1. La crisi argentina: il modello della rendita
finanziaria è ormai finito
La crisi argentina si è inserita nell’attuale dibattito
politico ed economico internazionale. Per capirla è necessario guardarla con
una prospettiva storica. Non si tratta di un incidente di passaggio, né di
errori di guida, né di “danni collaterali” non voluti. Il problema è molto
più profondo. A nostro giudizio, esiste una crisi storica del modello (un
modello politico è un modo di esercitare il potere che influenza le forme di
vivere, produrre e distribuire autorità e ricchezza all’interno delle
società). Nella storia, questi processi durano solitamente secoli; ora i tempi
sono più brevi, ed il modello economico finanziario argentino si è esaurito in
un quarto di secolo. Ciò a cui ora stiamo assistendo è la sua agonia.
Questo fatto naturale è ignorato da coloro che comandano
nella politica e nell’economia argentina. Non solo non hanno risposte di
fronte ad una realtà sconvolta, ma inoltre sbagliano la diagnosi. Agiscono come
se i problemi fossero a breve termine e riguardi soprattutto le casse; secondo
questa visione, equilibrando il bilancio e continuando con l’indebitamento, la
situazione si sistemerà. Secondo loro, l’asse della politica economica è l’equilibrio
fiscale; e il motore, l’indebitamento estero. Non si immaginano nemmeno che il
problema è un altro, che ciò che realmente sta accadendo è che il modello
della rendita finanziaria è schiacciato da diverse crisi convergenti ed è
imploso.
Per capire la realtà è necessario inserirla all’interno
di una prospettiva storica, distinguere le tappe dello sviluppo nazionale e
includere la fase attuale.
Nella nostra storia sono esistite un’Argentina agraria, che
va dal 1880 al 1945; un’altra Argentina industriale, dal 1945 al 1976; ed una
terza Argentina fondata sulla rendita finanziaria, che vige dal 1976.
La generazione del 1880 fondò un nuovo paese sulla base
dello sfruttamento agricolo e pastorizio ed il suo inserimento nel commercio
mondiale attraverso l’Impero Britannico. Si istituirono un’istruzione
elementare ed una massiccia immigrazione; fu costruita un’infrastruttura di
porti e silos; nello stesso tempo, sorsero nuovi modelli culturali, politici e
sociali.
Verso il 1930 questo modello agrario ha cominciato ad
indebolirsi ed è nato quello industriale, il cui predominio si consolida nel
1945; il mercato interno guida dunque il modo di produrre, consumare e
distribuire. Si è passati dall’economia agraria ad una sostituzione con le
importazioni, con egemonia del settore industriale, che ha portato ad una
maggiore giustizia sociale e al rinnovamento quasi totale dell’élite
politica. Il modello industriale durò, con diverse vicissitudini, fino al 1976.
Quell’ anno, il governo militare di Videla-Martínez de Hoz instaurò il
modello neoliberale della rendita finanziaria.
Le sue caratteristiche principali sono state: crescente
indebitamento di Stato, dipendenza dagli Stati Uniti, redistribuzione delle
entrate inversa rispetto ai salariati, liberalizzazione del sistema finanziario,
apertura estera commerciale e finanziaria; vi è stata inoltre una politica
contro l’inflazione basata sulla sopravvalutazione della moneta nazionale.
Tali mezzi sono stati in grado di distruggere lo schema di crescita del
dopoguerra, ma non di imporne uno nuovo: da qui, la sua natura parassitaria,
giacché non poteva sopravvivere se non tramite l’indebitamento estero.
Questo modello portò il paese allo smembramento dell’apparato
produttivo e al sovrindebitamento estero e interno. Una volta compiuta la
brutale repressione (1976-1982) e rotti i legami sociali con le iperinflazioni
(1989 e 1991), si è avanzati su un terreno devastato. Generali e blindati non
erano più necessari. Bastavano le transizioni finanziarie. Quando il modello si
è sentito minacciato, ha scosso il mercato, come con il presidente Raúl
Alfonsín.
Le conseguenze del modello di rendita finanziaria instaurato
nel 1976 sono state disastrose. A livello politico è stata alienata la
sovranità nazionale, è stato disarticolato lo Stato, sono scomparse le imprese
pubbliche, la corruzione è stata sistematica. A livello economico e sociale, il
prodotto interno lordo per abitante (a prezzi costanti) nel 2002 è inferiore
del 12% a quello esistente nel 1975; la disoccupazione ufficiale, che nel 1976
era del 4,5% della popolazione economicamente attiva, ora arriva al 23%; il
settore industriale nel 1976 produceva il 32% del prodotto interno lordo, mentre
nel 2000 scende al 16%; ci sono 18 milioni di poveri (il 51% della popolazione
totale), dei quali 8 milioni sono indigenti (non riescono a coprire le spese per
l’alimentazione).
I risultati economici dei tre modelli, misurati in base al
prodotto per abitante, mostrano che l’Argentina agraria (1890-1945) è
cresciuta annualmente dello 1,29%; quella industriale (1945-1976) del 2,10%; e
quella della rendita finanziaria (1976 fino al 2000), al 0,24% (cifra che
risulta negativa, se si considerano i crolli del -3,8% nel 2001 e quello
previsto del -13,5% per il 2002). Questi dati appaiono nello studio della OECD
realizzato da Angus Maddison fino al 1994, completato con dati della CEPAL fino
al 2000.
Attualmente, gli sconvolgimenti a cui stiamo assistendo sono
dovuti ad un’agonia, che si prolunga perché il modello che succederà non è
ancora strutturato. Si può applicare la poesia di Borges: “L’uomo è morto/
la barba nono lo sa/ le unghie crescono”. In altre parole, il modello
economico è morto, la classe politica non ha ancora dato segno di essersene
accorta e l’establishment economico continua a fare affari; però il modello
è morto.
2. Il vicolo senza uscita
Attualmente viviamo una situazione economica senz’uscita
all’interno della logica del modello. Ci troviamo nel mezzo di una crisi di
sovrindebitamento alla quale ci ha portato il regime di convertibilità. Quel
sistema poteva essere utile per frenare l’inflazione, ma non per inquadrare un
processo di sviluppo. Esso è derivato dall’entrata massiccia di capitali e ci
ha portati a un debito incredibile e all’internazionalizzazione dell’economia;
il debito estero è passato dagli 8.700 milioni di dollari del 1976 ai 61.000
milioni del 1990 ed ai 142.000 milioni del 2001; e lo stock degli investimenti
esteri nel decennio del 1990 è aumentato da 15.000 milioni di dollari a 75.000
milioni di dollari, come conseguenza dell’internazionalizzazione di imprese
pubbliche e private, ma non grazie a nuovi investimenti. La conseguenza è che
adesso devono essere pagati molti più interessi e utili all’estero, che vi è
un deficit strutturale nell’attuale conto della bilancia dei pagamenti e una
tale scadenza del debito che ci mette in condizione di insolvenza. Possiamo
pagare solamente se ci fanno dei prestiti per pagare e se manteniamo basse le
importazioni, dunque non ci è possibile crescere (le importazioni aumentano se
cresce il prodotto). Pertanto, la crisi attuale non è dovuta a mancanza di
liquidi, ma a insolvenza; non si tratta di una situazione momentanea delle
casse, ma di un’impossibilità strutturale nel generare eccedenza nel bilancio
e ancora meno nell’ottenere i dollari necessari per pagare.
3. La funzione del FMI
L’unica politica del governo argentino in risposta alla
crisi attuale è la firma di un accordo con il Fondo Monetario Internazionale
(FMI). Con l’intento di attirare gli investitori che riattiveranno l’economia.
Si continua con l’indebitamento come motore del funzionamento economico; si
dimentica che non può essere infinito e che, su queste basi, tutta la struttura
crolla quando termina il finanziamento, che è ciò che è successo adesso.
Il FMI approfitta della situazione per imporre condizioni che
favoriscano il settore finanziario internazionale e nazionale. Inoltre, l’aiuto
che è disposto a dare non serve per il recupero dell’Argentina: si tratta
solo di una registrazione contabile per rinviare i pagamenti che l’Argentina
deve effettuare allo stesso FMI; includendo anche un programma di aggiustamento.
Qual è la ricetta della politica economica? Con la stessa
certezza con cui nel campo medico si prescrive un coagulante per fronteggiare un’emorragia
o un anticoagulante se c’è un’embolia, deve essere riattivata la spesa per
fronteggiare una recessione e limitarla se si surriscalda l’economia Ebbene,
per 10 anni gli economisti neoliberali nazionali e del FMI hanno somministrato
anticoagulanti mentre si stava producendo un’emorragia. Il risultato lo
abbiamo sotto gli occhi: sovrindebitamento, denazionalizzazione dell’economia,
concentrazione delle entrate, impoverimento di gran parte della popolazione,
crisi finanziaria, depressione economica e pericolo del risorgere dell’inflazione.
Sono state fatte tutte le riforme imposte dal FMI e dall’establishment, in
maggiore quantità che in qualsiasi altro paese latinoamericano, ed ora risulta
che non sono state sufficienti, e questo è il nostro guaio.
Per riattivare è necessario che la popolazione compri beni e
servizi, perché compri deve possedere entrate, e la forma più rapida per
ottenerle è la spesa pubblica. Però questa verità elementare viene ignorata e
si insiste con i programmi di aggiustamento. Anche se il governo argentino
ottenesse più denaro, che in teoria potrebbe essere utilizzato per altri
finalità, questo non sarà possibile se lo riceve all’interno delle
condizioni del FMI: non può essere utilizzato per una politica redistributiva
che metta in moto la riattivazione, perché il FMI esige un ribasso della spesa
pubblica tra i 2.000 e i 2.500 milioni di pesos (su un bilancio totale di 43.000
milioni di pesos). Il denaro non verrà usato per dare stabilità al peso,
perché il Fondo non vuole interventi della Banca Centrale nel mercato dei
cambi. Per lo meno, vi saranno crediti per la piccola e media impresa? No,
perché il FMI pretende una politica monetaria restrittiva.
La conclusione è che l’umiliazione economica a cui si
sottomette l’Argentina, con esigenze economiche di aggiustamenti e politiche
di sottomissione, serve solo a mostrare che con il FMI si finanziano di nuovo
alcune scadenze del debito. Il governo e gli economisti dell’establishment
pensano che in questo modo rinascerà la fiducia e appariranno capitali, sebbene
non possano dire quando né cosa produrranno. Quanti capitali arrivarono con le
precedenti operazioni patrocinate dal FMI (“blindaggio”, “megacambio”,
“déficit zero”) [1]? Perché dovrebbero
arrivare adesso, dopo il defeault e la mancata restituzione dei depostiti
bancari? I nostri economisti non si sono ancora resi conto che ciò che
interessa ai capitali esteri è la possibilità di guadagno, che il ritorno
della fiducia è una conseguenza della riattivazione economica e non un
requisito previo per riattivare.
4. La “Santa Alleanza” finanziaria
Nella crisi attuale argentina emerge un’offensiva degli
agenti finanziari internazionali e nazionali, che cercano di consolidare il
proprio potere e spostare le entrate a loro favore. Il settore finanziario
mondiale, guidato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e integrato dal
Fondo Monetario internazionale, le banche multinazionali e le grandi nazionali,
condiziona l’economia di molti paesi, tra cui l’Argentina. Si tratta di un
conglomerato molto potente, nel quale si mescolano affari di ogni tipo, che
vanno dagli interessi usurari fino al riciclaggio di denaro proveniente dalla
corruzione e dalla droga. Agiscono insieme e difendono l’interesse peculiare
del settore finanziario, al di là delle identità nazionali.
Dunque la lotta non è tra le banche e le imprese
nordamericane contro i loro omologhi argentini (se esistono), ma tra il settore
finanziario internazionale e locale e il settore produttivo ed i lavoratori e
consumatori argentini. E’ nota la connivenza del settore finanziario nazionale
con quello internazionale, non solo nelle operazioni di riciclaggio di denaro,
ma anche in molte delle misure che propone il FMI, che riguardano soprattutto l’establishment
nazionale. In questa maniera, conferiscono legittimità e importanza a richieste
che interessano i soci argentini.
La politica del FMI non si limita all’ambito economico e
finanziario, é solita anche determinare richieste politiche. Ha richiesto
pubblicamente e ottenuto l’abolizione di due leggi importanti. La prima era
quella della sovversione economica, che puniva coloro che avessero svuotato a
scopo di lucro imprese o banche e avessero commesso azioni fraudolente; con
questa abolizione si impedisce di processare molti banchieri e impresari. La
seconda era la legge dei fallimenti; con le modifiche volute dal FMI, i
creditori rimangono in posizione privilegiata diventando proprietari delle
imprese debitrici. Entrambe le leggi sono state approvate dal Congresso
Nazionale.
Oltre a questi fatti gravissimi, ne esiste un altro che
colpisce direttamente la sovranità nazionale. Il FMI invierà in Argentina una
delegazione di esperti internazionali per elaborare un programma finanziario,
che include la ristrutturazione del sistema bancario. Considerando che le due
maggiori banche del paese sono statali (della Nazione e della Provincia di
Buenos Aires), è facile prevedere quali saranno le raccomandazioni dei
proconsoli privatizzatori.
È inconcepibile che in uno Stato in rovina e con una
sovranità nazionale tanto devastata vi sia un organismo internazionale che
disponga che l’Argentina dovrà ridurre la spesa (durante una depressione),
abolire la legge di cambio economica (quando gli esportatori non liquidano i
dollari e commettono ogni sorta di crimine economico), modificare la legge dei
fallimenti (per favorire le banche), è impensabile che i giudici non
interroghino i banchieri (specializzati in evasione di capitale e riciclaggio di
denaro sporco), che si mantenga la legge di flessibilizzazione del lavoro (di
fronte alla disoccupazione dei lavoratori) e - il colmo - che l’FMI invii una
delegazione di banchieri internazionali perché ristrutturino il sistema
finanziario. Questo intervento coloniale non ha nemmeno la scusa della
prosperità che si dice che porti: quello che hanno provocato - come abbiamo
già sottolineato - è una spettacolare caduta del prodotto interno lordo, dell’occupazione
e della industrializzazione.
5. Che fare?
Di fronte a questa realtà si pone l’ovvia domanda: che
fare? A nostro giudizio le risposte devono essere adeguate alla natura ed all’ampiezza
dei problemi. Prima di tutto, non si tratta di mettere una toppa, ma di cambiare
il modello. Ci troviamo di fronte a un cambiamento di portata storica. Di
seguito elencheremo alcune norme che potranno caratterizzare uno dei futuri
possibili: applicare il principio repubblicano al problema dello Stato e alla
questione economica.
Il primo cambiamento indispensabile è istituzionale e
politico.
Una delle necessità vitali di un nuovo modello è il
recupero dello Stato. E’ un problema complesso, perché si tratta del
materiale fondamentale per la messa in atto ed il funzionamento della
Repubblica. Un governo che cambi di modello si troverà davanti alla difficoltà
di trasformare la realtà e contemporaneamente lo strumento d’azione.
A livello politico, il primo requisito è escludere dal
potere il conglomerato mafioso che attualmente lo gestisce. Fino a quando l’eccedente
economico generato dalla società sarà proprietà di questo gruppo e destinato
a fini che non siano l’accumulazione produttiva, non si potrà scorgere alcun
orizzonte.
Il modello attuale si è basato nel predominio dell’economia
sulla politica e sull’etica, e, all’interno dell’ambito economico, sull’egemonia
del settore finanziario; per questo le riforme economiche sono il perno del
cambiamento del modello. Le due assi attorno alle quali si costituirà l’economia
della Repubblica sono, primo, il passaggio dall’economia di profitto all’economia
di produzione; e, secondo, uno shock redistributivo che stabilisca equità e
efficienza.
La prima necessità è l’abbandono del modello della
rendita finanziaria che vige dal 1976. Questo implica il cambiamento del modo di
funzionamento della società e la nascita di una nuova classe dirigente
argentina. Questi obiettivi potrebbero sembrare illusori, se non stesse
agonizzando il modello al quale servono.
Per la restaurazione dell’egemonia del settore produttivo,
uno dei principali strumenti è la reindustrializzazione e lo sviluppo di
servizi di alto valore aggiunto. Non si tratta di resuscitare le industrie che
sono state distrutte, ma di crearne altre, adeguate alle nuove esigenze e
tecnologie; quando, dopo la guerra, i paesi europei hanno ricostruito la loro
industria, non hanno ripetuto ciò che era stato distrutto. La scelta di
recuperare lo sviluppo industriale dell’Argentina è strategica, dal momento
che consiste nello specializzarsi in una attività che permette ottenere rendite
crescenti e maneggiare lo sviluppo tecnologico, e che si lega allo sviluppo di
servizi qualificati e della agroindustria. D’altro canto, questa scelta
significa diversificare la specializzazione produttiva e le esportazioni, che
attualmente si basano principalmente sulle risorse naturali. Uno degli elementi
più importanti di questa opzione è che essa è associata allo sviluppo di un
mercato interno e subregionale (Mercosur). Un fattore centrale della
competitività dell’industria è proprio basarsi su mercati interni
importanti, che permettano di raggiungere economie su scala, ed esportare.
Bisogna superare la falsa dicotomia tra mercato interno e mercato esterno. In
questo modo, l’Argentina tenderà a guadagnare in competitività sulla base di
lavoro qualificato e ben rimunerato (capace di applicare e diffondere il
progresso tecnico e le forme moderne di produzione), ciò che è la definizione
stessa dello sviluppo.
[1] Il “Blindaggio” (“blindaje”n.d.t.) è stata una
rete di sicurezza per garantire il pagamento delle scadenze del debito estero
nel 2001; il “déficit zero” (“déficit cero”n.d.t.) è stato una legge
che obbligava ad aggiustare le spese ogni mese, secondo le effettive
riscossioni; il “megacambio” (“megacanje”n.d.t.) è stata un’operazione
con la quale si sono cambiati buoni del debito estero a maggiori tassi di
interesse e a termine più lungo, con un costo finanziario fiscale di 55.200
milioni di dollari a valori costanti (le proiezioni del debito fino al 2031
implicano un aumento da 159.000 milioni di dollari a 214.200 milioni, secondo le
cifre fornite dal Tribunale Generale della Nazione).