre, non sottoponibile alle
strategie valutative approntate dal ministero, che hanno bisogno di dati precisi
e misurabili, sempre nel tentativo di trasformare la qualità in quantità.
L’attacco contro la ricerca destinata all’ampliamento
delle conoscenze è un attacco alla dimensione teoretica della ricerca, che
ovviamente non riguarda solo le discipline umanistiche, ma anche le cosiddette
scienze dure.
Dietro questo attacco c’è tutta una concezione dell’attività
scientifica, la quale viene subordinata al raggiungimento di meri obiettivi
tecnici e pratici. Contro questa concezione si debbono schierare coloro che
intendono, ancora oggi e contro le mode diffuse, l’attività teoretica come la
massima espressione delle potenzialità umane e la coltivano per lo sviluppo e l’arricchimento
di queste ultime; per questa ragione non ritengono che essa debba esser messa
direttamente in relazione con la realizzazione di obiettivi pratici. D’altra
parte, coloro che sottolineano la necessità di stabilire un rapporto tra
università e società, tra università e mondo del lavoro (o meglio impresa),
finiscono in realtà col vincolare l’attività di ricerca e didattica agli
obiettivi, che caratterizzano questa forma di vita sociale, con la sua specifica
struttura sociale. Ovviamente anche i difensori della dimensione teoretica della
ricerca non ritengono che essa debba astrarsi dalla vita sociale, ma
sottolineano che questo legame può anche tradursi in riflessione critica sulla
società attuale, o sulla rappresentazione che di essa viene diffusa dai mass
media. Proprio per non perdere questo aspetto critico della ricerca è
necessario che sia mantenuto un certo distacco non solo materiale, che si
concreta nel finanziamento pubblico ad istituzioni pubbliche, ma anche morale e
ideologico dalla forma sociale nella quale il ricercatore si trova ad operare.
6. Valutazione della produttività degli atenei
Vorrei ora descrivere brevemente i criteri individuati dal
MURST per valutare l’efficacia didattica degli atenei. Come sapete la riforma
universitaria parte da un presupposto indimostrato: lo scarso numero dei
laureati rispetto agli immatricolati sarebbe determinato dal funzionamento dell’organizzazione
universitaria. Secondo la già citata rivista del Murst (Allegato A.2.1) il
tasso di successo medio su tutte le facoltà italiane sarebbe del 38%, ossia su
circa un milione e mezzo di iscritti alle università italiane circa 825.0000 /
975.000 studenti raggiungeranno la laurea. Dicevo presupposto indimostrato, non
per scaricare i docenti universitari della responsabilità dello scarso numero
di laureati, ma perché tale ragionamento non tiene conto di una serie di
fattori assai importanti, primo tra tutti la carenza di sbocchi lavorativi per
gli stessi laureati, soprattutto in certi settori. Carenza che certo non spinge
i giovani a raggiungere rapidamente il traguardo della laurea, a addirittura a
conseguirlo. Secondo un’indagine condotta sulla condizione occupazionale dei
laureati del 1997 e del 1998 sembra, tuttavia, che vi sia un miglioramento, dal
momento che 56 laureati su cento, ad un anno dalla laurea, al momento della
ricerca, avevano trovato lavoro. Si chiarisce che nell’indagine non si
considera occupato colui che svolge attività di qualificazione (tirocinio,
dottorato etc.), ma non si specifica nemmeno se l’occupazione, cui ci si
riferisce, è stabile o no. Si aggiunge anche che la situazione occupazionale è
diversa a seconda del tipo di lauree conseguite (Cammelli, 2000: 22).
Oltre al tasso di successo degli atenei il ministero
suggerisce di tener conto di un altro indicatore quantitativo: lo studente
equivalente a tempo pieno. Questi è colui che sostiene gli esami previsti ogni
anno accademico ed arriva a conseguire il titolo. Tenendo conto di questo
indicatore si può stabilire che il carico didattico delle varie università
equivale al carico dovuto ad una popolazione studentesca teorica, che fruisse
appieno e nei tempi previsti del servizio formativo. Gli studenti teorici
corrisponderebbero a circa il 40% degli studenti immatricolati. Se - come pare -
sta avvenendo è questo il dato su cui si baserà il ministero per la
distribuzione delle risorse agli atenei, è chiaro che lo studente, che non
rientra in questi parametri, rappresenta una spesa inutile e superflua, anche se
col pagamento delle tasse contribuisce al funzionamento dell’università per i
cosiddetti studenti effettivi.
Questa scelta porterà ad un ridimensionamento delle
università, dovuta anche alla diminuizione delle iscrizioni, registrata in
questi ultimi anni, e la prima conseguenza diretta di ciò sarà l’esclusione
dei giovani dalla carriera universitaria, trasformando sempre più la struttura
universitaria in una sorta di gerontocrazia.
7. Una nuova ideologia per la nuova università
Un ultimo punto prima di concludere. La mancanza di forti
spinte ideali, che caratterizza la nuova università orientata alla ricerca ed
alla didattica finalizzate alla produttività economica, è sottolineata dagli
stessi sostenitori della riforma. Proprio per questa ragione questi ultimi
ritengono opportuno individuare un altro collante, che tenga insieme tutti
coloro che lavorano nell’università, e che li faccia sentire parte di una
comunità di interessi e di ideali. Questo collante dovrebbe essere costituito
da ciò che la rivista della CGIL chiama «l’identificazione delle persone con
la propria organizzazione del lavoro» (Croci, 1998: 32), la quale - mi pare di
ricavare - consisterà nell’accettazione acritica della modalità di
funzionamento dell’istituzione, dei suoi obiettivi e finalità, della sua
stessa strutturazione certamente non democratica. Tale accettazione è
sollecitata dai riformatori sulla base della natura contraddittoriamente
definita dai non ideologica della “macchina universitaria”, la quale - se le
procedure di valutazione qui analizzate funzioneranno - sarà efficace ed
affidabile nel raggiungimento di obiettivi, che altri hanno individuato per
essa. In questo senso, per il fatto che l’università sembrerebbe vivere in
una sorta di «anarchia organizzata», pare opportuno all’estensore dell’articolo
citato «... imporre immediatamente alcuni valori...» e una nuova cultura, la
quale opererà come elemento di «...integrazione, di stabilizzazione e
identità profondamente interiorizzato dai propri componenti». Facendo
riferimento a 1984 di Orwell, la stessa rivista della CGIL riconosce che
questa nuova cultura dell’università potrebbe far pensare ad una forma di
totalitarismo. (Croci, 1998: 32). Credo abbia ragione.
Bibliografia
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valutazione della ricerca, “Università Ricerca”, IX, 1998 (3).
NOTE
1 Docente Università “La Sapienza”, Roma.