1. Introduzione
La cooperazione allo sviluppo dell’Unione Europea (UE) non
è stata capace di evitare la sopravvivenza, e in molti casi il proliferare, dei
problemi che hanno dato origine alla cooperazione stessa: sottosviluppo, fame ed
estrema povertà, solo per nominarne alcuni. La strategia della cooperazione
della UE, basata sul condizionamento politico, non è stata neanche capace di
modificare gli standard dei diritti umani e della democrazia a livello mondiale.
Le condizioni politiche per la cooperazione da parte della
UE, hanno dimostrato di essere un mezzo incapace di raggiungere i propri
obiettivi in politica estera, sempre che il rispetto dei diritti umani e la
democrazia siano degli obiettivi. In questo articolo si spiega come l’inefficacia
del condizionamento politico della UE sia causato più dalla propria
inconsistenza e dalla mancanza di sostenibilità che dagli atteggiamenti dei
paesi riceventi. Molto più frequentemente di quanto si creda, l’applicazione
di una politica di condizionamento causa opposizione da parte dei riceventi. In
questo senso, un ulteriore elemento, è dato dal fatto che le condizioni
politiche poste dall’UE non sono focalizzate certo sulle cause del
sottosviluppo.
L’articolo esamina, inoltre, quelli che, secondo me, sono
alcuni degli elementi principali che determinano l’inefficacia del
condizionamento politico della UE. Per sviluppare argomenti a favore di questa
tesi esamino il caso di Cuba -che non è certo l’unico da potersi prendere in
considerazione- in quanto potenziale ricevente della cooperazione UE.
Vorrei iniziare con alcune osservazioni.
La cooperazione della UE ha molti punti di contatto e
caratteristiche comuni con la cooperazione internazionale, anche se ha alcuni
tratti distintivi. Si può fare un esempio paragonando la UE con gli Stati Uniti
altro importante donatore internazionale - e notando l’uso generale del
condizionamento politico basato sui diritti umani, la democrazia e la buona
gestione delle risorse (good governance), priorizzando sia l’uso di misure “positive”
che “negative”. Al tempo stesso, l’interesse nazionale che determina, dal
mio punto di vista, l’applicazione caso per caso della condizionalità (o
condizionamenti), non è lo stesso se si considerano regioni o paesi
particolari. Ciò che mi interessa sottolineare non è tanto una valutazione
della cooperazione internazionale - che sarebbe tema di un altro lavoro- né
fare un paragone tra l’applicazione del condizionamento politico da parte
della UE e di altri donatori.
L’articolo ben evidenzia la cattiva gestione da parte dell’UE
dei processi di condizionamento politico.
In secondo luogo, comunemente si accetta una distinzione tra
le così dette condizionalità “positive” e quelle “negative”. [1]
Considerando che la maggior parte della cooperazione della UE
si attua nel quadro di accordi bilaterali o multilaterali, propongo un’ulteriore
distinzione tra le condizionalità incluse negli accordi di cooperazione secondo
la formula delle “clausole democratiche”, che costituiscono il quadro
generale per la sua applicazione “positiva” o “negativa”, e quelle che
chiamo condizionalità preventive o a priori, che vengono imposte al ricevente
prima della concretizzazione di un accordo e ne condizionano la negoziazione.
Dal mio punto di vista, esiste una differenza fondamentale tra le
condizionalità come parte di un accordo di cooperazione che sono, almeno
teoricamente, negoziabili tra le parti e presuppongono un compromesso reciproco,
e quelle che vengono imposte unilateralmente e al di fuori dell’ambito di
contrattazione per il donatore o i donatori. Questo tipo di condizionalità
preventive introduce un doppio livello che si aggiunge a quello già applicato
con la messa in pratica delle condizionalità politiche della UE. E’ per
questo che non sono d’accordo con gli autori che in queste vedono una forma di
condizionalità positiva. [2] Il caso di Cuba ne è un chiaro esempio.
2. L’inefficacia delle condizionalità politiche della
UE
Un esame generale della cooperazione allo sviluppo della
Unione Europea mostra alcuni elementi interessanti.
In primo luogo, la cooperazione allo sviluppo non è una
priorità della politica estera della UE. Nella pratica, è sempre stata
subordinata agli sviluppi interni del processo di integrazione e alle priorità
fissate dai più influenti tra gli Stati membri. Tutto ciò viene evidenziato
dai significativi sbilanciamenti nella distribuzione regionale degli Aiuti
Ufficiali allo Sviluppo della UE ed inoltre dal fatto che il Mercato Unico
Europeo non ha mai preso in considerazione le possibili conseguenze esterne.
In secondo luogo, l’apporto della cooperazione
internazionale allo sviluppo della UE non corrisponde al ruolo che le è stato
assegnato dal Trattato dell’Unione Europea. Nonostante la vasta esperienza
accumulata durante la sua esistenza nella integrazione di diverse sfere dell’attività
economica dei suoi Stati membri, è stato necessario attendere circa 35 anni
perché il diritto primario europeo includesse alcune formule minime riferite
alla cooperazione allo sviluppo. Questo la dice lunga sul peso degli Stati
nazionali in questo campo e sulle difficoltà che affronta la UE per affermare e
proiettare una immagine coerente.
In terzo luogo, e nella stessa direzione sopra indicata, la
cooperazione bilaterale - Stati membri della UE con Stati terzi - predomina su
quella della Commissione Europea relativamente al volume di Aiuti Ufficiali allo
Sviluppo, entro un quadro caratterizzato dalla mancanza di coordinamento tra i
programmi nazionali e quelli comunitari. La conseguenza principale di questa
situazione è l’incoerenza della cooperazione nel suo insieme, cosa che viene
rafforzata dalla sua frequente subordinazione ad altre politiche come quella
commerciale, agricola e della Politica Estera e di Sicurezza comune (PESC).
L’Articolo 130 (U) del Trattato di Maastricht ha introdotto
un riferimento legale per le condizionalità politiche, stabilendo che “la
politica della Comunità in questo campo contribuirà all’obiettivo generale
di sviluppare e consolidare la democrazia e lo Stato di diritto oltre che all’obiettivo
di rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. [3]
Dall’Articolo citato si possono trarre due conclusioni
principali:
- Primo, la democrazia e i diritti umani sono posti al centro
della politica di cooperazione, davanti a quelli che dovrebbero essere i suoi
obiettivi principali: riduzione e eliminazione della povertà, sviluppo
economico e sociale sostenibile e inserimento dei paesi in via di sviluppo nell’economia
mondiale. Da questo punto di vista, la cooperazione allo sviluppo della UE non
è focalizzata sulle cause del sottosviluppo.
- Secondo, il punto di partenza di questa concezione è che
la democrazia e i diritti umani sono una condizione indispensabile dello
sviluppo economico. Questo punto di vista è centrale nella pratica
internazionale della UE in questo campo, cosa che risulta significativa dal
momento in cui “la realtà mostra che la relazione (tra democratizzazione e
crescita economica) non può essere dimostrata (e che, di fatto) forme di
governo di tutti i tipi possono coincidere con lo sviluppo economico”. [4] Altri autori si
riferiscono all’incerto vincolo tra condizionalità politica e
democratizzazione, chiedendosi se una promuove l’altra e come. [5] Questa relazione non è stata
dimostrata neanche nel caso della buona gestione delle risorse, un cavallo di
battaglia più recente della UE nelle sue relazioni con i Paesi del Terzo Mondo.
Si possono trovare prove sia a favore che contro questa relazione, però “nel
campo delle prove empiriche, negli ultimi anni si è affermato una “convinzione”
che sostiene, ma non dimostra, questa relazione, (e) si è inserita in una
proposta ideologica eccessivamente semplicista e quindi potenzialmente dannosa
per i paesi in via di sviluppo.” [6]
Frequentemente i “diritti umani” vengono ridotti a “democrazia”
che a sua volta viene ridotta a “elezioni pluripartitiche”. [7] In molti casi questo porta a un contesto formale in cui le
condizioni sono soddisfatte semplicemente da segni esteriori. La situazione
politica dei paesi dell’America Latina, per esempio, è molto diversa da caso
a caso e in vari paesi si possono trovare numerose carenze per quanto concerne
lo Stato di diritto, l’influenza dei militari sul potere civile, l’astensione
elettorale, l’inadeguatezza dei sistemi legali e la mancanza di legittimità
dei partiti politici e dei suoi capi, per non parlare di fenomeni molto più
gravi come la tortura, le sparizioni e le esecuzioni extra giudiziali. Questo
non è stato un ostacolo perché tutti i paesi latinoamericani, ad eccezione di
Cuba, abbiano un accordo di cooperazione con la UE. Però al tempo stesso,
nessuno potrebbe seriamente assicurare, ad esempio, che il passaggio dalle
dittature alla democrazia in America Latina sia dovuto in alcun modo alle
promesse di aiuti dell’UE o di altri donatori.
Qualcosa di simile si potrebbe dire per quanto riguarda i
paesi ACP. Se l’Articolo 5 della vecchia Convenzione di Lomé o la clausola
base dell’attuale Accordo di Cotonù fossero applicati strettamente, più
della metà di questi paesi dovrebbero subire delle sanzioni o non potrebbero
continuare ad essere Parti dell’associazione. Allo stesso tempo, i paesi ACP
che hanno subito sanzioni non sono necessariamente quelli che hanno la
situazione peggiore per quanto riguarda il comportamento nel campo dei diritti
umani e/o della democrazia, né hanno risolto i propri problemi in questi campi
grazie alle sanzioni.
Anche molti dei paesi dell’Europa dell’Est che
probabilmente saranno accettati nel 2004 come Stati membri della UE, hanno
difficoltà per quanto riguarda la democrazia e i diritti umani, come è stato
riconosciuto dalla UE stessa, ma nonostante questo il processo dei negoziati non
è stato interrotto. Le considerazioni politiche sono diventate sempre più
evidenti in questo caso e si può supporre che peseranno sulla decisione finale
per quanto riguarda l’adesione.
Il doppio livello nell’applicazione della condizionalità
politica non risponde a differenze tra i riceventi, ma piuttosto a interessi
diversi dei donatori. In questo senso, quando si tratta di imporre e applicare
condizioni politiche, per la UE le considerazioni geopolitiche hanno molto più
peso dei giudizi positivi sulla situazione politica dei paesi riceventi. Lo
stesso si potrebbe dire per quanto riguarda gli interessi economici. E’ chiaro
che la UE tratta i diversi partner in modo diverso, per motivi che non sempre
hanno a che fare con i diritti umani e la democrazia; perciò, paesi che sono
considerati importanti per scopi commerciali o politici generalmente non sono
sottoposti, o lo sono meno, a misure restrittive. [8]
Di solito i paesi riceventi, per soddisfare le condizioni
imposte, devono pagare un prezzo interno molto alto. Al tempo stesso, e per
questa stessa ragione, il premio promesso non è sufficiente né come quantità
né come qualità. Questo significa, per i riceventi, una cattiva relazione
qualità/prezzo o costo/beneficio. Quindi, solo i governi con limitato accesso a
fonti alternative di entrata sono inclini ad acconsentire alle condizioni
(sempre che abbiano le risorse e la capacità di farlo) soprattutto se il loro
mancato soddisfacimento causerà costi interni - politici o economici - danni
e/o minaccia di deterioramento delle relazioni con altre fonti di entrata reali
o possibili.
I paesi donatori cercano di far sì che l’intervento negli
affari interni dei paesi sovrani diventi una condotta politica e sociale
internazionalmente ammissibile. In pratica, tuttavia, questo non è un principio
valido per tutti per quanto riguarda le relazioni internazionali. Per molti
paesi, soprattutto nel Sud, la sovranità continua a essere totalmente
ammissibile. Anche la Carta delle Nazioni Unite mantiene il riconoscimento del
principio di uguaglianza sovrana. Detto questo, è totalmente ovvio che i paesi
riceventi non possono vedere le condizionalità politiche se non come
imposizioni. Questo aspetto è rafforzato dal fatto che le condizionalità sono
“un’opzione di tutto o niente, generalmente meno credibile e più difficile
da porre in pratica.”
Se un livello generalizzato di estrema povertà è
considerato prova formale dell’esistenza di enormi masse di persone private
dei propri diritti, tuttavia per la metà più povera dei paesi del mondo non c’è
correlazione statistica tra democrazia e buona politica economica.
3. Il caso cubano
Le condizionalità politiche possono basarsi su
considerazioni ideologiche. Questo è stato evidente nel caso di Cuba, non solo
per l’evoluzione storica e politica del paese a partire dagli anni sessanta,
ma anche per le forme in cui si è manifestato l’interesse della UE verso l’isola.
Cuba è stata un soggetto molto particolare nel sistema delle
relazioni internazionali degli ultimi quaranta anni. Dal punto di vista
geografico, storico e culturale è un paese latinoamericano e caribeño.
Considerando il suo livello di sviluppo relativo, è un paese del Terzo Mondo,
anche se si distacca a livello internazionale per i suoi indicatori sociali. E’
un paese socialista per quanto riguarda il suo sistema socio-economico e
politico e per più di venti anni è stato associato ai paesi ad economia
centralmente pianificata attraverso il vecchio CAME. Allo stesso tempo, è un
paese occidentale per quanto riguarda le sue tradizioni culturali. Tutto ciò
significa, quindi, che qualunque tentativo di classificare Cuba risulterebbe
semplicistico.
In qualche modo, prima che si stabilissero relazioni formali
tra Cuba e la UE nel settembre del 1988, l’Isola era considerata dalle
cancellerie dell’Europa Occidentale come un paese dell’Est, piuttosto che
come un paese latinoamericano. Dopo la caduta del muro di Berlino, percezioni
diverse della transizione nell’Europa dell’Est hanno politicizzato
notevolmente il contesto bilaterale e portato alla paradossale situazione che fa
di Cuba, fino ad oggi, l’unico paese latinoamericano e uno dei pochi nel mondo
che non ha un accordo di cooperazione con la UE.
Questo significa che le relazioni UE-Cuba sono sempre dipese
da considerazioni ideologiche e politiche.
La UE ha creato “un caso speciale” a partire da Cuba. La
forma specifica in cui la UE ha trattato il “caso cubano” è in stretta
relazione con le trasformazioni dell’ordine mondiale alla fine degli anni
ottanta e la sua successiva evoluzione, ed è diventata evidente nel contesto
delle repentine trasformazioni avvenute in Europa in questo periodo, meno di un
anno dopo lo stabilirsi di relazioni tra Cuba e la CEE. Mentre la CEE ha
cambiato la sua politica verso l’Europa dell’Est come conseguenza della
caduta del muro di Berlino, Cuba ha deciso di mantenere le sue conquiste
socio-economiche fin dove i mutamenti dell’ordine mondiale lo hanno reso
possibile.
Sebbene gli interessi di entrambi gli attori nelle relazioni
bilaterali sembrano aver dominato a dispetto dei disaccordi di lunga data, i
vincoli sono stati fragili, considerando la loro vulnerabilità, l’influenza
della situazione politica e vari fattori esterni alla relazione stessa, in
particolare la politica nord americana. Di fatto, la relazione tra UE e Cuba non
può vedersi isolatamente, ma piuttosto come parte di un triangolo il cui terzo
vertice è Washington. Il lato più corto di questo triangolo è quello che
unisce la UE con gli USA, a causa di considerazioni strategiche derivate dall’alleanza
atlantica.
Fondamentalmente, ciò che distingue il trattamento riservato
a Cuba dalla UE, nell’ambito della sua politica di cooperazione allo sviluppo,
è l’applicazione di un doppio livello nel senso di ciò che ho definito sopra
come condizionalità a priori. Le condizioni imposte a Cuba dalla UE non fanno
parte delle negoziazioni di un accordo particolare (clausola democratica), ma
sono piuttosto un prerequisito alla negoziazione stessa.
Due esempi mostrano con chiarezza la particolare forma di
condizionalità imposta a Cuba nel contesto delle sue relazioni di cooperazione
con la UE.
Il primo si è manifestato quando le possibilità di
negoziare un accordo di cooperazione economica e commerciale con la UE erano
più vicine, a seguito di una proposta spagnola, durante la sua presidenza del
Consiglio dei Ministri nel 1995.
Tra giugno e dicembre di quell’anno il processo procedette
piuttosto velocemente. In meno di sei mesi si passò dalla Comunicazione della
Commissione sulle relazioni con Cuba all’approvazione della relazione della
troika sulla sua visita di novembre a Cuba da parte del Consiglio Europeo di
Madrid, che diede mandato alla Commissione di elaborare le direttive di
negoziazione. Nel gennaio del 1996 il Parlamento Europeo ha approvato una
risoluzione che, benché controversa, appoggiava l’apertura delle
negoziazioni.
Un mese più tardi, il vicepresidente della Commissione
Europea incaricato dell’America Latina, realizzò un’improvvisa visita a La
Habana. Questa visita non aveva a che vedere con il carattere tecnico delle
conversazioni esplorative che si stavano tenendo tra la UE e Cuba. Aveva l’obiettivo
di arrivare ad alcuni impegni politici da parte cubana, in una fase precedente
all’apertura delle negoziazioni formali (inoltre la proposta di indicazioni di
negoziazione non era stata emessa dalla Commissione). Tuttavia, questo processo
era stato presentato come non legato a precondizioni.
Il rifiuto delle condizioni da parte delle autorità cubane
fu interpretato come mancanza di interesse all’accordo da parte di Cuba.
Inoltre, l’Isola fu incolpata di aver impedito la continuazione del processo.
In realtà, l’interruzione del processo fu causata dalla
sua ambiguità. La UE non offrì nessun argomento coerente per difendere il suo
atteggiamento. Il comunicato ufficiale emesso dalla Commissione il 7 maggio 1996
segnala che “Continuando questi contatti e considerando le adeguate
conseguenze delle controparti cubane, sembra che la Commissione non riuscirà a
presentare al Consiglio dei Ministri, entro la data limite fissata dal Consiglio
Europeo, il progetto di direttive di negoziazione per un accordo tra Unione
Europea e Cuba.” [9]
In pratica, la decisione della Commissione Europea era basata
sulla sua delusione per il ritmo e il conseguimento delle riforme economiche e
politiche iniziate a Cuba nel 1993.
Un esempio più chiaro è quello della Posizione Comune su
Cuba.
Nel contesto dei rapidi cambiamenti della politica spagnola
nei confronti di Cuba, dopo il trionfo elettorale del Partido Popular nel 1996,
la Spagna ha presentato al Consiglio dei Ministri della UE, un progetto di
Posizione Comune su Cuba nell’ambito della Politica Estera e della Sicurezza
Comune. Questo documento si basava su tre assi fondamentali: interruzione della
cooperazione, chiusura di credito e dialogo con l’opposizione. C’erano
significative coincidenze tra questo documento e “l’elenco di misure”
presentato da Stuart Eisenstat, allora sotto segretario al Commercio degli USA,
durante il suo viaggio europeo nel settembre del 1996.
Benché la versione finale adottata dal Consiglio differisse
considerevolmente dall’originale spagnolo, per la prima volta stabilì in un
documento scritto, basato sul consenso degli Stati membri della UE, una
esplicita condizionalità a priori sullo sviluppo futuro della cooperazione
bilaterale UE-Cuba, subordinandola a sostanziali cambiamenti politici ed
economici.
Il Consiglio ha ratificato questa Posizione Comune, in
accordo con il procedimento stabilito dal suo testo, per dieci semestri
consecutivi.
4. Elementi per il dibattito
Il caso che si presenta in questo articolo è rilevante ai
fini di dimostrare l’inefficacia delle condizioni politiche imposte dalla UE
alla cooperazione.
La UE non è riuscita ad imporre a Cuba i suoi obiettivi di
riforma. Inoltre, la sua capacità di influenzare lo scenario interno dell’Isola
in termini comparativi si è ridotto. Come segnala Smith, la UE non può
esercitare alcuna influenza se non ha legami con il paese in questione. [10] Fino ad ora, la UE ha perso terreno per quanto riguarda le sue
possibilità di influenza su Cuba, a causa delle condizioni politiche che impone
all’Isola. Non ha alcun accordo di cooperazione con Cuba, il che significa che
non c’è nessuno strumento contrattuale che regoli le relazioni bilaterali a
medio o lungo termine e che la cooperazione è basata soltanto su alcune azioni
specifiche.
Altro valido esempio è il fatto che non c’è una
rappresentanza della Commissione Europea nel paese. Questo limita la presenza
politica della UE e può incidere sulla fluidità del dialogo politico -
recentemente ristabilito- così come sull’inserimento di Cuba nelle nuove
forme di gestione della cooperazione da parte della UE, in particolare il
decentramento da Brussels alle rappresentanze della Commissione nei vari paesi.
Questo processo deve riorientare la maggior parte della gestione degli aiuti, in
modo che avvenga in situ, entro la fine del 2003. Il fatto che la Rappresentanza
della Commissione Europea in Messico è quella che si occupa degli affari
cubani, mantiene lontane dalla realtà locale e dallo spirito della riforma
della Commissione le già scarse azioni di cooperazione della UE con Cuba. Nel
frattempo, gli USA, nonostante l’assenza di relazioni bilaterali con Cuba,
hanno una Sezione di Interesse a La Habana.
Evidentemente, Cuba non è una priorità per la UE. Almeno,
la sua importanza, per la politica estera della UE, è molto relativa e, per
tanto, insufficiente a porre in gioco la sua alleanza con gli USA. Questo è il
caso della legge Helms-Burton, per nominare un esempio attuale. Se accettiamo
che la cooperazione allo sviluppo tenda a essere molto più fortemente
condizionata per i paesi terzi meno importanti e che la priorità sia data a
considerazioni geopolitiche e ad interessi economici, diventa comprensibile come
Cuba sia l’unico paese dell’America Latina senza un accordo di cooperazione
con la UE. Inoltre, è l’unico ad essere oggetto di una Posizione Comune del
Consiglio.
Dal 1988 si è sempre cercato di imporre condizioni a Cuba,
prima della negoziazione formale di un accordo con la UE. Questo è un punto di
frizione fondamentale tra le due parti se si considera che questa forma di
applicazione delle condizionalità implica un trattamento differenziato, e
quindi discriminatorio, con riferimento a paesi terzi.
Le autorità cubane non accettano condizioni imposte da
potenze straniere, però la UE non ha mai saputo se sarebbero state d’accordo
con una clausola democratica simile a quella inclusa negli accordi di
cooperazione con l’America Latina. La ragione è che l’Isola non ha mai
avuto la possibilità di sedere ad un tavolo di trattative come partner alla
pari con la UE; questa stessa possibilità è stata legata al soddisfacimento di
prerequisiti politici.
Inoltre, Cuba ha dimostrato che è capace di accettare le
condizioni stabilite da una clausola democratica, quando queste hanno lo stesso
peso per entrambe le parti. In realtà, quando Cuba ha presentato richiesta di
adesione all’Accordo di Cotonù, lo ha accettato in tutte le sue parti,
inclusa la clausola degli elementi essenziali e la clausola degli elementi
fondamentali. Anche qui le precondizioni hanno portato all’interruzione del
processo, determinando la reazione del ricevente. Nella politica della UE verso
Cuba le considerazioni politiche e ideologiche hanno prevalso su quelle relative
allo sviluppo, il che può portare a pensare in termini di scenari negativi: uno
dei quali potrebbe essere che, se si arrivasse ad un accordo, anche se la UE
sembra essere restia a imporre misure negative forti, [11] si può
essere certi che sarebbe pronta a farlo rapidamente nel caso di Cuba.
L’incoerenza nell’applicazione delle condizionalità, da
parte della UE, è facilmente percepibile da vari punti di vista. Prendiamo ad
esempio il caso della Posizione Comune su Cuba, che si suppone giuridicamente
vincolante per gli Stati membri. Questo strumento ha rafforzato il paradosso
principale delle relazioni UE-Cuba: ciò che è buono/normale/accettabile per le
relazioni Stato-Stato non lo è in questo caso. In termini pratici: esistono
normali relazioni diplomatiche, commerciali e anche di cooperazione tra gli
Stati membri e Cuba, mentre la stessa cosa non si può dire per la UE. E’
difficile trovare una risposta convincente alla domanda di come questo può
accadere. Tuttavia, sono d’accordo nel vederci la via che usano gli Stati
membri per evitare la responsabilità di ridurre o sospendere gli aiuti.
[12] E può anche darsi che questa sia una delle ragioni per cui
nessuno crede più all’efficacia della Posizione Comune, che è mantenuta in
vigore grazie a una certa inerziadeterminatadalla sua difesa da parte della
Spagna del Partido Popular. La Posizione Comune è una trappola in cui è caduta
la UE, divenendo ostaggio di una politica che non può modificare a causa di due
o tre dei suoi Stati membri.
Tutto ciò rende evidente che gli interessi di Stati membri
isolati, ma influenti, possono determinare, a volte, l’atteggiamento dell’Unione
verso un terzo paese. Certamente, la Spagna è, nella UE, il paese più
coinvolto nelle relazioni con l’America Latina e in particolare con Cuba.
Nella misura in cui i suoi interessi in queste relazioni crescono o
diminuiscono, a seconda di ragioni diverse, la direzione della UE ne sarà
influenzata. Però, allo stesso tempo, essa può influenzare l’immagine dell’Unione.
L’applicazione di una politica dei diritti umani, basata sugli interessi
nazionali di alcuni dei quindici Stati membri riduce visibilmente la
credibilità della UE.
Nessuno sosterrebbe seriamente che, paragonata a molti altri
paesi del Terzo Mondo, Cuba non si impegni nel campo dei diritti umani. A
proposito, questo è riconosciuto “nei corridoi” delle istituzioni della UE
e delle cancellerie degli Stati membri. Quindi, non c’è giustificazione, alla
luce della politica dei diritti umani della UE, all’applicazione in questo
caso, o in qualsiasi altro, di un doppio livello basato su considerazioni
politiche e/o ideologiche.
Non ci sono aiuti Nord-Sud senza condizioni. Anzi, si può
dire che non ci sono aiuti senza condizioni nel mondo attuale. Quindi, la
questione se gli aiuti siano o meno incondizionati è secondaria, se paragonata
al come e su quali basi la condizionalità viene applicata, nella misura in cui
determina le reazioni del ricevente - fondamentalmente quando questo si trova
nella possibilità di scegliere - e la effettività della politica stessa.
In questo senso, vorrei riprendere la distinzione tra
condizionalità “normale” e a priori. La prima, indipendentemente da quali
possano essere le sue debolezze concettuali o etiche, è accettata legalmente e
con mutuo accordo dalle due parti che negoziano, almeno teoricamente, come
uguali. Questo tipo di condizionalità è una conseguenza dell’evoluzione
delle relazioni internazionali a partire dalla fine degli anni ottanta e fa
parte del comportamento dei donatori, siano essi paesi o organizzazioni
internazionali. Sarebbe poco realistico, per quanto più giusto, pretendere la
sua eliminazione dagli accordi di cooperazione Nord-Sud nella situazione
mondiale odierna, anche come eccezione concessa ad un paese particolare. L’unico
caso che si possa citare in questo campo è stato quello dell’accordo di
cooperazione di terza generazione UE-Messico negli anni novanta, l’unico a non
includere la clausola democratica. L’accordo attualmente vigente tra le parti
contiene la suddetta clausola.
Il secondo tipo di condizionalità caratterizza il
trattamento riservato a Cuba e ad alcuni altri paesi da parte della UE come un
meccanismo di pressione extra-negoziato. E’ molto più unilaterale e ingerente
della condizionalità contrattuale, e non necessariamente meno formale, a
seconda degli interessi del donante e, cosa più importante, non è conseguente
ad un accordo, ma viene imposta secondo la logica del “tutto o nulla”. Di
fatto, è molto più condizionante e costituisce una formula discriminatoria.
Alcuni specialisti obiettano a quanto segnalato partendo dall’esempio dei
paesi dell’Europa dell’Est candidati all’adesione e ai così detti criteri
di Copenhaghen, in realtà condizioni a priori o prerequisiti veramente
intrusivi. In questo senso si potrebbe commentare parendo da due elementi: in
primo luogo, si sta parlando qui della partecipazione ad una organizzazione
transnazionale che ha le sue regole già stabilite, indipendentemente dagli
adattamenti di cui siano stati oggetto. In secondo luogo, i candidati hanno
accettato le condizioni, probabilmente perché lo stimolo del così detto “ritorno
in Europa” e dell’appartenenza con diritto di voto e di parola ad un club
che prende decisioni di risonanza mondiale, ha per loro sufficiente importanza.
O, a volte, perché non possono fare diversamente.
Ultimo elemento, ma non ultimo per importanza, è che la
stessa UE non sempre soddisfa le norme di comportamento che vuole imporre ai
riceventi. Ciò è evidente paradossalmente in ambiti come la firma di
convenzioni internazionali sui diritti umani. Un paragone tra Cuba, la UE e gli
USA per quanto riguarda strumenti di questo tipo firmati nell’ambito della
Organizzazione Internazionale del Lavoro (15), UNESCO (2), Croce Rossa
Internazionale (7) e Nazioni Unite (30) mostra un chiaro predominio di Cuba.
A iniziare da questo, è la UE quella che stabilisce i
parametri di ciò che deve essere ottenuto dai paesi riceventi, anche se “giudicare
se un paese soddisfa i criteri è cosa assolutamente soggettiva. Quali sono i
diritti umani e i principi democratici che devono essere considerati più
importanti? ( ... ) Quale è il livello minimo di democraticità richiesto per
soddisfare le condizioni stabilite? Quali diritti umani devono essere rispettati
come priorità?” [13]
Le stesse istituzioni europee hanno riconosciuto che la UE
manca di democrazia. In termini reali, la condizionalità permette semplicemente
alla Comunità di obbligare i riceventi a soddisfare i propri desideri.
[14]
[1] Per
condizionalità (o condizionamenti) positive si intendono quelle secondo le
quali il donatore promette qualcosa in cambio del soddisfacimento di determinate
condizioni da parte del ricevente. A sua volta, le condizionalità negative
consistono nell’applicazione di mezzi punitivi (sospensione degli aiuti,
ritiro della cooperazione e simili) come conseguenza del non rispetto da parte
del ricevente delle condizioni a cui si era impegnato.
[2] Smith, Karen Elizabeth. The use of Political
Conditionality in the EU’s Relations with Third Countries: How Effective? EUI
Working Papers, 1997.
[3] Trattato della
Unione Europea e Trattato Costitutivo delle Comunità Europee. Ed. Tecnos,
Madrid, 1994, 3ª Ed.., p. 264
[4] Betz,
Joachim. “Democrazia e sviluppo. La democratizzazione porta alla crescita
economica?”. D+C, n. 4, Francoforte, luglio/agosto, 1995.
[5] Brown,
Stephen. “Donors’Dilemmas in Democratization: Foreign Aid and Political
Reform in Africa”. Dissertation Abstract.
[6] The Carnegie Endowment for International
Peace. 2001. “Democratic Conditionality for Development Assistance?”.
Roundtable on democracy promotion at the Carnegie Endowment. June 27.
[7] Smith: Op.
Cit., p.8.
[8] Vedi Smith: Op. Cit.., pp.
27-36
[9] Europe Bulletin, Agence Europe, n. 6723, Brussels,
Wednesday 8 May 1996, p. 8
[10] Smith:
Op. Cit., p. 34
[11] Ibid., p. 31
[12] Ibid., p. 7
[13] Citato Ibid. , p. 8
[14] Finlay, Roisin: The Development of EU Humanitarian Aid Plocies Since the
Maastricht Treaty”. Political and Economic Review. University of Limerick,
1999