Per una compatibilità ecologica e sociale dell’attività produttiva
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Cestes ripropone con forza la necessità di una legge per il bilancio socio-ambientale d’impresa [1] |
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1. Produzione e ambiente
Vi è ormai una chiara consapevolezza del problema socio-ambientale
e della necessità di non danneggiare in modo irreversibile il mondo che ci circonda,
anche perché si è assunta pressoché generalmente la filosofia e il conseguente
modo di operare secondo il quale non essendo l’umanità dotata di risorse illimitate,
un uso spropositato delle ricchezze naturali può avere conseguenze fatali sulla
sopravvivenza stessa della specie umana.
In questi ultimi anni si è recepita pienamente la preoccupazione
per il degrado ambientale e si sono adottati dei comportamenti sempre più tesi
a garantire la crescita di una domanda “ambientalista” arrivando così a sovvertire
le principali regole del marketing. L’inquinamento ambientale è un problema
sentito dalle popolazioni di tutti i paesi industrializzati e vi è una presa
di coscienza delle problematiche legate all’ambiente presente ormai in tutti
i ceti della società, coinvolgendo impiegati, professionisti e persone di ogni
fascia di età, tutti in veste di consumatori che chiedono soluzioni definitive.
Nel nostro Paese la legislazione esistente è piuttosto caotica
in quanto i “principi ambientali” sono entrati a far parte del nostro ordinamento
molto spesso, in seguito a delle vere emergenze o al più per recepire alcune
direttive comunitarie. Per quanto riguarda più da vicino la legislazione italiana,
va segnalato che già all’art. 32 della Costituzione ( il quale cita testualmente
: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività”, e all’art. 9 “La Repubblica promuove lo sviluppo
della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio
storico e artistico della Nazione”) pone in rilievo l’importanza della questione
ambientale. E’ chiaro comunque che alle problematiche ambientali non viene riconosciuta
la giusta e rilevante dignità di scelte di politica economica, poiché prevalgono
finalità prettamente economiciste di difesa e rafforzamento dell’attuale modello
economico. Non vi è alcun senso critico e di volontà di superamento degli squilibri
sociali ed ecologici causati proprio dalla logica del perseguimento a tutti
i costi del profitto, mentre la crisi socio-ambientale planetaria spinge affinché
si realizzino definitive linee di politica economica che siano capaci di riconsiderare
le scelte in funzione di un’equa redistribuzione e diffusione sociale di una
ricchezza prodotta nel rispetto del diritto ad un equilibrio sociale ed ecologico,
in un ambiente vivibile.
E’, infatti, prioritario assumere la problematica impresa-ambiente
come funzione di interscambio a valenza strategica, a partire già da una prima
analisi riguardante l’ambiente in cui si svolge l’attività produttiva, in relazione
soprattutto alla sicurezza e alla salubrità delle condizioni di lavoro, ai risvolti
occupazionali e alle dinamiche che la politica socio-ambientale d’impresa innesca
complessivamente nel mercato del lavoro e nelle relazioni economiche ed etiche
connesse al tempo liberato.
A tal proposito è importante valutare se e in quale modo una
politica ambientale influenzi l’occupazione in termini di contrazione, di crescita,
o più in generale di riduzione di tempo sociale del lavoro. Più in generale
la cultura socio-economica di mercato non è di per sé né ecocompatibile né ecosolidale
e pertanto non può favorire la creazione di lavori socialmente utili di tipo
non mercantile. E’ quindi necessario che lo sviluppo di corrette politiche socio-ambientali
d’impresa possano essere orientate da nuove e coraggiose politiche economiche
generali che permettano di realizzare cambiamenti parziali ma significativi
nell’ottica della costruzione di un diverso modello di sviluppo capace di generare
nuova e diversa occupazione, diversa ricchezza, di modificare i prodotti, i
modi di produzione e del vivere sociale; un modello quindi che punti alla distribuzione
del lavoro e del reddito, all’incremento della ricchezza sociale, alla qualità
della produzione e più in generale al miglioramento della qualità della vita.
Va considerato che il possibile conflitto tra le esigenze della
collettività e le scelte aziendali, unito all’incertezza scientifica dei flussi
informativi e dei connessi processi decisori e comunicazionali, rendono difficile
l’attuazione di linee strategiche complessive riguardanti l’incremento che l’impresa
dovrebbe saper e voler realizzare sul valore del patrimonio socio-ambientale
complessivo. Quello che è in discussione è infatti lo stesso generale modello
di sviluppo di mercato che punta esclusivamente all’obiettivo del profitto e
di competitività che non può per sua natura essere ecosolidale.
2. Globalizzazione capitalistica e devastazione del patrimonio
socio-naturale collettivo
Ecco che riemerge la necessità ormai economicamente e storicamente
non più rinviabile di innescare processi di costruzione graduale di progetti
di mutamento socio-economico dell’attuale modello di sviluppo, progetti magari
parziali ma che comincino a dare risposte in chiave di ridefinizione del rapporto
tra patrimonio collettivo, interessi economici privati d’impresa e rispetto
dei diritti socio-economici della collettività. Ci troviamo in una fase di emergenza
in cui sono sempre più grandi i fenomeni di distruzione ad opera del capitale
di ogni forma di legame con la natura, con l’ambiente, con le compatibilità
sociali. La globalizzazione dei mercati, delle produzioni sta portando sempre
più l’uomo verso una fase di annientamento di ogni forma di spazio vitale, a
partire dalla crescente alienazione del lavoro umano che viene ad essere sempre
più spesso sostituito con macchinari sofisticati. Ciò oltre a provocare la completa
e irresponsabile devastazione del patrimonio naturale collettivo, colpiscono
la qualità della vita, accrescendo le varie forme di accumulazione del capitale,
distruggendo lavoro attraverso gli incrementi di produttività che si traducono
solo in profitti senza migliorare i salari, aumentare l’occupazione e diminuire
realmente l’orario di lavoro complessivo producendo tempo liberato.
Poche grandi strutture transnazionali (le imprese multinazionali,
le grandi Banche ecc.) dominano completamente la scena internazionale ed impongono
ai popoli la propria logica di raggiungimento del profitto ad ogni costo; questo
stato di cose ha portato alla progressiva eliminazione di ogni forma di garanzia
sociale, di Stato sociale che tuteli i settori più emarginati, i non garantiti,
gli esclusi dai processi di produzione incentrati sulle leggi di mercato.
E’ ovvio infatti che la corsa sfrenata all’arricchimento dei
pochi, sta portando l’umanità verso strade catastrofiche che possono avere conseguenze
umane e sociali non più controllabili. Basti pensare al disastro legato allo
sfruttamento e neo-colonizzazione del Terzo Mondo, in cui non esiste alcun tipo
di protezione del lavoro e dell’ambiente, per comprendere quale sia l’effettiva
portata del problema.
I vari settori produttivi provocano impatti socio-ambientali
molto diversi; il settore agricolo, ad esempio, è caratterizzato da un elevato
effetto negativo sull’ambiente sia che si consideri la realtà dei paesi a capitalismo
avanzato sia quelli in via di sviluppo sottoposti a forme varie di moderna colonizzazione.
Si rifletta sulle varie forme di inquinamento fortemente causato dall’uso indiscriminato
di pesticidi e fertilizzanti, all’erosione dei territori, ai problemi legati
alla desertificazione e distruzione delle grandi foreste. Se si analizza l’attività
industriale ci si rende conto che il problema è ancora più grande; gli effetti
di impatto ambientale della produzione riguardano l’aria, il rumore, i rifiuti,
l’acqua. In questo settore è ancora più marcata la differenza comportamentale
tra i diversi paesi, poiché i vari modelli di capitalismo utilizzano, o meglio
determinano, i fattori di sviluppo compatibilmente ai locali rapporti di forza
fra lavoro e capitale, assoggettando e modellando i vari sistemi di legislazione
ambientale e sociale in modo che gli ostacoli ai processi di accumulazione siano
inesistenti o comunque poco condizionanti. In tale contesto anche le tecnologie
impiegate e l’evoluzione dei processi produttivi sono determinati senza tener
in alcun conto la necessità di sviluppare processi di miglioramento qualitativo
del lavoro e del vivere collettivo, ostacolando qualsiasi intento di mirare
alla conservazione del patrimonio naturale e all’incremento di valore sociale
della ricchezza anche non direttamente monetizzabile o quantificabile attraverso
parametri tipici dell’economia di mercato (valore aggiunto, PIL, ecc.)
3. Per una contabilità d’impresa con contenuti socio-ambientali [2]
Come gli indicatori di gestione sono necessari per ottenere
informazioni sullo stato di salute dell’impresa dal punto di vista economico,
finanziario e patrimoniale, così dal punto di vista dell’impatto sociale complessivo
dell’attività produttiva sono fondamentali gli indicatori di performance
socio-ambientale che permettono di analizzare i rapporti che legano l’impresa
al macrosistema ambientale complessivamente inteso.
Questi strumenti sintetici di natura qualitativa e quantitativa,
costruiti attraverso semplici rapporti, permettono di effettuare un confronto
rapido ed efficace sugli aspetti socio-ambientali connessi all’attività d’impresa
che la contabilità tradizionale non consente di analizzare. Tali indicatori
di performance ambientale, infatti, comprendono tutti i dati e le informazioni
necessarie a valutare l’efficacia dell’attività di un’impresa in termini di
ricadute sociali globali e di contributo a raggiungere uno sviluppo socio-eco-compatibile.
Una definizione di indicatore socio-ambientale può essere quella
di “strumento di analisi necessario ai fini di uno studio di diagnostica sociale
dell’impresa”. [3] Questa definizione fa capire la numerosità di indicatori
sociali che possono essere proposti, oltre che la loro disomogeneità e variabilità.
Un problema che sorge in merito alla determinazione e costruzione di questi
indicatori è la mancanza di una classificazione omogenea riconosciuta in modo
univoco che possa essere utilizzata “universalmente” per la contabilità sociale.
E’ importante sottolineare però le caratteristiche principali che questi indicatori
devono necessariamente possedere; i valori che esprimono dovranno infatti essere
oltre che obiettivi e dimostrabili anche e soprattutto significativi, omogenei
e comparabili.
Dalla contrapposizione dei costi e benefici a valenza sociale
si può arrivare a determinare una sorta di reddito sociale netto per il personale,
la comunità e il pubblico in generale. Le informazioni necessarie
per redigere una corretta contabilità sociale dovrebbero riguardare la struttura
del personale (numero dei dipendenti, divisi per sesso, età, qualifica,
ecc.), il costo del personale (ammontare delle retribuzioni, tariffe
orarie applicate, eventuale partecipazioni agli utili dei lavoratori, ecc.),
informazioni riguardanti le formazione e l’addestramento (spese totali
per la formazione, incidenza di queste spese sul totale delle retribuzioni,
indicazioni della frequenza con la quale i lavoratori partecipano a tali corsi,
ecc.), informazioni riguardanti le malattie e gli infortuni (numero ore
assenza per malattia, tipi di infortuni e loro frequenza in azienda, spese per
la sicurezza sul lavoro, ecc.), informazioni riguardanti il tempo di lavoro
(ore di lavoro effettuate ed ore di lavoro previste dai contratti personali,
orari medi settimanali, ore di lavoro straordinario, numero lavoratori part-time
ecc.), informazioni riguardanti le condizioni fisiche del lavoro (indicazioni
dei valori delle sostanze inquinanti nell’aria, rumore,ecc.), informazioni riguardanti
le relazioni industriali e le opere sociali attuate dall’impresa a favore
dei lavoratori (ore di assenza per motivi sindacali, cause, ricorsi e istanze
dei lavoratori verso l’azienda, spese sostenute per mense, alloggi, mezzi di
trasporto, benefit in genere, ecc.).
L’applicabilità di tali indicatori può considerare ed interessare
tutti i settori produttivi; per fare alcuni esempi basti ricordare le aree riguardanti:
1) la produzione di rifiuti, di emissioni gassose, di effluenti;
2) il livello dei contaminanti nell’aria, nell’acqua e nel
terreno;
3) l’esposizione dell’uomo alle sostanze tossiche sia all’interno
che all’esterno dei luoghi di lavoro;
4) i rischi di incidenti connessi direttamente o indirettamente
ad attività produttive;
5) il grado di utilizzo e di ripristino delle risorse rinnovabili,
6) il consumo di risorse non rinnovabili;
7) i rapporti tra attività economiche e ambiente. [4]
In particolare per le ricadute dell’attività d’impresa sul
patrimonio naturale, per far fronte alle suddette esigenze si è soliti distinguere
due tipi di indicatori ambientali: gli indicatori di impatto ambientale
e gli indicatori di performance ambientale.
Si effettua questa distinzione per il diverso significato della
misurazione delle attività di un’impresa in relazione al suo impatto sul patrimonio
naturale; infatti mentre è possibile misurare in termini di uso delle risorse,
delle emissioni, dei rifiuti prodotti ecc. l’attività di un’impresa, per effettuare
una rilevazione del suo impatto complessivo sull’ambiente è necessario effettuare
delle valutazioni soggettive, delle stime che accertino le conseguenze provocate
dalla gestione produttiva.
A questo proposito va ricordato che gli indicatori di impatto
ambientale analizzano le ricadute dell’attività produttiva sull’ambiente
attraverso una determinazione delle grandezze fisiche che si riferiscono
alla produzione dello stabilimento, come ad esempio, l’effetto serra, il livello
di tossicità per la salute umana, per la fauna, per la flora,ecc..Tali indicatori
possono essere determinati da un punto di vista fisico e da un punto
di vista monetario.
Gli indicatori fisici calcolano il contributo dell’impresa
al cambiamento delle condizioni ambientali a livello sia locale sia globale
e costituiscono una ulteriore misura dell’efficienza dell’azienda nella propria
gestione delle risorse. Per la costruzione di questi indicatori il metodo più
usato a tutt’oggi è quello di collegare i flussi fisici ad alcuni effetti sulla
salute umana, sugli ecosistemi e sull’impoverimento delle risorse presenti in
natura. Si avrà quindi in primo luogo una classificazione dei flussi
fisici sulla base degli effetti che producono sull’ambiente; si procede poi
ad una caratterizzazione di questi flussi fisici prendendo in considerazione
gli impatti ambientali riguardanti l’effetto serra, la diminuzione della fascia
di ozono, la tossicità con i pericoli derivanti agli uomini, alla vegetazione
e agli animali, l’energia, i rifiuti, lo smog, ecc.. Infine vi è la valutazione
vera e propria, fondamentale se ci si trova in una situazione in cui i risultati
dei valori d’impatto contrastano tra loro; in questo caso è necessario saper
confrontare i risultati ottenuti per prendere le varie decisioni di gestione.
[1] Su queste tematiche si vedano gli art. di R.Martufi sul n.0 di PROTEO e l’art. di L.Vasapollo “Nuovi strumenti per misurare la compatibilità sociale d’impresa” su “Finanza Italiana”, mensile economico-finanziario, Anno V, N.11-12, Novembre, Dicembre 1997.
[2] Cfr.
L.Vasapollo “Nuovi strumenti per misurare la compatibilità sociale d’impresa”
su “Finanza Italiana”, mensile economico-finanziario, Anno V, N.11-12, Novembre,
Dicembre 1997.
[3] Cfr. Matacena A., “Impresa e ambiente. Il bilancio sociale”,
CLUEB Bologna, 1984.
[4] Cfr.Azzone
G., Dubini M., “Indicatori per la misura delle prestazioni ambientali delle
imprese”, Istituto per l’Ambiente, Luglio 1993, p.11.