Il mito della regolamentazione del conflitto fra capitale e lavoro in Brasile
Flávio Bezerra de Farias
(oltre il fordismo semi-periferico e questa globalizzazione)
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1. Conoscenza e mercato [1]
La posizione che qui difendo è minoritaria nella CUT. Nel
2000, venni eletto (attraverso il sistema proporzionale) dirigente regionale
della CUT-MA in un Congresso in cui erano rappresentati i professori
universitari dello Stato del Maranhão (a Nord-est del paese), affiliati ad una
sezione del Sindacato Nazionale dei Professori dell’Istituzione dell’Insegnamento
Superiore del Brasile (ANDES-SN). Questo sindacato promosse uno sciopero
nazionale, lungo, massiccio e vincente durante il secondo semestre del 2001, che
durò più di cento giorni a causa dell’attitudine repressiva e bugiarda del
governo, per il suo rifiuto al dialogo con gli scioperanti e per il suo
disprezzo nei confronti della giustizia, della Costituzione, etc. Di fatto, lo
sciopero fu una lotta per il rispetto dei diritti costituzionali, come: la
natura pubblica e gratuita dell’università, dal seno della quale sono
inscindibili l’insegnamento, la ricerca e la formazione. Secondo il bilancio
dello sciopero fatto dal presidente dell’ANDES-SN, il professor Roberto Leher,
si è trattato di una lotta “contro lo smembramento dell’intelligenza”,
perché “l’educazione tecnologica e l’educazione superiore stanno per
essere ridefinite secondo il modello imposto dalla Banca Mondiale, questo
provoca danni estremamente gravi al consolidamento della capacità scientifica e
tecnologica nazionale e alla formazione degli studenti. L’assunzione
incondizionata di questa politica da parte del Ministero dell’Educazione
esclude il Brasile dalle conoscenze avanzate. Concretamente, le riforme
neoliberali formano un vero apartheid planetario nel dominio dell’educazione.
Tutte le caratteristiche di qualità sociale, di uguaglianza e di
cosmopolitismo, che ancora esistono nel sistema dell’insegnamento brasiliano,
vengono distrutte”.
L’origine di questo sciopero non risiede semplicemente nel
fatto che i diritti dei professori e degli altri funzionari pubblici sono stati
sistematicamente attaccati da misure neoliberali per vari anni. È uno sciopero
specifico contro la distruzione dell’università pubblica brasiliana che è
stata voluta e progettata, soprattutto dall’inizio del primo mandato del
governo di Fernando Henrique Cardoso che, quando giunse al potere, espresse
pubblicamente la volontà di scelta di tutto quello che lui aveva scritto sulla
teoria della dipendenza. Come fedele seguace di questo desiderio, Paulo Renato
dichiarò, all’inizio della sua gestione del Ministero dell’Educazione, che
il paese e l’università brasiliana non si sarebbero dovuti occupare della
ricerca, perché la conoscenza sarebbe venuta dal mercato, tramite le imprese
multinazionali, d’accordo con la politica del FMI e della Banca Mondiale. Per
Roberto Leher, le istituzioni internazionali “agiscono in favore dell’economia
egemonica, impedendo lo sviluppo autonomo nella periferia del capitalismo. La
maggior parte delle risorse pubbliche è destinato al pagamento del debito, cosa
che spiega perché non c’è posto per l’educazione pubblica nel bilancio
federale. Con questa politica, il governo esorta alla creazione di istituti di
insegnamento privato, che proliferano ad una velocità mai vista, sono libere
dal controllo pubblico e non hanno compromessi con la ricerca”. In compenso,
in una recente intervista, Paulo Renato ha difeso la tesi secondo la quale la
ricerca ai fini dello sviluppo scientifico e tecnologico è una priorità
oltrepassata, come se questa idea fosse stata sotterrata nei cimiteri della
storia in favore della globalizzazione. Infine, le esigenze che hanno condotto a
questo sciopero sono legate ad aspetti sia politici che economici, perché i
militanti di questo sindacato credono sempre nell’unità dei lavoratori
costruita sulla lotta generale e specifica contro il capitalismo e contro l’imperialismo.
È un sindacato che lotta sia per gli interessi immediati dei suoi associati sia
per il socialismo, dall’epoca della dittatura militare in Brasile. Questi fini
politici e sindacali di un movimento autonomo erano in perfetto accordo con
quelli del Partito dei Lavoratori (PT) e della CUT al momento della loro
creazione, all’inizio degli anni ’80.
2. La CUT e l’utopia concretadella rivoluzione
I movimenti socialisti che hanno resistito alla dittatura
militare (1964-1985) non scommettevano sul cliché della rivolta dei cittadini
umiliati ed offesi (a causa della mancanza di libertà, di uguaglianza e
solidarietà) e su quello della rivolta dei lavoratori (a causa dell’oppressione
e delle imposizioni politico-economiche borghesi). Come disse Bloch [2002:
172-173], “un soggetto non può porsi nel socialismo come lo Stato di diritto
borghese si pone sui poveri e sui ricchi, nella misura in cui questo diritto è
uno strumento formale, ideologico ed, in ultima analisi, sbagliato. Ma, se il
soggetto si trova nel socialismo, uno dei suoi segnali è che il soggetto
raccoglie, pulisce e innalza la bandiera dei diritti dell’uomo, che lo Stato
del diritto borghese aveva mal utilizzato, e che lo Stato dell’illegalità
fascista, poiché dispotico, aveva totalmente liquidato”. Pertanto, la lotta
generale nella prospettiva del movimento reale che oltrepassa lo stato delle
cose attuali non è incompatibile con la lotta che sottolinea il diritto alla
cittadinanza, o, meglio ancora, il diritto alla partecipazione politica
effettiva [Vincent 2001: 167].
Con questo spirito, l’unità dei lavoratori è qualcosa che
si costruisce nella lotta, non è allora un’imposizione della burocrazia
sindacale, il cui peso diventa sempre maggiore in seno alla CUT, soprattutto a
partire dagli anni ’90. Effettivamente, il sindacalismo giallo, l’imposizione
di tesi venute dall’alto e il centralismo autoritario sono diventate la
pratica quotidiana della corrente maggioritaria (chiamata “Articolazione
Sindacale”), ciò che spiega in parte perché nell’ultimo Congresso
Regionale del Maranhão la sinistra ha eletto, su un totale di quarantadue
dirigenti presentatisi, solo due dirigenti, secondo il sistema proporzionale.
Questo è avvenuto in uno degli Stati più sottosviluppati del Brasile, dove il
proletariato soffre da più di quarant’anni la dominazione e l’oppressione
dell’oligarchia Sarney (antico governatore del Maranhão ed ex-presidente del
Brasile, per il quale la questione sociale continua ad essere una questione di
polizia). La verità è che, in queste circostanze, la coscienza politica e
sindacale non va avanti facilmente. Oltre a ciò, la corrente sindacale
predominante nella CUT-MA non cerca di spezzare lo status quo. Al
contrario, per poter mantenere la maggioranza al Congresso Regionale del 2000, l’Articolazione
Sindacale si è alleata con i sindacalisti gialli (“pellacce”) che
hanno partecipato al governo di Roseana Sarney (Partito del Fronte Liberale).
Da lì si è sviluppata l’importanza delle resistenze
simultaneamente unitarie, di base e di massa, in azioni totalmente autonome in
relazione ai diversi poteri istituzionali, oligarchici e burocratici (locali,
nazionali o internazionali). Al centro della posizione critica e rivoluzionaria
esistono tanto “la parzialità economica per gli emarginati e gli oppressi”
quanto quella “per gli umiliati e gli offesi” [Bloch, 2002:
225]. Così, si riferiva Marx alla seguente frase: “Ben detto, vecchia talpa.
Ma come fai a scavarti la terra così veloce? Che grande minatore!” (William
Shakespeare, Hamlet, atto I, scena 5).
In tutte le regioni del Brasile, soprattutto a partire dagli
anni ’90, le iniziative di vera resistenza, che cercano di superare il
capitalismo (per esempio: lo sciopero generale), sono sedate o soffocate dell’Articolazione
Sindacale e dal sistema sindacale ufficiale di ispirazione fascista. Così,
qualsiasi posizione drastica che sia del “Movimento dei Senza Terra” (MST)
sia dei professori universitari può avanzare solo all’esterno di tutto ciò.
Cioè, contro le corporazioni e contro il collaborazionismo di classe. Bisogna
allora nuotare contro corrente nel seno della CUT, la cui direzione si
burocratizza e si avvia sempre più verso destra. In realtà, le pratiche
politiche dell’Articolazione Sindacale sono “pilotate” dall’antica
ideologia della “regolamentazione” dei conflitti tra capitale e lavoro,
particolarmente dalla mediazione di uno Stato-previdenza periferico, visto in
maniera feticista come tecnica e oggettivamente neutrale in relazione alle
classi sociali e agli interessi dei poveri e dei ricchi. Intanto, nel nuovo
contesto storico, a partire dagli anni ’90, non c’è più posto né per il
progresso sociale né per il pieno impiego (come orizzonte utopico della
cosiddetta “società del lavoro”). Le pratiche sindacali burocratiche
servono semplicemente a legittimare la regressione sociale e la ricerca d’impiego
sul mercato del lavoro liberalizzato ed in un’economia privatizzata secondo la
ricetta del FMI, della Banca Mondiale, dell’OMC, etc.
L’Articolazione Sindacale si trova sotto l’influenza dell’ideologia
discorsiva post-moderna, che “non fa nessuna scommessa neanche sulla
possibilità generale della coscienza internazionale della classe oppressa, che
radicalizzerebbe la sua posizione di antagonista nella scala mondiale, e neanche
nel miglioramento immediato della sua razionalità contro la logica neoliberale
della globalizzazione, si voglia a livello sindacale si voglia a livello
politico”. Infine, questa ideologia nega “la capacità attuale di agire
delle masse operaie, prospettivamente e pienamente, conforme ai loro interessi
storici ed universali. Sarebbero, al contrario, sempre disponibili alle
manipolazioni, alle oppressioni e alle ricognizioni delle grandi corporazioni
trans-nazionali, nel quadro della globalizzazione e dello Stato cosmopolita”
[Farias, 2001: 112-113].
3. La CUT e l’utopia astratta della riforma
L’Articolazione Sindacale ragiona come se le barbarie ed i
crimini della dominazione capitalista imposta alla semi-periferia (Brasile,
Argentina, etc) si potessero spiegare con l’atmosfera di crisi originata dal
passaggio al post-fordismo e dall’avvento irresistibile della globalizzazione.
La corrente egemonica della CUT vede in questa una situazione transitoria, che
è destinata a scomparire nella misura in cui il posto del Brasile nella nuova
suddivisione internazionale del lavoro si consolidi (in termini di
competitività e di produttività). Questo farebbe da asse ad una nuova
correlazione di forze più favorevoli alla classe operaia brasiliana, quindi
produrrebbe la sostanza di un vero Stato nazionale sociale, simile all’esperienza
dei paesi del centro. Si constata, pertanto, la presenza di una vera frattura
nella comprensione del regime centrale di accumulazione sotto la dominazione
finanziaria, che spiega in parte l’immobilità del sindacalismo ufficiale, che
non agisce per superare l’impotenza che gli viene attribuita nel nuovo modello
di crescita. Bisognerebbe costruire, al contrario, l’unità sindacale nella
ricerca di un futuro migliore per tutti i proletari, senza scegliere la
sovrappopolazione relativa.
Nel contesto del post-fordismo e della globalizzazione, la
prospettiva della ripetizione della regolamentazione statale e contrattuale
previdenziale non è nient’altro che un’utopia astratta, cioè, “una
condanna astratta, impotente di un mondo che non si comprende e che non si vuol
conoscere” [Vincent, 2001: 167]. Oltre a questo, le pratiche sindacali
puramente difensive con alcune conquiste formali ed istituzionali diventano un
ostacolo per la difesa concreta degli interessi immediati dei lavoratori, posto
che, nella realtà, esiste la supremazia delle relazioni mercantili estremamente
liberalizzate (consenso di Washington) sulle norme iscritte nella Costituzione
(consenso social-democratico del 1988). Così, il vecchio presidente Sarney
disse (subito) che con la Costituzione del 1988 il Brasile sarebbe stato
ingovernabile (nella sua prospettiva opportunista e liberale del momento).
Perciò, questa Costituzione venne frequentemente ignorata ed, infine, riformata
nel senso che esigeva l’ideologia dell’autoregolamentazione del mercato, nel
momento della globalizzazione e in una fase di superamento del fordismo
semi-periferico (a partire dagli anni ’90). Da allora, si sviluppò nel paese
un riformismo autoritario (sotto la presidenza di Fernando Henrique Cardoso, il
più “realista” e “sapiente” che il Brasile abbia mai conosciuto),
sottoforma di una realpolitik della social-democrazia brasiliana. Questa
fu rinnovata secondo i principi di una terza direzione, dove i consensi si
producono solo nel quadro egemonico del mercato, degli affari (incluso quelli
della corruzione) e della speculazione [Farias, 2000a: 21 e seguenti]. Conviene
ricordare che i gruppi dirigenti della “Nuova Repubblica” brasiliana
esercitano un controllo totalitario dei mezzi di comunicazione ed i suoi uomini
politici hanno il diritto di avere una tale impunità al punto di provocare l’invidia
di un Berlusconi.
Quindi, l’integrazione operaia nel processo di
social-democratizzazione della “Nuova Repubblica” non passa da un’utopia
di cambiamento, ma realizza un contesto dominato da una specie di ripetizione
della storia e della nostalgia dello Stato nazionale sociale che fu tracciato
nel 1988 -nel quadro di espansione dei movimenti politici e sindacali dell’opposizione
all’antica dittatura militare. Non è nient’altro che una farsa adottare il
punto di vista dell’Articolazione Sindacale secondo la quale la forma dello
Stato capitalista periferico brasiliano attuale potrebbe fare una mediazione
tale che la società funzioni come un carosello, per la felicità e la sicurezza
del capitale e del lavoro (sotto compromessi istituzionali, nel senso keynesiano
del termine). Quando, in realtà, c’è bisogno di autorità e di una brutale
espulsione della funzione viva della Costituzione [Farias, 2000a:61; 2000b: 46].
Di fatto, sotto l’egemonia dell’Articolazione Sindacale, la CUT ha lasciato
cadere la bandiera della ribellione e della speranza. Questa organizzazione
sindacale si distanzia sempre più dall’utopia critica e rivoluzionaria, che
potrebbe produrre qualcosa di nuovo, perché solo così si realizzerebbe un
movimento volto al futuro, contro la ristrutturazione e la dominazione
capitalista. L’Articolazione Sindacale invece di inginocchiarsi davanti ai
poteri del passato, dovrebbe promuovere una ripresa “in un altro quadro
dialettico della cittadinanza come statuto individuale e della cittadinanza come
emancipazione collettiva, superando la figura storica dello Stato nazionale
sociale” [Balibar, 2002: 9]. D’altronde, non si può smettere di notare il
fatto che la politica ufficiale della CUT elabori le strategie emancipatrici
essendo, sostanzialmente, dalla parte dello stabilirsi, per via elettorale, di
una nuova concertazione e consociativismo di forze nel seno dello Stato, in
parte apparentemente contro il neoliberalismo e a favore della cittadinanza.
Questa politica esalta l’attuale ordine statale per negare la prospettiva di
superamento questa forma di Stato, per accettare la democrazia borghese come
valore universale ed eterno. In compenso, “la rivoluzione socialista,
sopprimendo la società delle classi in generale, penetra nei domini dove entra
in contatto con ciò che era in via di mutamento già con le rivoluzioni
borghesi, e deve farlo pena il non farsi riconoscere, deve riprendere la
tradizione di ciò che non è successo, del non completato. Ed è esattamente
quello che veniva segnalato in precedenza dalle parole d’ordine: Libertà,
Uguaglianza, Fraternità, con però una coscienza che designa uno stato di cose
in cui la società di classe non esiste più” [Bloch, 2002: 208].
4. Conclusione
In fin dei conti, la politica di integrazione operaia portata
avanti dall’Articolazione Sindacale con il processo di
social-democratizzazione, da un lato, si arrende di fronte all’impotenza della
condizione di sovrappopolazione relativa in espansione che grava, per mezzo dei
mezzi di organizzazione sindacale legati al passato, sulle nuove forme di
imposizione e della dominazione post-moderna. Dall’altro lato, si arrende all’impotenza
della sovranità dello Stato-nazione brasiliano nel costruire una mediazione
democratica tra le contraddizioni delle classi in lotta.
Infine, tale impostazione ha per asse una divisione del
lavoro che agisce come “un’ombra che si pone sulla prosperità capitalista”
e, in circostanze simili, “lo Stato di diritto formale rivela la sua altra
natura, ad ogni momento suscettibile di dirigersi verso il fascismo” [Bloch,
2002: 167]. Questa instabilità non proviene semplicemente dal risultato
naturale del determinarsi del nuovo regime di accumulazione sotto la dominazione
finanziaria che si realizza da più di vent’anni, la cui articolazione con la
pratica del “colpo di Stato” diventa ogni volta più evidente [Chesnais ed
altri, 1996; 2001]. Perciò, la normativa delle relazioni sociali per mezzo
delle “Misure Provvisorie” presidenziali della social-democrazia
post-moderna non è molto diversa da quella che si faceva per mezzo di “Decreti-Legge”
del potere esecutivo della dittatura militare. La CUT è nata per opporsi a
questi decreti, come una fenice, sorgerà ancora una volta contro quelle misure:
lottando contro il consolidamento dell’impoverimento sociale e del progresso
materiale solo quantitativo, che sono accomunati da una stessa dinamica del
progresso tecnico, superando il fordismo semi-periferico e questo modello di
globalizzazione.
Bibliografia
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Bloch Ernst, Droit naturel et dignité humaine,
Payot, Paris, 2002.
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financière, Syros, Paris, 1996.
_____, Une nouvelle phase du capitalisme?, Syllepse,
Paris, 2001.
Farias Flávio Bezerra de, “A descoberta do Estado
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_____, O Estado capitalista contemporâneo: Para a
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vol. 2, n° 3, Universidade Federal de Mato Grosso do Sul, janvier-juin 2001a.
_____, A globalização e o Estado cosmopolita: As
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Vincent, Jean-Marie, “L’humanité comme utopie sans
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Paris, 2001.
NOTE
* Dottorando in Scienze Economiche (Università di Parigi XIII). Professore
all’Università Federale di Maranhão. Borsista CAPES (Brasile). Dirigente
della CUT - Regione di Maranhão (CUT-MA).
[1] Ns. traduzione dall’originale portoghese.