I nuovi crociati: crisi organica e nuovo ordine mondiale
Alvaro Bianchi
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1. Le Crociate vecchie e nuove
Alla fine del capitolo introduttivo della sua opera Era
dos extremos, lo storico inglese Eric Hobsbawm dice: “il vecchio secolo
non si è concluso bene” [1]. Neanche il più scettico di tutti gli
analisti sarebbe riuscito ad immaginare quanto male sarebbe cominciato il secolo
XXI. Malgrado la vicinanza degli avvenimenti dell’11 settembre è stato già
detto e scritto molto al riguardo, non sempre seguendo il saggio principio della
prudenza. Da ciò che è stato affermato fino ad ora, sembra concretizzarsi il
presentimento che ci troviamo di fronte ad un mutamento storico. L’immagine
dei brutali attacchi alle torri del World Trade Center adesso potrà essere
sostituita dalle immagini di avvenimenti ancora più tragici. Chissà quali
sorprese ci riserva il futuro ... ma, senza dubbio, l’evento inaugurale del
nostro secolo segnerà in maniera indelebile ciò che sta per accadere, nel bene
o nel male.
Imperialismo. Il termine, che è stato cancellato dai
vocabolari della sinistra durante il decennio degli anni ‘90, acquista adesso
rinnovata capacità esplicativa. Come poter spiegare, senza di esso, questa
coincidenza temporale tra crisi economica e guerra. Come interpretare gli ampi
movimenti diplomatici nordamericani seguiti, come sempre, da ampi spostamenti
militari, senza questa categoria.
Quando è stato scritto questo articolo, il mondo, in
apprensione, seguiva lo sviluppo di un conflitto militare su larga scala, con la
guerra contro l’Iraq e la costruzione di un governo di coalizione in
Afghanistan sotto la tutela militare dell’imperialismo. Nelle sue strampalate
dichiarazioni iniziali, il presidente George W. Bush ha definito le azioni
nordamericane come una “crociata contro il terrorismo”. Consigliato dai
collaboratori, preoccupati delle ripercussioni della dichiarazione nel mondo
arabo, ha poi abbandonato tale espressione. Ma nella sua xenofobia ed ingenua
ignoranza, il presidente degli Stati Uniti ha utilizzato una analogia che può
essere utile per la comprensione della guerra attuale.
È bene ricordare. Le Crociate, sebbene avessero espliciti
obiettivi religiosi, non erano che uno scontro di civiltà pre-huntingtoniane.
Facevano parte di un processo di sviluppo ed espansione del nascente capitalismo
mercantile, con le sue forze sociali nuove e vigorose. Le loro conquiste più
durature furono la ri-configurazione economica, politica e, perché no,
culturale del mondo, o perlomeno della piccola porzione situata intorno al
Mediterraneo.
I risultati sono noti. Con la vittoria della Prima Crociata,
iniziata nel 1096, le città italiane e, in misura minore quelle della Catalogna
e della Provenza, si garantivano il dominio del Mediterraneo Orientale e si
assicuravano, per la prima volta, il predominio commerciale dell’Asia. Nel
1293, il porto di Genova raccoglieva, come tassa marittima, “tre volte e mezzo
più di tutta la rendita reale della monarchia francese” [2].
La nuova Crociata promossa dagli Stati Uniti vede moltissime
somiglianze con le precedenti, che possono essere prese come riferimento per
permettere una più completa comprensione della situazione attuale. Anche oggi
è in atto un tentativo di riconfigurazione economica, politica e culturale del
mondo contemporaneo. Si tratta pertanto di una dimensione molto più ampia
rispetto a quella che viene esplicitata: la guerra al terrorismo.
L’analogia è quindi pertinente. Ma oltre alle enormi
differenze, risultanti da circa nove secoli di passaggi storici, ce n’è una
che vogliamo mettere in risalto: mentre l’antica crociata faceva parte di un
impulso egemonico di un giovane e vigoroso capitalismo mercantile, la crociata
moderna è espressione della crisi organica dell’ordine mondiale capitalista.
2. Crisi organica = crisi economica + crisi politica
Ci sono una serie di espressioni che, a livello mondiale,
hanno seguito un processo simultaneo di consacrazione e saturazione, al punto di
diventare così familiari alle orecchie e alle menti occidentali che sembrano
trasportare con sé l’attributo della naturalezza. È il caso dell’ ordine
mondiale. Trattato comunemente come oggetto, ridotto a discussione basata
sui mercati gli investimenti, quantificato e studiato come un fenomeno
trasparente, quasi contabile, l’ ordine mondiale tuttavia deve essere
trattato, prima di tutto, come un processo. Processo che affonda le radici più
profonde negli accordi per il ridisegno del mondo del dopo Seconda Guerra
Mondiale.
Non può esistere un “ordine” senza un’istituzione che
lo organizzi nello stesso tempo in cui lo sta solidificando e potenziando. Tale
istituzione riposa sull’ordine costituzionale, costruito nel dopoguerra
intorno agli aggiustamenti economici, politici e militari; gli accordi di
Bretton Woods, con la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale; gli
accordi di Yalta e Postdam, atto di nascita dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite; e la creazione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico
(NATO) e del Patto di Varsavia.
Negli anni 1943-1947, questa istituzionalizzazione era basata
sull’accordo strategico esistente tra imperialismo e Unione Sovietica e sullo
sforzo comune di costruire un ordine mondiale la cui stabilità economica avesse
come presupposto la stabilità politica. Il contributo di Mosca per quel nuovo
ordine è stato importante. Nell’immediato dopoguerra vennero a volte
utilizzati i partiti comunisti nazionali e il prestigio ottenuto dalla disfatta
del nazismo per contenere un percorso rivoluzionario che si agitava in alcune
parti d’Europa [3]. L’impressionante livello di crescita dei Paesi imperialisti nel
dopoguerra ha avuto come presupposto lo spostamento dei conflitti sociali verso
la periferia del sistema con a volte la collaborazione dei peggio settori della
burocrazia stalinista.
La stabilità politica e la crescita economica di Stati
Uniti, Europa e Giappone sono state le caratteristiche dell’ordine mondiale
che più lo hanno definito, fino alla fine del decennio degli anni ’60, quando
l’intrecciarsi di tre processi su scala mondiale, ha raggiunto in maniera
decisiva i meccanismi economici, politici e militari sostenuti dall’imperialismo
e da alcuni settori burocratici sovietici nel periodo precedente, scompigliando
così l’“ordine”: la crisi economica; il processo di decolonizzazione e la
nascita di un nazionalismo terzomondista; l’avvento delle lotte delle classi
lavoratrici all’interno dei Paesi imperialisti e dell’Est europeo.
Il controllo sulle decisioni centrali -incluse quelle sull’economia-
sfuggiva di mano alla borghesia internazionale. Una dopo l’altra le
istituzioni del dopoguerra sono state messe in dubbio, svuotate, riformulate.
Non è questa la sede per sviluppare a fondo questo tema, basta sapere che la
presente crisi economica e politica mondiale trova le sue radici in questo
processo secolare.
Con l’annuncio dell’indice negativo del PIL nordamericano
nel terzo trimestre del 2001, è stato reso noto ciò che veniva annunciato da
molto tempo. La crisi economica era arrivata negli Stati Uniti. Analisti non
accecati dalla propaganda nordamericana, avevano messo in guardia sulla gravità
della crisi dell’economia mondiale, già dopo il collasso delle borse
asiatiche, nel 1997.
In quasi tutti i Paesi del mondo, tra il luglio 1997 e il
luglio 1998, le azioni sono scese dal 50 al 75%, fatta eccezione per l’Europa
e gli Stati Uniti [4]. Ma i livelli di produzione e gli alti tassi di interesse dell’economia
nordamericana sembravano aver sopportato la pressione esterna, al punto che Alan
Greenspan, onnipotente capo della Federal Riserve, aveva annunciato, in un
intervento al Congresso, che fosse possibile per gli Stati Uniti andare “oltre
la storia”, cioè superare gli ostacoli dei cicli economici e raggiungere una
crescita permanente [5].
Già molto prima dell’11 settembre si sapeva che tale
crescita permanente fosse più un’immagine creata dalla camera oscura dell’ideologia
che non una realtà. La crescita dell’economia nordamericana è rimasta molto
al di qua della storia, lontana dai livelli di crescita dello stesso capitalismo
nordamericano del dopoguerra. Negli anni ‘90, la produttività del lavoro
misurata come Prodotto Interno Lordo per ora lavorativa, è cresciuta, in media,
dello 0,7%, meno di un terzo del periodo 1950-1973. Il tasso di profitto
nell’industria non è andato meglio, è rimasto molto al di sotto della media
del dopoguerra, nonostante il crescente contenimento salariale [6].
I primi segnali che la crisi economica era arrivata negli USA
sono stati dati dalla caduta degli indici di borsa della “nuova economia”,
il Nasdaq. Il suo indice è sceso da 5.060 del marzo 2000, a 2.552 del dicembre
dello stesso anno, un calo pari quasi al 50%. Si annunciava così una crisi
finanziaria nel cuore stesso del capitalismo finanziario. All’inizio la crisi
si è manifestata nel punto più vulnerabile. La crescita smisurata delle azioni
delle multinazionali legate all’economia digitale avevano prodotto rapidamente
la percezione che i crediti su tali attività corressero il rischio di non
realizzarsi.
Svanita la bolla di sapone che aveva alimentato la crescita
dei guadagni non finanziari durante la seconda metà degli anni ‘90, è stata
la volta dell’industria a dare segnali di crisi. Nel settembre 2001, la
produzione industriale nordamericana è scesa dell’1%, accumulando, in 12
mesi, una caduta del 5,8%. Quanto maggiore era stata la crescita della
produzione tra il quarto trimestre del 1999 e lo stesso periodo del 2000, tanto
maggiore fu la caduta. Così, il settore delle elaborazione dati e correlati, il
più corteggiato dai propagandisti della nuova economia, che, tra il 1999 e il
2000, aveva registrato un aumento della produzione del 23,1%, ha avuto una
diminuzione del 6,4% [7].
L’impatto della caduta della produzione industriale sul
Prodotto Interno Lordo si i è fatta rapidamente sentire. Sebbene il PIL
nordamericano sia cresciuto del 4,1% nel 2000, i tassi di crescita sono scesi
rapidamente: del 5,7% nel secondo trimestre; dell’1,3% nel terzo e dell’1,9%
nel quarto. La tendenza verso il basso ha continuato a manifestarsi nel 2001:
solo l’1,3% di crescita nel primo trimestre e lo 0,3% nel secondo. Nel terzo
trimestre è successo ciò che ci si aspettava, una caduta dello 0,4% nel PIL
nordamericano, registrando il primo indice negativo dalla metà degli anni ’80
[8].
Sebbene non sia possibile comprendere la crisi politica con
la crisi economica, è chiaro che tra esse c’è un legame profondo. La crisi
economica ha creato un “terreno favorevole” alla crisi politica nella misura
in cui sono state compromesse le basi materiali per la costruzione del consenso
e della legittimazione dell’ordine borghese. L’assorbimento delle domande
non antagoniste, necessario alla costituzione di quel consenso, diventa un
processo arduo e raramente completato in modo efficace. La crisi economica ha
messo in difficoltà la possibilità di costruzione di un ordine mondiale capace
di stabilizzare il dominio imperialista, evitando esplosioni nella periferia del
sistema e l’opposizione nei suoi centri.
3. Spese militari e “adeguamento dell’ambiente”
Il collasso dell’Unione Sovietica è stato un colpo fatale
per l’ordine mondiale già tanto agitato. Venuta meno la capacità di
contenimento di quel soggetto strategico, improvvisamente gli Stati Uniti si
sono visti elevati al rango di unica potenza mondiale, proprio nel momento in
cui il loro potere economico stava declinando. Il sogno di Ronald Reagan si
stava trasformando in un incubo. L’esplosione delle guerre nazionali
(Jugoslavia ed ex Repubbliche Sovietiche), etniche e tribali (Somalia, Ruanda e
Burundi) e convenzionali (Golfo Persico) delineano gli aspetti più crudeli di
quell’incubo. L’emergenza di un movimento antiglobalizzazione che si andava
sviluppando, soprattutto ai margini delle istituzioni tradizionali, nell’organizzazione
dei movimenti sociali (Seattle, Montreal, Genova); di scioperi generali e
insurrezioni urbane contro la politica economica neoliberale (Argentina,
Ecuador) e di un attivo movimento sindacale all’interno dei Paesi
imperialisti(Germania, Francia), rendono conto della attuale instabilità
politica.
La risposta degli Stati Uniti alla crisi organica, che ha
cominciato a manifestarsi a partire dalla fine degli anni ‘60, è stata una
espansione sempre crescente delle sue capacità repressive. L’insicurezza di
Richard Nixon, incapace di risolvere la crisi organica, ha dato luogo al
militarismo apocalittico di Ronald Reagan [9]. Durante quest’ultima presidenza, l’ampliamento
della capacità militare nordamericana, elevata alla massima potenza, ha
provocato un crescente deficit nel bilancio, trasformando gli Stati Uniti in un
Paese debitore [10]. Con
il collasso dell’Unione Sovietica, alla fine degli anni ‘80, sono stati
messi in dubbio i fondamenti stessi della politica estera nordamericana.
Eliminato l’avversario strategico, che per decenni era servito da motivazione
ai volumi delle spese militari, non sono mancati i sostenitori della
possibilità di raccogliere i “proventi della pace”. Dopo aver canalizzato,
per anni, parti significative del PIL nelle spese militari, secondo alcuni
analisti gli Stati Uniti avrebbero potuto ridurre il deficit del bilancio
alimentato dalla corsa agli armamenti sostenuta dai governi di Ronald Reagan e
George Bush (padre).
Quando, nel 1993, Bill Clinton andò al potere, molti
analisti pensarono fosse giunto il momento di ribaltare l’unilateralismo
aggressivo dei repubblicani e delle loro politiche di bilancio, e di definire
nuove strategie in merito alla distribuzione delle spese. Ma quando il
segretario alla difesa Les Aspin annunciò la nuova politica strategica di
bilancio, il Bottom-Up Review (BUR), fu chiaro che tale revisione non sarebbe
stata profonda [11].
Nella definizione della nuova politica di difesa
nordamericana, il Bottom-Up Review parte da tre grandi eventi: la caduta
del Muro di Berlino nel 1989; l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel
1990 e l’insuccesso del golpe in Unione Sovietica nel 1991. Tali eventi
segnano la fine dello spettro sovietico che aveva segnato la politica di difesa
degli Stati Uniti sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e la nascita di
“nuove minacce” per la politica e l’economia nordamericane.
Avendo raggiunto una congiuntura favorevole ai propri
interessi, la politica estera nordamericana intravedeva l’inizio di un’era
di “nuove opportunità”. Questa era la contropartita delle “nuove minacce”.
Secondo il documento, “esiste la possibilità che si possa sostituire il
confronto Est-Ovest della guerra fredda, con un’era in cui la comunità
delle nazioni, guidata dall’impegno comune nei confronti dei principi
democratici, dell’economia di libero mercato e del dominio della legge, possa
essere significativamente allargata” [12]. Nel linguaggio codificato del
Partito Democratico di Bill Clinton, comunità delle nazioni non è altro che un
eufemismo per dominio nordamericano, come appare chiaro nella seguente
affermazione: “una continua buona volontà da parte degli Stati Uniti di agire
come garante della sicurezza sarà un importante fattore nel sostegno alla
cooperazione in molte aree. Per questo la nostra strategia presuppone che gli
Stati Uniti rimangano il principale garante della sicurezza in Europa, Asia
Orientale, Medio Oriente e Sud-Est Asiatico” [13].
Per il governo nordamericano il domino militare è un modo
per affermare il predomino economico sul così detto Terzo Mondo, ma anche per
garantire il suo predomino sulle altre potenze imperialiste: “I nostri alleati
devono essere sensibili ai vincoli che derivano dal legame con gli Stati Uniti,
da un lato con le loro assicurazioni e dall’altro con le loro azioni in alcuni
ambiti come la politica commerciale, il trasferimento di tecnologie e la
partecipazione alle operazioni multinazionali di sicurezza” [14].
L’utilizzazione della forza militare come moneta di
scambio, un vero ricatto, diventa esplicito quando il Segretario alla Difesa
afferma che “il potere militare sostiene ed è sostenuto dal potere economico
e politico. Allo stesso modo, le relazioni di sicurezza si sostengono e sono
sostenute dalle relazioni commerciali. Non possiamo aspettarci di migliorare le
nostre relazioni commerciali o la nostra posizione commerciale nei confronti
degli alleati se non teniamo conto delle nostre relazioni di sicurezza”
[15].
Le relazioni economiche con le altre potenze imperialiste
sono mediate dal potere militare nordamericano che gli garantisce un accesso
privilegiato a mercati e risorse strategiche. I bersagli sono, sicuramente
Giappone e Germania (Unione Europea), I principali concorrenti sul mercato
mondiale [16].
La minaccia militare diventa così punto chiave della
politica estera nordamericana. L’ordine mondiale nato dal collasso dell’Unione
Sovietica è lontano dai sogni di pluralismo liberale. Piuttosto che essere la
libera interazione delle forze economiche a definire gli aggiustamenti politici
esistenti, è il potere coercitivo dello Stato nordamericano a determinare le
regole del gioco economico, controllando le altre potenze imperialiste (i
cosiddetti alleati) ed i governi dei Paesi del Terzo Mondo.
Mentre teneva sotto controllo gli alleati, il Bottom-Up
Review, in assenza di un altro concorrente globale di forza equivalente (global
peer competitor), definiva come obiettivo il mantenimento delle forze
militari sufficienti a portare avanti, simultaneamente e senza alleati, due
grandi conflitti regionali (Major Theater Wars - MTWs) della dimensione
della Guerra del Golfo. Il nuovo orientamento dava inoltre inizio alla
modernizzazione del programma di difesa, detto della Rivoluzione negli Affari
Militari (Revolution in Military Affairs) includendo, gradatamente, nuove
e sofisticate tecnologie belliche [17].
Lo spettro dell’Unione Sovietica dava luogo alla minaccia
dei Rogue States (Stati canaglia), nazioni che, poste al margine dei sistemi di
dominio nordamericano, avrebbero rappresentato una seria minaccia all’ordine
mondiale. La lista di tali Stati includeva Cuba, Iran, Libia, Siria, Sudan, Iraq
e Corea del Nord, con speciale attenzione a queste ultime due. Si delineavano
così due teatri di possibili operazioni: Il nord-est e il sud-est asiatico. Ma
la sproporzione esistente tra le risorse militari degli Stati Uniti e quelle dei
Rogue States, denunciava che i veri avversari non erano quegli Stati, ma
piuttosto Russia e Cina [18].
Questa strategia è stata poi approfondita nel Quadrennial
Defense Review del 1997. Secondo il Segretario alla Difesa, William Cohen:
“le forze degli Stati Uniti devono essere in grado di lottare e vincere, quasi
simultaneamente, due major theatre wars. Intanto, sebbene il Bottom-Up
sottolinei la difficoltà di questa impresa, abbiamo valutato attentamente altri
fattori, come porre maggior enfasi sulla necessità di mantenere una presenza al
di là del mare per un adeguamento all’ambiente internazionale ed una maggiore
capacità di rispondere a situazioni varie anche di piccola entità e alle
minacce asimmetriche” [19].
Un mondo unipolare, ma anche instabile, con la capacità di
contenimento dell’Unione Sovietica enormemente ridotta, aumentava a dismisura
il ventaglio di possibili operazioni di difesa da parte nordamericana. Così,
venivano incluse nella strategia di difesa non solo le possibili minacce
simultanee di due potenze regionali, ma anche “contingenze di piccola entità
e minacce asimmetriche”, cioè, azioni rapide in aree considerate strategiche
per gli interessi nordamericani, attaccare gruppi “terroristi” e, perché
no, evitare la nascita di rivoluzioni popolari e la crescita del movimento
antiglobalizzazione. Si deve ricordare che lo stesso Quadrennial Defense
Review contemplava come obiettivo, oltre alla difesa degli Stati Uniti e dei
suoi alleati, la garanzia di “accesso senza restrizioni ai mercati chiave,
fonti di energia e risorse strategiche” [20].
In questo modo, con l’indicazione “adeguare l’ambiente
internazionale”, si sarebbero intensificati i programmi militari di
assistenza, i contatti con le forze armate di altri Paesi, aumentando il peso
delle forze armate nella politica estera nordamericana. Secondo Carl Conetta e
Charles Knight, ricercatori del Commonwealth Institute, “il ruolo delle forze
armate nordamericane in politica estera non è retrocesso di un passo dopo il
declino della minaccia sovietica. Anzi, fino ad ora, è aumentato, assumendo
funzioni che prima erano esclusiva responsabilità del Dipartimento di Stato”
[21].
Il turno dei repubblicani al potere negli Stati Uniti, ha
approfondito ed esplicitato tendenze già presenti nella strategia democratica.
Poco prima di essere nominata dal presidente Bush, consigliera per la Sicurezza
Nazionale, Condolezza Rice ha annunciato, con i toni belligeranti e auto
proclamatori che le sono propri, che i riferimenti alla “comunità
internazionale” dei democratici avrebbero dato luogo all’esplicita difesa
dell’ “interesse nazionale” nordamericano [22]. Tra questi interessi
nazionali ci sono sicuramente gli interessi economici. Uno degli obiettivi
dichiarati della politica estera nordamericane è: “promuovere la crescita
economica e l’apertura politica ampliando il libero commercio e un sistema
monetario internazionale stabile per chi si è impegnato secondo questi
principi, e tra questi l’emisfero occidentale che è stato frequentemente
trascurato come zona vitale per gli interessi nordamericani” [23].
Nel Quadrennial Defense Review del 2001, presentato
quindi dal governo di George W. Bush, viene rafforzata la tematica dell’“interesse
nazionale”. In esso la protezione degli interessi nazionali permanenti rimane
uno degli obiettivi delle Forze Armate degli Stati Uniti. Ma, oltre all’accesso
ai mercati e alle risorse strategiche, viene qui indicato come obiettivo la “vitalità
e la produttività dell’economia globale”, ossia, la globalizzazione e il
neo liberismo diventanomete della politica militare nordamericana [24].
Per raggiungere i propri obiettivi, secondo il documento, gli
Stati Uniti dovrebbero essere capaci di difendersi, di dissuadere qualunque
aggressione nelle regioni critiche, di sconfiggere gli aggressori in due grandi
conflitti simultanei e, in fine, di gestire un numero limitato di operazioni
con contingenti di piccola entità [25].
Il Quadrennial Defense Review del 2001 mantiene ed
amplia la strategia dei due conflitti regionali simultanei, aumentando i
possibili centri di conflitto con l’inclusione del litorale Est dell’Asia,
definito come la regione compresa tra il sud del Giappone, l’Australia ed il
golfo del Bengala, cioè, la frontiera cinese. Pubblicato dopo l’attentato
dell’11 settembre, il documento presenta anche un nuovo paradigma strategico.
Esce di scena il piano di difesa “basato sulle minacce” ed al suo posto ne
compare uno “basato sulle capacità”, che mette a fuoco più come l’avversario
potrebbe attaccare che non chi potrebbe essere o quando potrebbe
accadere [26]. Questo nuovo paradigma permetterebbe non solo di
preparare gli Stati Uniti ad affrontare minacce di gruppi “terroristici”, ma
anche di aumentarne l’efficacia contro rivoluzioni o movimenti sociali.
La nuova strategia, definita a partire dal 1993, aveva
modificato sostanzialmente il tipo di operazioni nelle quali si trovavano
coinvolti gli Stati Uniti. Sebbene, prima della guerra contro l’Afghanistan,
il numero di militari effettivi nordamericani in altri Paesi fosse circa metà
della media degli anni ’80, cresceva il numero di nazioni in cui gli Stati
Uniti mantenevano una presenza militare. Il numero delle esercitazioni è
raddoppiato ed il numero di persone impiegate in operazioni è triplicato,
raggiungendo, nel dicembre 2000 la cifra di 35 mila.
Sulla base di questa nuova strategia il bilancio militare
nordamericano non riprende la sua crescita fino al 1999. Ma è bene sottolineare
che la diminuzione del bilancio della difesa nordamericana, nei primi anni ’90,
mantiene i costi allo stesso livello della guerra fredda. Stabilendo una media
dei costi in modo da escludere lo sprint finale della corsa agli armamenti
avvenuto durante la presidenza di Ronald Reagan, vediamo che tra il 1946 e il
1979 la media annuale del bilancio della difesa degli Stati Uniti è stata di
329,7 milioni di dollari, ed è stata costante fino all’anno fiscale 2002. Per
l’anno fiscale 2002, l’amministrazione di George Bush aveva stanziato 343,2
milioni per il Pentagono. Prima degli attentati dell’11 settembre, quindi, il
bilancio della difesa nordamericano per il 2002 era superiore alla media degli
anni della guerra fredda!
Così, sebbene Democratici e Repubblicani fossero d’accordo
con la diminuzione del deficit federale attraverso tagli dei costi pubblici,
erano altrettanto d’accordo nel lasciare il bilancio militare fuori da questi
tagli. Non sono mancate critiche al super dimensionamento delle forze armate,
denuncie sulla sproporzione tra le elevate spese e i modesti nemici esistenti
dopo il collasso dell’Unione Sovietica [27]. Se pensiamo ai nuovi
scenari che stanno per essere disegnati dalla politica estera nordamericana,
vediamo che più che di una inflazione nel bilancio si tratta di una inflazione
dei pericoli.
[1] Eric Hobsbawm, Era dos extremis, São
Paulo, Companhia das letras, p. 26.
[2] Perry Anderson, Passagem
da antiguidade ao feudalismo, São Paulo, Brasiliense, 1992, p. 188. Si veda
anche: Henri Perenne, Histórica econômica e social da idade Média,
São Paulo, Mestre Jou, 1963, pp. 31-44.
[3] Per il difficile processo di contenimento dei processi
rivoluzionari nell’immediato dopoguerra si veda: Pierre Broué, “O fim da
segunda Guerra e a contenção da revolução”, in Osvaldo Coggiola, Segunda
Guerra Mundial: um balanço histórico, São Paulo, Xamã/FFLCH-USP,
1995.
[4] Robert Brenner, “A crise emergente do capitalismo mundial:
do neoliberalismo à depressão”, in Outubro, São Paulo, n. 3, 1999,
p. 7.
[5] Alan Greenspan, Statement by Chairman Board of Governors
of the Federal Riserve System before the Joint Economic Committee,
Washington D.C., United States Congress, 10.06.1998.
[6] Robert Brenner,
“The economics of global turbulence”, in New Left Review, n. 229,
maggio-giugno, 1998.
[7] Federal Riserve, Statistical release, g. 17, n.
419, supplement, 16.10.2001.
[8] Bureau of Economic Analysis, Overview of the Economy, 31.10.2001,
disponibile su: www.bea.doc.gov/bea/glance.htm
[9] Per il passaggio dall’insicurezza
alla politica aggressiva di Reagan, si veda: Sebastião Velasco e Cruz, “Desencontros.
O Brasil e o mundo no limiar dos anos 80”, in Primiera Versão,
IFCH/Unicamp, n. 88, nov. 1999.
[10] Per la politica estera nordamericana del periodo si veda: Fred
Halliday, The making of the Second Cold War, Londra, Verso, 1986.
[11] Les Aspin, Report of the Bottom-Up Review, Washington
D.C., Department of Defense, 1993, disponibile anche su:
www.fas.org/man/docs/bur/index.htm
[12] Idem
[13] Idem
[14] Idem
[15] Idem
[16] Si veda: James Petras e Morris Morley, Empire or republic? American
global power and domestic decay, New York Routledge, 1995, cap. 1 e 2. Sui
recenti conflitti economici tra Stati Uniti da un lato e Giappone e Germania
dall’altro, si veda: Fred C. Bergsten, “Estados Unidos: Los dos frentes del
conflictos económicos”, in Foreign Affaire En Español, maggio 2001,
disponibile su: www.foreignaffairs-esp.org.
[17] Sul Bottom-Up Review e la strategia
dei due MTWs si veda: Gilbert Achcar, La nouvelle guerre froid. Le monde
après le Kosovo, Parigi, Presses Universitairescde France, 1999 e Nicholas
Guyatt, Another American Century? Londra, Zed, 2000, pp. 114-176. Per Revolution
on Military Affaire si veda la lunga lista di articoli e libri accessibili
su The Project on Defense Alternatives, The RMA debite, disponibile su
www.comw.org/rma/index.html
[18] Si veda al riguardo Gilbert Achcab, Op. cit.
[19] William S. Cohen, “The Secretary message’s”, in
US Department of Defense, Quadrennial Defense Review, Washington D.C.,
1997.
[20] Molto più esplicito del documento
del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ed ispirato alla stessa logica,
il documento della Cupola di Washington dell’Organizzazione del Trattato del
Nord Atlantico (NATO) arriva ad affermare: “Alcuni Paesi e loro vicini dell’area
euro-atlantica si trovano in gravi difficoltà economiche,sociali e politiche.
Le rivalità etniche, religiose, le dispute territoriali, l’inadeguatezza o l’insuccesso
degli sforzi di riforma, la violazione dei diritti umani e la dissoluzione degli
Stati, possono produrre instabilità locali e regionali. Le tensioni risultanti
possono sfociare in crisi che influenzano la stabilità euro-atlantica, dar
luogo a sofferenze umane e provocare conflitti armati”. NATO, Guia completa
de la cumbre de Washington, 23-25 aprile 1999, disponibile su:
www.nato.int/docu/rdr-gde/rdrgde-sp.pdf
[21] Carl Conetta e Charles Knight, “A New US Military Strategy: Issues and
Options”, in Project on Defense Alternatives Briefing Memo, n. 20,
21.05.2001, disponibile su: www.comw.org/pda/0105bm20.html
[22] Condolezza Rice, “La
promoción del interés nacional”, in Foreign Affair En Español,
gen-feb 2000. Disponibile su: www.foreignaffairs-esp.org
[23] Idem
[24] US
Department of Defense, Quadriennal Defense Review, 2001, p. 2
[25] Idem, p. 17.
[26] Donald H. Rumsfeld, “Foreword”, in US Department of Defense, op.
cit., 2001, p. IV.
[27] LJ. Korb, “Oour overstuffed Armed
Forces”, in Foreign Affaire, v. 74, n. 6, 1995.