Il problema inesistente: la trasformazione dei valori in prezzi in parole semplici
Guglielmo Carchedi
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E’ da quando uscì postumo il terzo volume del Capitale di
Carlo Marx che economisti di varie scuole hanno scoperto e riscoperto una ‘contraddizione’
nell’economia marxista che ne invaliderebbe le fondamenta. Si tratta del
cosiddetto problema della trasformazione dei valori in prezzi. Lo scopo di
questa breve nota è duplice. Primo, fare uno schema dell’essenza del
cosiddetto problema per i ‘non-addetti ai lavori’, vale a dire in termini
comprensibili a tutti. Secondo, dimostrare che il problema, se c’è, è solo
nelle menti confuse dei critici di Marx. Premetto che quanto segue è solo ciò
che è strettamente necessario per capire il dibattito sulla
trasformazione.
Che cos’è dunque la trasformazione? Nella teoria di Marx,
il valore di una merce è dato dal valore dei mezzi di produzione, chiamati
capitale costante, dal valore della forza lavoro, chiamato capitale variabile, e
dal plusvalore creato dai lavoratori. Se V è il valore della merce, c
quello del capitale costante, v quello del capitale variabile e s
è plusvalore, il valore di una merce è V = c+v+s. Consideriamo adesso due
settori rappresentati dalle merci che essi producono, e chiamiamoli V1 e V2.
Ciascuno di essi ha bisogno del suo c e del suo v e produce il suo
s.
In tal caso
V1 = c1+v1+s1
V2 = c2+v2+s2.
Diamo adesso dei valori a questa notazione astratta. Per
esempio, se i valori del capitale investito sono espressi in percentuali
(cosicché il totale del capitale costante più quello variabile è uguale a
100)
Settore 1: V1 = 80+20+20 = 120
Settore 2: V2 = 60+40+40 = 140
In questo schema, il settore 1 impiega capitale costante per
un valore di 80 e capitale variabile per un valore di 20. Si presuppone che il
plusvalore prodotto sia uguale al valore della forza lavoro (il capitale
variabile). Questo implica un tasso di plusvalore (il rapporto tra plusvalore e
capitale variabile) uguale a 20/20 = 100%. La stessa ipotesi è fatta per il
plusvalore prodotto nel settore 2 in cui il valore del capitale costante è 60 e
quello del capitale variabile è 40. Quindi il plusvalore prodotto è di 40.
Fino a qui abbiamo supposto che in ciascuno dei due settori
vi sia solo un produttore. Supponiamo adesso che in ciascuno di questi settori
vi siano più produttori (tutti i produttori nello stesso settore impiegano la
stessa percentuale di c e v e in entrambi i settori il tasso di
plusvalore è del 100%). Introduciamo la nozione di tasso di profitto. Quando un’impresa
vende i suoi prodotti, ricava un certo plusvalore che, diviso per la somma del
capitale investito (c+v), dà il tasso di profitto. Supponiamo che
la domanda sia distribuita in modo tale che ciascun settore realizzi il
plusvalore in esso prodotto. In tal caso il settore 1 ha un tasso di profitto
uguale a 20/100 = 20% e il settore 2 di 40/100=40%. Ora, se le imprese nel
settore 1 ricavano un tasso di profitto inferiore a quelle nel settore 2, vi
sarà una tendenza a disinvestire nel primo settore e a investire nel secondo.
La produzione e quindi l’offerta nel settore 1 diminuisce e quella nel settore
2 aumenta. Se la distribuzione della domanda (cioè del potere d’acquisto) tra
i due settori è invariata, i prezzi aumentano nel settore 1 e cadono nel
settore 2. Lo stesso vale per i tassi di profitto: il tasso nel settore 1 cresce
al di sopra del 20% e quello nel settore 2 cade al di sotto del 40%. Cioè vi è
una tendenziale perequazione dei tassi di profitto verso (20+40)/(80+20+60+40)=
60/200 = 30%. [1]
Tuttavia, una distribuzione della domanda tale che ciascun
settore realizzi esattamente il plusvalore in esso prodotto è puramente
accidentale. In realtà, la distribuzione della domanda e quindi i prezzi dei
due settori saranno diversi da quelli appena ipotizzati. Come prima ipotesi di
lavoro supponiamo che essi siano tali che i due settori realizzano il tasso
medio di profitto del 30% (conseguentemente, non vi è movimento di capitali).
In tal caso, ciascun impresa del settore 1 venderà i suoi prodotti per 130 e lo
stesso vale per le imprese del settore 2. Ossia, i lavoratori di ciascun impresa
nel settore 1 producono un plusvalore di 20 ma quell’impresa ricava un
plusvalore uguale a 30 mentre i lavoratori di ciascun’impresa nel settore 2
producono un plusvalore di 40 ma tale impresa ricava un plusvalore di 30.
Vendendo a tali prezzi, ciascun’impresa nel settore 1 si appropria di un
plusvalore aggiuntivo di 10 e ciascun’impresa del settore 2 perde un
plusvalore di 10. La trasformazione dei valori in prezzi è tutta qui: è una
redistribuzione del plusvalore totale prodotto tale che i settori a basso tasso
di profitto vendono ad un prezzo che assicura il tasso medio di profitto (30%) e
i settori ad alto tasso di profitto vendono ad un prezzo che riduce il loro
tasso alla media. Si noti che la media è solo un esempio. Ogni altro valore
entro 120 e 140 andrebbe ugualmente bene. Il vantaggio di ipotizzare la media è
che ci permette di astrarre dai movimenti di capitale e quindi di focalizzare la
nostra attenzione sull’appropriazione di valore attraverso il sistema dei
prezzi. La trasformazione quindi non è nient’altro che la teoria della
formazione dei prezzi in Marx che a sua volta non è nient’altro che la
differenza tra valore prodotto e appropriato. Niente di trascendentale.
Tra parentesi, l’appropriazione di valore dovuta ad una
struttura di domanda ed offerta tale che ciascun settore realizza o di più o di
meno del plusvalore prodotto (l’ipotesi di cui sopra) è chiamata ‘scambio
diseguale’ (una nozione da non confondersi con quella di Emmanuel). Questa
nozione è importante non tanto perché spiega l’appropriazione di valore
nelle condizioni sopra ipotizzate quanto perché (1) ci permette di
focalizzare l’attenzione sull’essenza della trasformazione dei valori nei
prezzi e perché (2) tale spiegazione è il punto iniziale che ci permette di
rivelare l’appropriazione di valore in seguito alle innovazioni tecnologiche e
a prezzi costanti nei settori innovativi (la causa ultima delle crisi
economiche). Ma quest’argomento non può essere trattato qui. Ritorniamo
alla trasformazione.
Introduciamo ora la dimensione temporale. A ciascuna
produzione segue la distribuzione (vendita) e il consumo dei beni prodotti. La
economia è quindi un susseguirsi di periodi che iniziano con l’ acquisto dei
beni necessari (gli inputs), che prosegue con la loro trasformazione
(produzione), e che finisce con la vendita e consumo del prodotto (output).
Chiamiamo t1 il momento iniziale (acquisto degli inputs) del primo periodo e t2
quello finale (vendita e consumo degli outputs). Al momento t1 le imprese del
settore 1 comprano mezzi di produzione per 80 e forza lavoro per 20. A t2
vendono un prodotto per 130. In maniera simile, a t1 le imprese del settore 2
comprano mezzi di produzione per 60 e forza lavoro per 40 e a t2 ricavano 130. A
t2, i capitalisti del settore 1 consumano 30 e accantonano 100 per ricominciare
un nuovo periodo. Lo stesso vale per i capitalisti del settore 2. Il nuovo ciclo
incomincia a t2 (se si suppone, per semplificare le cose, che la data della fine
del primo ciclo coincide con quella dell’inizio del secondo ciclo) e finisce a
t3. E cioè a t2 ciascun’impresa compra gli inputs per un totale di 100 e a t3
vende gli outputs per 130. E così via. Questo è il cosiddetto schema di
riproduzione semplice (in cui il plusvalore è completamente consumato dai
capitalisti invece di essere parzialmente reinvestito in addizionale c+v,
come nella riproduzione allargata).
Questo schema dell’attività economica è estremamente
semplificato ma contiene in nuce tutti gli elementi per essere esteso a
situazioni sempre più complesse. Le sue potenzialità per capire il capitalismo
dal punto di vista del proletariato sono immense, ed è proprio per questo che
è stato attaccato e continua d essere attaccato dalla ‘scienza’ economica
la cui matrice ideologica è esattamente l’opposta di quella di Marx. Vediamo
in che consiste tale critica. Consideriamo l’esempio di cui sopra
Settore 1:
valore prodotto=80+20+20=120 Valore realizzato=130
Settore 2:
valore prodotto=60+40+40=140 Valore realizzato=130
Supponiamo ora che i due settori rappresentino l’economia
di un paese (l’introduzione di più settori renderebbe tale esempio più
realistico ma due settori sono sufficienti per capire la questione). La critica
verte sui seguenti tre punti. Primo, c’è la domanda su cui molti si sono
spremuti le meningi: che cos’è il valore e come si misura? La risposta
per Marx è molto semplice. Il valore è lavoro umano eseguito entro relazioni
economiche capitalistiche, cioè eseguito da coloro che non sono i proprietari
dei mezzi di produzione per i proprietari di tali mezzi. Molto dovrebbe essere
aggiunto, ma questa è l’essenza. Quindi il valore ha sia un aspetto
naturalistico (e in questo senso il lavoro è la sostanza del valore) sia un
aspetto socialmente determinato. Bene, dicono i critici, ma per Marx il lavoro
semplice conta meno di quello complesso e il lavoro più intenso conta più di
quello meno intenso.
Questa tesi è stata criticata, come al solito, semplicemente
perché non è stata capita. Consideriamo prima il valore prodotto dal lavoro
semplice e da quello complesso. La forza lavoro del lavoratore non-qualificato,
(per esempio, lo spazzino) richiede meno tempo per essere prodotta, per esempio
un più basso livello di scolarità, di quella del lavoratore qualificato (per
esempio, l’ingegnere). Se alla società creare un ingegnere costa un multiplo
del tempo necessario per creare uno spazzino, ogni volta che un ingegnere è
creato è come se venissero creati diversi spazzini (diversi spazzini non
potrebbero fare il lavoro dell’ingegnere ma ciò è irrilevante, dato che è l’aspetto
quantitativo e non quello qualitativo che conta in questo contesto). Quindi,
ogni volta che un ingegnere lavora per un’ora è come se lavorassero diversi
spazzini per un’ora. È per questo che il lavoro della forza lavoro
qualificata (lavoro complesso) conta come un multiplo del lavoro della forza
lavoro non-qualificata (lavoro semplice). Per quanto riguarda l’intensità del
lavoro, uno spazzino (e lo stesso vale per l’ingegnere) che lavora ad una
intensità doppia di quella di un altro produce un valore uguale a quello di due
spazzini più ‘pigri’. Infatti, ci vorrebbero due di questi ultimi per
produrre quello che produce lo spazzino più alacre. Questo è la tesi di Marx.
Pur ammettendo che tale tesi sia giusta, dicono i critici,
siccome noi non possiamo osservare tipi diversi di lavoro, il concetto di valore
non può essere empirico e diventa metafisico. Questa è una sciocchezza bella e
buona. Che i diversi tipi di lavoro non siano osservabili è solo ed unicamente
una conseguenza di un sistema di rilevazioni statistiche che (non a caso) non si
presta a tale tipo di osservazioni. Date le risorse ad un gruppo di ricercatori
e loro vi produrranno un sistema di rilevazione del lavoro adatto a misurare il
valore prodotto da ciascun lavoratore (si veda il volume curato da A.Freeman e
G.Carchedi, Marx and Non-Equilibrium Economics, Edward Elgar, 1996,
capitolo 7).
La seconda critica è chiamata pomposamente la ‘regressione
ad infinitum’, un nome tale da incutere timore. E cioè, dicono i critici
(tra cui penne illustri, come Joan Robinson), per calcolare il valore del
prodotto di un certo periodo, bisogna sapere il valore degli inputs, per esempio
dei suoi mezzi di produzione. Ma questi sono stati a loro volta outputs del
periodo precedente. Quindi per calcolare il loro valore dobbiamo fare un
ulteriore passo indietro nel tempo, e così via presumibilmente fino alle
origini della vita. Questa è una sciocchezza ancora maggiore. Come ho
argomentato più volte, questo criterio renderebbe impossibile qualsiasi tipo di
scienza e di conoscenza (compresa la storia). Ogni tipo di scienza deve prendere
un certo punto di partenza come dato. Per esempio, per capire le origini del
capitalismo devo prendere il feudalesimo come un dato punto di partenza. Se, per
capire il capitalismo, penso che sia necessario indagare anche sulle origini del
feudalesimo, allora devo prendere l’epoca precedente come data. Ma alla fine
dovrò fermarmi e prendere un certo punto come dato. Similmente, uno psichiatra
che indaghi sui problemi del suo paziente può pensare che sia necessario
esaminare la psiche dei suoi genitori. Eventualmente potrebbe fare un passo
indietro nell’albero genealogico del paziente ma alla fine si dovrà fermare.
Per tornare a noi, per calcolare il valore di un prodotto devo prendere quello
dei suoi inputs come dati. Anche se volessi fare ulteriori passi indietro, ad un
certo punto dovrò pure prendere gli inputs di un certo periodo come dati. È
incredibile ma vero: è con questo tipo di balbettio metodologico che un gigante
come Marx viene attaccato.
La terza ed ultima critica richiede un certo impegno
per essere seguita. Supponiamo che il settore 1 produca beni di investimento
(macchine, ecc.) e che il settore 2 produca beni di consumo (vestiti, cibo,
ecc.). Questo è il modello più semplice di un’economia. Consideriamo il
settore 1. Esso vende i mezzi di produzione da esso prodotti per un valore di
130, sia al suo interno che al settore 2. Ora, dicono i critici con l’aria di
chi ha avuto une grande pensata, anche un bambino sa che lo stesso
prodotto è comprato dal compratore per un certo prezzo e venduto dal venditore
allo stesso prezzo. Nell’esempio precedente, 130 è il valore a cui sono
venduti i mezzi di produzione ad entrambi i settori ed ovviamente dovrebbe
essere il valore pagato dai compratori. Però i mezzi di produzione sono
comprati dai capitalisti nel settore 1 per un valore di 80 e nel settore 2 per
un valore di 60. Il totale è 140. Voilà, ecco la prova definitiva dell’incoerenza
del pensiero di Marx. I capitalisti comprano i mezzi di produzione per 140 ma li
vendono per 130. Il prezzo ricevuto dal venditore non è lo stesso del prezzo
pagato dal compratore. È questa l’essenza della critica della circolarità,
la critica maggiormente diffusa ed accettata della teoria marxista della
trasformazione dei valori in prezzi. Fu originariamente proposta da
Böhm-Bawerk, ripetuta, con una ‘soluzione’ che accettava la validità della
critica, da von Bortkiewicz, e, ahimè, accettata e diffusa nei circoli marxisti
dall’influente economista marxista Paul Sweezy nel secondo dopoguerra.
Dopo di loro, intere biblioteche sono state scritte su questo ‘problema’
come se il problema esistesse veramente e numerose soluzioni sono state trovate
ad un problema che non esiste. Ma le cose stanno diversamente e per ben due
motivi.
[1] N.d.R.: ovviamente il ragionamento è valido qualsiasi siano i
valori scelti.