La nuova fase di globalizzazione del capitale degli anni ‘80,
segnata dal ruolo cardine della finanza, sembra aprire nuove prospettive
strategiche ai sindacati, come dimostrano le iniziative nord americane in
materia. Seguendo l’AFL-CIO, i sindacati in Canada e in Europa s’interrogano
sui mezzi d’azione a loro disposizione per “controllare” i mercati
finanziari e tentare di modificare la loro logica. Per questi si tratta di
stabilire un controllo sindacale sia sulle somme accumulate nelle casse
pensione, uscite dai regimi professionali complementari quando esistono, sia su
quelle uscite dal risparmio salariale e concentrate in fondi gestiti da figure
specializzate, come i fondi comuni di investimento. L’obiettivo perseguito è
di fare in modo che questo risparmio non sia utilizzato contro i lavoratori e le
loro famiglie, ma al contrario orientato verso gli obiettivi che cercano di
portare avanti per difendere meglio i loro interessi.
L’analisi delle esperienze nordamericane indica in primo
luogo che l’efficacia di queste pratiche e delle loro ricadute sono in parte
funzione del rapporto di forza sindacale, tanto sul terreno dell’impresa nel
loro faccia a faccia quotidiano con i datori di lavoro, che sul terreno politico
del loro confronto con lo Stato. Negli Stati Uniti i sindacati hanno guadagnato
legittimità, non presso i datori di lavoro con il braccio di ferro della
negoziazione collettiva, né presso lo Stato tramite una pressione in favore
delle grandi riforme sociali, ma presso gli investitori istituzionali sulla base
di alleanze nell’azionariato, rivendicando il principio della massimizzazione
del valore azionario. In Canada, ma soprattutto nel Quebec, un contesto politico
specifico e un rapporto di forza più favorevole ai sindacati hanno permesso
loro di farsi ascoltare e di promuovere il mantenimento e la creazione di posti
di lavoro, oltre allo sviluppo regionale attraverso la creazione di fondi
pro-sindacali. L’esperienza del Fondo di solidarietà FTQ, per quanto possa
sembrare semplice, è malgrado ciò limitato dal punto di vista del montante dei
capitali investiti. Inoltre ha un costo fiscale importante per la provincia e
per lo Stato federale e dei costi di gestione più alti di altri fondi,
approfittando in particolare dei singoli risparmiatori a reddito elevato. È
inoltre destinata essenzialmente alle PMI, cioè a quelle imprese che non si
distinguono necessariamente per il loro comportamento “etico”: queste ultime
sono generalmente ostili allo sviluppo di un dialogo con i sindacati. In più il
loro contributo alla creazione d’impiego è spesso sovrastimato e in gran
parte frutto di illusione ottica: è in effetti più legato alle dinamiche e
alle strategie delle grandi imprese che al loro dinamismo intrinseco (Bocarra,
1998).
Le attuali pratiche sindacali che cercano di appoggiarsi al
potere azionario “lavorando” sui mercati finanziari dall’interno, ci
paiono limitati nelle loro fondamenta, pericolose nel loro sviluppo e forse
effimere riguardo al tempo dei cicli borsistici.
Da una parte, legittimano maggiormente il primato della
finanza del mercato e la sua pretesa di delimitare (e restringere) lo spazio
della democrazia economica e della posta in gioco della lotta sociale e
politica. Il ritorno in auge del discorso sull’”etica” in generale e sull’”investimento
etico” in particolare, è un segnale rivelatore. È fondato e si afferma sul
discredito della politica e sulla perdita di legittimità dell’intervento
dello Stato nella sfera economica e in quello del mercato (il mercato
finanziario). Questa preponderanza dell’ “etica” non fa che tradurre il
ripiegamento sulla sfera privata che caratterizza l’ideologia individualista e
la logica dell’accumulo patrimoniale, il rifiuto della visione globale del
cambiamento sociale e dell’azione collettiva. Nell’”investimento etico”
le norme finalizzate a limitare gli eccessi del mercato debbono trovare la loro
fonte e la loro legittimità nella coscienza morale degli investitori,
individuali o collettivi.
Queste nuove pratiche confinano il sindacalismo alla difesa d’interessi
particolari, quelli dei lavoratori delle grandi imprese, non tutelando la
concezione socializzata del salariato, quella che ingloba i lavoratori ai
margini delle grandi imprese (salariati delle PMI, lavoratori interinali, etc.)
e quelli nettamente più precari, ai margini del mercato del lavoro (disoccupati
di lunga durata, giovani con difficoltà d’inserimento, etc.). Così facendo
si sostengono le disuguaglianze salariali, che di fatto sono aumentate negli
ultimi due decenni, nell’America del Nord come in molti paesi europei. In più
si rischia in ogni momento di far scoppiare il conflitto d’interesse, inerente
il rapporto capitale-lavoro, rappresentato nelle posizioni antagoniste di
azionariato e salariato e che si esplicitano nel permanente conflitto sulla
ripartizione del valore aggiunto (profitti/ salari).
Ciò senza contare le contraddizioni che questi rapporti
celano quando si esce dagli Stati Uniti. I sindacati in genere, e in particolar
modo i sindacati nordamericani, hanno sempre ostentato una concezione
strettamente “nazionalista” (anche regionalista) della difesa dei posti di
lavoro e le solidarietà internazionali costruite intorno ai “soldi dei
lavoratori” rischiano di andare in frantumi in poco tempo quando si metteranno
in concorrenza i diversi interessi nazionali.
Inoltre la militanza dell’azionariato sindacale si appoggia
a dispositivi di risparmio pensione specifici (i FP a prestazioni definite) che
restano per la maggior parte volontari e che negli Stati Uniti sono rimessi in
discussione dai datori di lavoro a favore di dispositivi di risparmio salariale
individuale o di dispositivi “ibridi” (Roberts e Sauviat, 1999).
Ciò premesso i FP a ripartizione definita, non offrono le
stesse garanzie di rappresentanza collettiva dei FP a prestazioni definite,
quando sono diretti dai partecipanti e non più dai trustees. Infatti non
si fa che rimandare i lavoratori ad una trattativa individuale, non con i loro
datori di lavoro, ma con i gestori dei fondi in una relazione tra prestatore e
cliente. Il declino tendenziale dei FP a prestazioni definite, i soli a dare un
potere di rappresentanza sindacale, non rischia di tagliare le basi stesse delle
strategie sindacali d’attivismo azionario? E l’arresto brutale nel 2000 del
ciclo di stima continua delle azioni e del clima di euforia borsistica propria
degli anni ‘90 non rischia di indebolire considerevolmente questa strategia?
La scelta della cogestione del risparmio pensione o del
risparmio salariale come mezzo privilegiato per ricostruire un rapporto
capitale/lavoro più favorevole ai lavoratori, per far riconquistare un potere
di negoziazione, con una parte del valore aggiunto più “equo” o più “equilibrato”,
altresì finalizzato a far acquisire ai medesimi un maggior potere di decisione,
si pone a seconda degli ordinamenti propri di ciascun paese (i sistemi di
protezione sociale) e dei rapporti di forza tra gli attori. La risposta è
lontana dall’essere universale sia per la sua legittimità che per la sua
efficacia. Invitare i sindacati a rivendicare, in quanto azionisti, e a
convalidare tutto ciò facendo riconoscere i diritti di “proprietà”
comporta il rischio di una crescente frammentazione della rappresentanza degli
interessi dei lavoratori, sia sul piano nazionale che su quello internazionale.
In questo senso le differenze tra paesi si sono accresciute con la
globalizzazione finanziaria.
Non è certo che la figura dell’”azionista sindacale”
sia la più adatta a conquistare, o meglio a riconquistare, a livello delle
imprese e più largamente dello Stato, un potere di negoziazione e di decisione
che la parte sindacale ha perso o non ha mai ottenuto come parte collettiva a
livello nazionale, o sopranazionale. Il bilancio delle strategie nordamericane,
da questo punto di vista, non è assolutamente convincente.
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