1. Le origini: la "new economy" di 100 anni fa [1]
"Siamo appena all’alba di un grandioso movimento di
capitali, di masse, di lavoro. Mi sbaglierò, ma l’automobile segnerà
l’inizio di un rinnovamento sociale dalle fondamenta"
(Giovanni Agnelli, 1901)
La FIAT nacque l’11 luglio 1899 per iniziativa di due nobili
torinesi con nomi da operetta, Roberto Biscaretti di Ruffia ed Emanuele
Bricherasio di Cacherano, che decisero di impiantare anche in Italia una
fabbrica di autovetture sportive. All’iniziativa, che coinvolse una trentina di
nobili e borghesi, partecipò anche un ricco proprietario terriero che
rispondeva al nome di Giovanni Agnelli. Il capitale sociale, piuttosto
consistente per l’epoca, ammontava a 800.000 lire. Nel 1902 Agnelli viene
nominato amministratore delegato, e nel 1903 viene decisa la quotazione in Borsa
della società.
Al momento della quotazione, il bilancio della società era
in attivo, pur essendo la FIAT in un mercato in cui non vi erano consistenti
barriere all’entrata: la produzione automobilistica era infatti a carattere
semi-artigianale, e all’inizio del secolo erano ormai una sessantina le imprese
attive in Italia in questo settore (a fronte di appena 6.000 automobili in
circolazione). Si trattava comunque di un settore di avanguardia, che come tale
attirava gli speculatori di borsa. In effetti le quotazioni delle azioni FIAT
presero a crescere vertiginosamente, tanto che si dovette fare uno split
azionario, riducendo il taglio minimo delle azioni (da 200 lire a 25). Questa
operazione (la stessa che ha compiuto Tiscali nel 1999) fece sì che le azioni
divenissero alla portata anche dei "piccoli capitalisti" (così si
espresse il presidente della società), e questo fece crescere ulteriormente i
corsi della FIAT: sta di fatto che il titolo FIAT, del valore nominale di 25
lire, ai primi di marzo del 1906 era negoziato in borsa al prezzo di 2.500 lire.
A questo punto, colpo di scena: grazie al boom di borsa vengono acquisite altre
aziende, la vecchia società viene liquidata, e ne viene creata una nuova, della
quale Agnelli è il principale azionista; un terzo circa del capitale sociale è
di proprietà di qualche centinaio di piccoli azionisti, mentre i soci originari
sono ormai tagliati fuori dalla società.
L’operazione di ristrutturazione societaria arriva appena in
tempo per consegnare il potere della società nelle mani di Agnelli:
nell’autunno dello stesso anno, infatti, la bolla speculativa scoppia e le
quotazioni precipitano sino a 17 lire per azione; i debiti della società,
invece, crescono sino a raggiungere i 10 milioni di lire, una cifra superiore al
capitale sociale. Comunque sia, la società viene salvata, attraverso un
consorzio di banche e aziende creditrici con a capofila la Banca Commerciale: il
capitale della società, però, viene azzerato e ricostituito. In questo modo i
1.300 piccoli azionisti che avevano investito in azioni FIAT perdono tutti i
loro soldi. Nel frattempo emergono pesanti indizi circa la falsità dei bilanci
dell’epoca del boom borsistico. Agnelli e altri membri del Consiglio di
Amministrazione vengono così denunciati per "illecita coalizione,
aggiotaggio e alterazione dei bilanci sociali". Il processo, caratterizzato
da pesanti pressioni politiche, si chiuderà nel 1912 con un’assoluzione
(confermata in appello nel 1913).
All’epoca del proscioglimento Agnelli era già uno dei
capitalisti italiani emergenti: rafforzata la sua posizione nell’azienda, aveva
cominciato ad integrare la produzione (prima dispersa in diversi stabilimenti e
tra vari subfornitori), acquisito altre imprese, avviato la fabbricazione di
motori d’aviazione, per navi, e soprattutto la costruzione di autocarri, che
aveva consentito di lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione
della guerra di Libia (1911). Ma, soprattutto, aveva intuito che soltanto la
produzione in serie di modelli e la loro standardizzazione avrebbe consentito di
abbattere i costi di produzione e di conquistare un mercato più vasto di quello
a cui si rivolgevano concorrenti come l’Itala, l’Alfa, l’Isotta Fraschini: nasce
così il modello "Tipo zero" della FIAT, di fatto l’equivalente
italiano del modello "T" della Ford (i cui stabilimenti Agnelli aveva
visitato nel 1906). Dal punto di vista dell’organizzazione della produzione, le
officine vengono ampliate e si cominciano ad introdurre, sia pure a livello
embrionale, i principi del taylorismo e del fordismo: al 1912 risale il primo
progetto di utilizzo della catena di montaggio. Si tratta di una
razionalizzazione del processo di lavoro nella quale gli industriali vedono tra
l’altro la possibilità di ridimensionare il potere di intervento della classe
operaia nei processi produttivi e la sua forza negoziale [2]. In effetti già nel 1912 ai lavoratori viene imposto un nuovo
contratto di lavoro fortemente peggiorativo dal punto di vista delle garanzie,
mettendo al bando gli "scioperi impulsivi", annullando le competenze
delle Commissioni Interne, e cercando di imporre trattative individuali con
l’azienda: soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, nel 1913, la
FIOM otterrà il diritto di rappresentanza dei lavoratori e il riconoscimento
della contrattazione collettiva, alla FIAT come nelle altre fabbriche.
2. La guerra e i suoi profitti
La FIAT chiuse il bilancio del 1913 con risultati positivi.
Già negli ultimi mesi dell’anno, però, cominciarono ad avvertirsi segnali
preoccupanti per quanto riguarda il mercato automobilistico. "Dalla seconda
metà del 1913 avevano cominciato a farsi sentire con più intensità i venti
freddi della concorrenza straniera, specialmente dell’industria americana ormai
in grado di sfornare mezzo milione di vetture all’anno. Da allora le vendite
erano rallentate e le esportazioni della FIAT avevano subito un forte calo.
Perciò la domanda connessa alla motorizzazione pubblica, ed in particolare a
quella militare, era l’unico fattore che consentisse una crescita della
produzione tale da assicurare concreti vantaggi dimensionali e quindi reali
economie di scala". [3]
La domanda connessa alle spese militari crebbe ovviamente in
misura enorme con la mobilitazione bellica e l’entrata in guerra dell’Italia,
nel maggio del 1915. Non può quindi stupire che i dirigenti della FIAT (più
ancora di Agnelli il presidente della società, Dante Ferraris), appoggiassero i
nazionalisti e gli interventisti, foraggiando direttamente le loro case editrici
ed i loro giornali, tra cui il "Popolo d’Italia" di Mussolini. La FIAT
e le sue consociate contribuirono alla grande carneficina del primo conflitto
mondiale in molti modi: producendo mitragliatrici, proiettili, motori per
sommergibili e per aeroplani, aeroplani. Ma, ovviamente, fu in primo luogo
l’industria automobilistica a giovarsi delle commesse belliche. I primi
ordinativi, per 1.700 autoveicoli militari, giunsero alla FIAT nel settembre
1914. Nel corso del conflitto la produzione raggiunse i 56.000 veicoli.
Il numero degli operai FIAT raddoppiò durante la guerra
giungendo alle 40.000 unità. Alla loro disciplina ci pensavano le autorità
militari, con la sospensione degli scioperi, l’invio al fronte in caso di
infrazioni disciplinari e l’applicazione della legge marziale; nonché,
ovviamente, con l’annullamento delle conquiste precedenti. Ma nel corso del
conflitto crebbero vertiginosamente soprattutto i profitti (anzi, come si disse
all’epoca, i "sovraprofitti di guerra"). Basti pensare che, a fronte
di un capitale sociale di 17 milioni, durante la guerra furono distribuiti
dividendi agli azionisti per un valore di 19 milioni, a cui vanno aggiunte le
distribuzioni gratuite di azioni ai soci. [4] Cosicché già nel 1917 il patrimonio personale di
Agnelli ammontava a 50 milioni, con una quota di capitale della FIAT pari al
10,4%.
3. Il dopoguerra, l’occupazione delle fabbriche, il fascismo
"Il problema che ponevano i consigli di fabbrica era
il problema del potere... Quando eravamo arrivati alla occupazione delle
fabbriche, le commissioni interne e i consigli di fabbrica avevano dimostrato
di essere capaci di amministrarle. L’elemento che ha spaventato maggiormente i
padroni del vapore è proprio questo: che gli operai, legati a una parte di
tecnici, riescono a dirigere, a mandare avanti le fabbriche"
(B. Santhià, operaio metalmeccanico e
membro dei Consigli di fabbrica)
All’indomani dell’armistizio, la FIAT era al terzo posto per
capitalizzazione tra le industrie italiane, mentre prima della guerra si trovava
al trentesimo posto. Di fatto, come osservò Luigi Einaudi, ormai la FIAT era
giunta ad occupare il primo posto in Europa per la produzione su vasta scala di
veicoli a motore e "doveva essere annoverata tra i più potenti complessi
industriali del mondo".
Il dopoguerra però vide una pesante crisi economica
accompagnata da una forte inflazione. Di fatto la necessità di una rapida
riconversione dell’apparato industriale dalla produzione bellica mise in
ginocchio molte imprese (tra cui l’Ansaldo, che fallì nel 1921). La FIAT si
trovò in acque migliori di altre industrie, ma anch’essa si trovò a far fronte
ad un forte indebitamento. Per questo nel 1919 tentò la scalata al Credito
Italiano, e soltanto un intervento diretto del governo la costrinse a venire a
più miti propositi e rivendere (peraltro con ricca plusvalenza) le azioni della
banca milanese che deteneva. Ad ogni modo, il problema più rilevante che
l’impresa torinese si trovò ad affrontare in quegli anni non riguardava i
giochi di potere nel gotha finanziario italiano: nel 1919-1920 esplose infatti
il movimento dei Consigli di Fabbrica, ispirato all’Ottobre sovietico ed ai
tentativi di costruire repubbliche dei consigli in Germania ed Ungheria. La
classe operaia torinese tentava di prendere possesso delle fabbriche, di
gestirle direttamente, e di giungere più in generale all’"estinzione
dell’assetto capitalistico della produzione". In questa battaglia la base
operaia - affiancata dal movimento dell’"Ordine Nuovo" di Gramsci -
espresse posizioni più avanzate tanto del partito socialista che della FIOM,
giungendo ad assumere il controllo delle Commissioni Interne di fabbrica,
creando i Consigli di Fabbrica e facendone uno strumento di lotta politica e
sociale, anziché di pura e semplice rivendicazione economica. Lo scontro, tra
alterne vicende, ebbe il suo apice con l’occupazione delle fabbriche, iniziata
il 31 agosto 1920 e durata circa un mese. L’esperimento di "autogoverno
operaio" tentato a Torino fu di fatto uno dei momenti più avanzati della
lotta del movimento operaio non soltanto in Italia, ma in Europa.
Ripreso il controllo delle fabbriche, grazie all’approvazione
di un accordo civetta siglato dai sindacalisti riformisti della CGdL sul
controllo "congiunto" (!) delle fabbriche da parte di operai e
padroni, iniziò puntualmente la repressione: nel marzo-aprile del 1921 furono
licenziati più di 4.000 operai, in buona parte comunisti. Ma si era soltanto
all’inizio della controffensiva reazionaria: il 25 aprile dello stesso anno i
fascisti, pagati dagli industriali e protetti dalla forza pubblica, davano fuoco
alla Camera del Lavoro di Torino.
È però importante rilevare che la piena ripresa del
controllo padronale alla FIAT ebbe luogo tanto con le armi della repressione (i
licenziamenti politici e l’uso del terrore fascista), quanto con quelle della
riorganizzazione tecnica del processo produttivo in base ai principi del
taylorismo e del fordismo: alla fine del 1922 entra in piena attività il nuovo
stabilimento del Lingotto. Per intendere le caratteristiche del lavoro operaio
nella nuova fabbrica bastano le parole di un servizio pubblicato nel maggio 1923
da "la Stampa" di Torino (già allora di proprietà di Agnelli):
"l’operaio è una specie di cellula assegnata a un dato posto. Molte volte
non ha più di uno o due metri quadrati di spazio per muoversi. Non ha bisogno
di muoversi, non deve. Ogni movimento suo inutile rappresenterebbe una perdita o
distruzione di energia. Il pezzo di sua lavorazione giunge a lui lungo un
piccolo binario ricco di rulli: giunge sotto la spinta d’un braccio vicino, è
lavorato, e sotto un’altra spinta riparte e va da un altro operaio a farsi
raffinare o aggraziare". Di fatto, iniziava il processo per cui la figura
dell’operaio di mestiere sarebbe stata gradualmente soppiantata dall’addetto
macchine, specializzato in un’unica mansione di carattere esecutivo. Si apriva
così una fase che si sarebbe chiusa soltanto alla fine degli anni Settanta (ed
in effetti soltanto nel 1982 fu abbandonata la produzione al Lingotto).
Per quanto riguarda i rapporti di Agnelli e della FIAT con il
fascismo, si sono fatti, anche di recente, molti sottili distinguo, sostenendo
che Agnelli sarebbe in fondo sempre rimasto un giolittiano, e facendo discendere
il suo appoggio al fascismo dal fatto che gli industriali - come diceva lo
stesso Agnelli - sono "ministeriali per definizione". [5] I fatti sono
questi: nel maggio 1922 Agnelli (come del resto gli altri industriali e persino
un nume del liberalismo italiano come Luigi Einaudi) approvò il programma
economico del Partito Fascista. Nel marzo del 1923, neppure 6 mesi dopo la
marcia su Roma, Giovanni Agnelli - unico tra gli industriali - fu nominato
senatore da Mussolini. Nell’ottobre dello stesso anno Mussolini visitò il
Lingotto. Il suo discorso fu applaudito soltanto da Agnelli, dalle altre
personalità invitate e da alcuni impiegati: evidentemente, a differenza degli
industriali, gli operai non vedevano motivi per essere "ministeriali per
definizione".
4. Il regime fascista e la guerra d’Etiopia
"Il tempo sinistro del sovversivismo distruttore, che
da noi culminò nell’episodio tragico dell’occupazione delle fabbriche, è
passato per sempre... Sorse Mussolini, il liberatore e il ricostruttore, e
l’Italia che non poteva morire fu tutta con lui"
(pubblicazione della FIAT degli Anni Trenta)
Sotto il regime fascista la FIAT prosperò. Aveva bisogno
della "pace sociale" in fabbrica, di politiche protezionistiche e di
commesse statali: ebbe tutte e tre le cose. Ovviamente, bisognava dare qualcosa
in cambio: ad esempio i finanziamenti a "il Tempo" prima, ed al
"Corriere Italiano" poi; nel 1924 l’appoggio al "listone"
governativo; i finanziamenti di Edoardo Agnelli (figlio di Giovanni) agli
squadristi. Ma vediamo più da vicino i capitoli dell’avere.
La pacificazione delle fabbriche fu garantita innanzitutto
dal Patto di Palazzo Vidoni, firmato da Governo e Confindustria il 2 ottobre
1924, che sanciva lo scioglimento delle Commissioni Interne ed attribuiva alle
corporazioni fasciste l’esclusiva della rappresentanza sindacale. [6] E sin dal 1929 fu introdotto nella fabbriche il cosiddetto
"sistema Bedaux" (di controllo cronometrico delle lavoro), che
consentiva un’intensificazione dei ritmi di produzione ed una consistente
riduzione dei cottimi. Di fatto, i salari operai risultarono nel 1934 inferiori
anche del 20% rispetto a quelli del 1931. In questo senso, il regime fascista
indubbiamente garantì, come si espresse lo stesso Agnelli, "una fattiva
disciplina del lavoro".
Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace
contro le importazioni di automobili straniere, in particolare americane. Il
regime doganale, che nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle
automobili straniere, fu poi integrato, a partire dal 1928, da misure quali
l’esenzione per la FIAT da tasse sull’esportazione, e l’esenzione da dazi sui
materiali necessari alla costruzione delle autovetture. A questo proposito il
ministro dell’economia nazionale scrisse a Mussolini nel maggio del 1928 queste
testuali parole: "Il Ministero dell’Economia Nazionale, d’accordo con
quello delle Finanze, ha usato la più grande larghezza possibile nel concedere
alle fabbriche d’auto numerose e importanti agevolazioni doganali... Si è fatto
accogliere un provvedimento di favore, che per nessun’altra industria era mai
stato adottato". Ma tutto questo non era ancora sufficiente. Così, dopo
aver impedito un accordo tra la Ford e la Isotta Fraschini con il pretesto che
l’industria automobilistica era "industria basilare per la difesa
nazionale" (1929-1930), il governo elevò i dazi al 100% (1930), e infine
giunse a vietare l’importazione e l’uso in Italia di automobili di fabbricazione
estera. Nonostante ciò, la crisi del 1929 colpì duramente la FIAT: nel 1930 al
Lingotto l’occupazione era scesa sotto le 8.000 unità, e la produzione era
crollata a meno di 19.000 vetture. Dal 1929 al 1931 le quotazioni delle azioni
FIAT persero il 70%. Né valsero a risollevare le sorti del gruppo torinese il
lancio della "Balilla" o della "Topolino". La soluzione fu
un’altra: le commesse militari.
[1] Questa
ricostruzione storica delle vicende della FIAT, dalla nascita ai giorni nostri,
è la prima parte di una ricerca sulle grandi famiglie del capitalismo italiano,
che continuerà nei prossimi numeri di Proteo.
[2] Il presidente della
Lega industriale (e segretario del Consorzio automobilistico), Gino Olivetti,
affermò esplicitamente che potenziamento delle macchine e razionalizzazione
della produzione avrebbero permesso "il superamento delle difficoltà tanto
sindacali quanto tecniche" e "ridotto ad un grado molto basso
l’influenza della capacità dell’operaio nella produzione" (v. V.
Castronovo, FIAT 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano, Rizzoli, 1999,
p. 74).
[3] V. Castronovo, cit., pp. 83-84.
[4] Vedi G. Mori, "La Fiat dalle
origini al 1918", in Il capitalismo industriale in Italia, Roma, Editori
Riuniti, 1977, pp. 131-2.
[5] Particolarmente
insistiti gli sforzi in tal senso di V. Castronovo nella storia della FIAT già
citata. Tale storia, ad avviso di chi scrive, rappresenta una grande occasione
sprecata: l’abbondante materiale documentario di cui si avvale viene infatti
posto al servizio di un impostazione sostanzialmente agiografica.
[6] A questo
riguardo giova ricordare che, ancora tra la fine del 1923 ed il maggio 1924,
nelle votazioni per le Commissioni Interne alla FIAT, la FIOM aveva raccolto un
numero di voti 5 volte superiore a quelli della Corporazione fascista, eleggendo
delegati in gran parte comunisti. Non per caso, quando Agnelli andava a Palazzo
Venezia, Mussolini soleva dire che dietro il senatore gli sembrava di vedere
"trentamila operai della Fiat come i fichi: neri fuori e rossi
dentro".