1. In nessun Paese europeo quanto in Inghilterra il senso
della gerarchia sociale è presente immediatamente nel medium di ogni
incontro e comunicazione - la lingua. Non solo diversa ricchezza di sintassi,
vocabolario, registri espressivi distinguono i ceti, ma già la pronuncia di
ogni parola e frase (pronuncia, le cui differenze “verticali”, appunto
di appartenenza a strati superiori o inferiori, sono più importanti di quelle
“orizzontali”, di regione). Questo biglietto da visita che si manifesta col
solo aprir bocca, immediatamente, è un tratto tipico, che, nel centro primo del
capitalismo e del maggiore impero moderno (anche se ora subordinato al
cugino-nemico statunitense), si chiama appunto class; e poiché è
evidente e onnipresente, non c’è - di solito - alcun bisogno di dirlo.
Ma nello stesso tempo, l’uso della parola class, nell’inglese
corrente, ricorda anche che in quel Paese il movimento operaio, pur forte e
glorioso in certe fasi, è rimasto quasi sempre subalterno; e che il concetto e
sentimento dell’autonomia di classe dei lavoratori, morale prima ancora che
politica, è rimasto, colà, marginale. Il senso proprio di “classe”, che
appunto non significa appartenenza a un certo gruppo, categoria, ambiente, ma si
riferisce ai rapporti di produzione e alla forma capitalistica della
riproduzione sociale complessiva [2], non è entrato, là, nel senso comune. [3]
E proprio perciò, che ci siano “classi” - nel senso di stratificazioni, di
un alto e un basso a lor volta graduati, e di una potenza e miglior qualità
inerente all’ “alto” è, invece, fortissimamente, nel senso comune,
(di cui massimo e miglior testimonio è appunto la lingua). Infatti, “class”
tutto significa, dalla evidente e ammessa superiorità dei ricchi e potenti - la
upper class (noi diciamo talvolta “i padroni”, ma quest’espressione
non riconosce superiorità!), alle classificazioni più o meno fondate di varie
teorie sociologiche, e poi anche giù giù fino a quelle vanità
sciocchistico-pubblicitarie, per cui una certa automobile o un paio di scarpe
esprimerebbe la vostra “classe” (buon pro’ vi faccia...) - E non è un
caso, probabilmente, che sempre l’inglese corrente, solo fra le lingue europee
(dall’italiano al francese al tedesco al russo...) non abbia due
termini per dire “popolo” e, invece “gente”. Tutto quanto è people,
“la gente” “gli individui al plurale” - in buona armonia, a pensarci
bene, con quell’altro aspetto: poiché dove tutto è class, insieme
gerarchia, strato, ceto, stile di vita, come può esserci e agire, ed esser
soggetto politico in opposizione ai suoi dominatori, un’ entità che sia non lower
class, o plebe, ma davvero “popolo”? [4] -
Così. anche in questi tratti del linguaggio si manifesta la egemonia
plurisecolare della borghesia inglese [5].
Ma lasciamo gli aspetti storici, per venire al presente, e a
noi. Anche da noi, infatti, l’attacco all’autonomia morale, culturale,
politica, dei lavoratori, alla consapevolezza, al senso di sé, all’identità
della classe operaia propriamente intesa, ha ottenuto successi - anche se non
ancora il successo massimo: che sarebbe quello di obliterarsi del tutto, e
sostituire all’evidenza della lotta di classe dall’alto un’altra “evidenza”,
quella di una stratificazione e diversità sociali tanto poliedriche quanto
impenetrabili, e dunque immutabili. Anche da noi il senso comune - risultato di
lunghe lotte per l’emancipazione dei lavoratori, notabene! - per cui “classi
lavoratrici”, “classe operaia” significano quello che significano, e sono
tutte espressioni che implicano solidarietà (di classe appunto, di fronte a
quell’altra e potente solidarietà dei padroni contro i lavoratori), e
implicano lotta, e implicano una prospettiva di emancipazione anche lontana -
anche da noi questo senso comune e tessuto di idee, sentimenti e azione in cui i
singoli si legano alla loro classe, appunto - questo senso comune e
comune sentire non è nato dal nulla. Ed è cresciuto ed è stato forte in
decenni non lontani. E ora è più debole, come tutti sanno. E non serve il
rimpianto, ma invece il domandarsi come e perché, per sapere da dove riprendere
le fila - come si sa. Finalmente - e si sa anche questo - le fila vanno riprese
da lontano, dandoci conto e spiegazione delle vittorie non piccole che la
controparte ha potuto ottenere, in Italia e nel mondo, negli ultimi decenni.
C’è però chi argomenta che questo indebolirsi e
restringersi del senso di classe sia un aspetto della cosiddetta “crisi del
marxismo”, o comunque collegato ad essa. Con questo tipo di amalgama tra
fenomeni reali e nebulose immaginazioni si ottengono subito due effetti. Primo:
al posto delle classi, del loro antagonismo, della saldissima azione economica,
politica, ideologica dei padroni, e di chi ad essi si è accodato e si accoda,
avete un fenomeno globale e vago, una specie di “spirito del tempo”, che non
si può analizzare (anche se si può discettarne senza fine...). Secondo, un
effetto intimidatorio: chi vorrà ancora parlare di classi, di lotta di classe,
di sviluppo del capitale e sua crisi, di plusvalore, e insomma di tutte queste
categorie “marxiste”, che lo spirito del tempo ha lasciato dietro di
sé? Andiamo, signori, stiamo coi tempi, parliamo il linguaggio di tutti... (e
il gioco è fatto - o, almeno, sembra.)
Di “crisi del marxismo”, poi, sono state piene riviste (“di
sinistra”, s’intende, convegni di intellettuali e politici “di sinistra”,
s’intende), qualche libro, molti articoli di giornale, per alcuni anni, grosso
modo intorno al 1980.
2. Proviamo a domandarci: Che cosa significa “crisi del marxismo”?
1. Oh che problema intricato, opinabile, discusso per
anni inutilmente, vetusto, anzi morto e sepolto - direte voi. E avrete ragione.
Ma rassicuratevi. Non si vuol qui tediare nessuno rispolverando vecchie
diatribe. Quella che propongo è una breve riflessione sulla “crisi del
marxismo”, datata 2003, cioè certo dopo la “crisi”, dopo l’89-91
e dopo che le illusioni sul “nuovo ordine mondiale” hanno ormai
ceduto il posto a più sobrie considerazioni sul rapporto tra i pochi potenti e
tutto il resto dell’umanità. Questa breve riflessione si può riassumere, lo
confesso subito, in una battuta un pochino provocatoria. Eccola. Poiché una
concezione scientifica generale che non si svolga in ricerche particolari
da lei rese concettualmente possibili, e che a lor volta, ovviamente, porteranno
ad arricchire la teoria generale, a svilupparla e anche a modificarla e
correggerla, è una cosa semplicemente impossibile (una tale concezione,
infatti, sarebbe unicamente un pezzo di carta su cui son scritti certi segni) -
“crisi del marxismo” vuol dire, e ha voluto dire essenzialmente (e non già
una volta sola), “non fare marxismo”, non sviluppare quella “filosofia
della prassi” che (come scriveva Antonio Labriola 108 anni or sono) Marx ed
Engels avevano soltanto avviato.
“Un momento”, dirà qualcuno, “tu ritieni dunque che
’il’ marxismo sia una teoria scientifica?” Piano, le cose non sono
così semplici. Né che cosa voglia dire “scientifico” è, in una tale
affermazione, chiarito; e neppure a che cosa alluda l’espressione ’il’
marxismo. Anzi: io non affermo neppure che ’il’ marxismo, come ente
singolare, sia esistito. Soltanto, come detto, vorrei cercare di cominciare a
dipanare la matassa, oggi: ossia quando comincia a esser sentita da molti
l’esigenza di strumenti teorici che permettano di studiare, ed eventualmente
comprendere, ed eventualmente (ma più lontano e sotto condizioni pratiche tutte
da vedere), modificare l’andamento potenzialmente catastrofico della
unificazione del mondo, cioè del genere umano, nella forma di moto detta “capitalistica”.
Questa forma di moto non è - ovviamente - la stessa cosa che
le parolette vuote e/o ricattatone propinate al disprezzato volgo - tipo “mercato”,
“globalizzazione”, etc. etc. [Si avanza bensì la pretesa che “il mercato”
debba e possa fungere da solo regolatore del rapporti sociali (“società di
mercato”, non più società a economia di mercato, etc.); ma, come sapete, non
tra persone serie che fanno affari seri.] La preponderanza dei criteri di
profitto, questa sì, inerente alla forma di moto capitalistica, importa oggi
che la volontà politica di sfamare tutti, in un mondo in cui le risorse sono
sovrabbondanti da circa 30 anni, NON si formi, e dunque che non si debba parlare
di un problema della fame nel mondo, o di un problema delle epidemie, dove i
presidi medici esistono da tempo e non si applicano o non si vendono, ma,
correttamente, di sterminio; e simili argomentazioni possono farsi, mutatis
mutandis, per questioni ambientali riguardanti l’ecosistema planetario e
quelli regionali.
Tutto questo è arcinoto, come è noto a molti il detto del
padre teorico del neoliberalismo, il premio Nobel per l’economia F. Hayek: “dobbiamo
abbandonare il pregiudizio secondo cui ogni uomo che nasce ha diritto alla vita”
(1977, in una intervista alla Weltwoche di Zurigo).
2. Ma perché parlare di “forma di moto capitalistica”
e non semplicemente “del” capitalismo? Ebbene, già questa domanda ha una
lunga storia, che risale almeno alla realizzazione - finalmente avviata e
non ancora compiuta, della MEGA2, l’edizione critica dell’opera completa di
Marx e di Engels, e alle resistenze dogmatiche al suo avvio, ancora verso il
1960. In effetti, la domanda porta al centro del problema dell’eredità
letteraria e scientifica di Marx: al problema del “nocciolo” più compiuto
della sua concezione, mai completata, e che è la teoria pura del “Modo di
produzione capitalistico”. Questa NON è teoria (molto meno: descrizione) di un
qualche “capitalismo” storico (inglese o altro). I vari capitalismi
storicamente esistiti sono configurazioni - con termine labriolano -
successive e diverse del Modo di produzione: ivi compresa, naturalmente,
la prima configurazione “globalizzante” in forma di spartizione coloniale
del globo a fine ’800; e compresa, io penso, la presente e ulteriore, purché
riusciamo a studiarla. Per questo motivo, già parlare “del” capitalismo è
poco corretto: a rigore, “il” capitalismo non esiste. Storicamente e
geograficamente, cioè localmente, ce ne sono stati molti, ciascuno con
caratteristiche proprie, sebbene poi tutti con alcune caratteristiche essenziali
comuni (valorizzazione del capitale, cioè rapporto e processo di
capitale, in primo luogo); e tutti tendenzialmente riassorbibili, poi in
parte riassorbiti, nel mercato mondiale - la tendenza alla formazione del
quale è essa pure propria, ut sic, del Modo di produzione capitalistico
quale pura forma di movimento.
Tutto questo (e molto, moltissimo altro ancora), è ormai,
visti i testi di cui disponiamo, difficilmente controvertibile corrisponda all’intenzione
conoscitiva dell’Autore del Capitale I e del formidabili “lavori
preparatori”, nonché integrazioni e correzioni, che oggi conosciamo grazie
alla nuova edizione critica. (Basti qui una cifra: circa 5000 pagine di ms.
decifrati e criticamente pubblicati, in mezzo al quali il Capitale I, pubblicato
nel 1867, si colloca, e solo può essere inteso. E ancora: tre (non una)
redazioni della teoria complessiva (dalla quale, poi, si avrà o si
ricaverà il Capitale I-II-III come siamo stati abituati a leggerlo),
tutte anteriori alla pubblicazione di Capitale I).
Finalmente, incontrovertibile è altresì che Marx volesse anche dare uno “spaccato”
della società borghese del tempo suo, non solo la sua “legge di movimento”.
E ne abbiamo testimonianza in ricerche storiche, politiche, anche letterarie; in
capitoli “illustrativi” del Capitale stesso, (p. es. l’8° e in
parte il 13° ); in grandi scritti politici, dall’ Indirizzo del 1864
in poi.
Da qui, come Walter Markov e la sua scuola hanno mostrato con
rigore storiografico e filologico, si spiegano anche quegli avvii e parti di una
teoria della Formazione economico-sociale, che, pure con contributi
successivi nel ’900, resta finora un torso. Ma la “estensione” verso l’analisi
storica, politica, culturale, anche filologica, (per non parlare della
straordinaria attenzione del tardo Marx per la scienza naturale del tempo), è
inerente alla duplicità di piani dell’opera sua: quello della pura teoria del
Modo di Produzione, che è teoria di una forma di moto storica (e non
propriamente ’economica’, anche se naturalmente la relazione fondamentale,
il rapporto di produzione, o insomma il rapporto e processo di capitale, può
dirsi economica) - e dell’uso degli strumenti teorici da essa offerti
nell’ analisi di configurazioni, eredità storiche, vita di “popoli” e “nazioni”
particolari, ecc.
3. Perché, poi, questa teoria pura del MPC avrebbe tanta
importanza? Per due motivi, direi. Il primo, che appunto in quanto esposizione
teorica di una forma di moto (della vita di uomini producenti e associati nel
rapporto di capitale), essa ha una sua temporalità specifica, una
tendenzialità (espansione indefinita della produttività del lavoro,
sussunzione di forme antecedenti e loro inclusione nel proprio moto, estensione
tendenziale del rapporto mercantile a tutte le forme di vita, mercato mondiale),
e una dimensione storica (anche se - ovviamente - non cronologica e neppure, in
senso stretto, politica.) Questa tendenzialità o temporalità
storica abbraccia tutta l’epoca della produzione capitalistica. E oggi, quando
cresce il numero di coloro che vorrebbero possedere strumenti teorici per
analizzare l’attuale regno universale del capitale, comprenderne le modalità
e i limiti, ed eventualmente (ma certo, sotto condizioni pratiche tutte da
trovare) restringerlo, una teoria di questa portata appare - purché intesa nel
suo altissimo grado di astrazione, che ne esclude la applicabilità diretta al
dato empirico - di grande interesse.
Il secondo motivo, poi, è che - come scrisse V.S. Vygodskij,
il Nestore della nuova filologia marxiana scomparso cinque anni fà, un’ altra
teoria di questa ampiezza e portata semplicemente non esiste. Potrà un
giorno esistere, certo. Ma non esiste. Ora, è sempre buona regola (in qualunque
campo d’indagine) quella di partire dalla massima e più comprensiva teoria
esistente, svilupparla, introdurre teorie e ipotesi sussidiarie, e soltanto per
questa via modificare, un giorno eventualmente abbandonare, la teoria iniziale.
In questo campo - ossia nel campo della scienza seria - non vige l’arbitrio
relativistico, non lo anything goes, non il brillante inventore di
verità ultime - ma semplicemente, il lavoro rigoroso.
E allora, che dire della “crisi del marxismo”? Tutte
queste belle cose non l’hanno impedita affatto, anzi non merita quasi più
parlarne - dirà qualcuno. A me pare di no. E, anzi, che convenga partire di qui
proprio per guardare avanti, alla esigenza di teoria per i problemi del
XXI secolo. Esigenza che è poi anche, e forse soprattutto, pratica,
certo urgente di fronte alle tragedie in corso, e all’impotenza nei loro
riguardi, cui con tanta persistenza e tanti mezzi ci si vorrebbe far rassegnare
mentre, è pur vero, “un altro mondo è possibile”.
4. Dunque, ricordiamo. Verso il 1980 si potevano leggere
saggi e discussioni sulla “fine della centralità della classe operaia”.
(Questo esempio basterà, qui, anche perché fu preso allora come segnale della
“crisi”). Gli autori di quegli scritti intendevano in realtà, per lo più,
la frazione di classe costituita dai lavoratori della grande industria,
che in effetti diminuivano di numero. Non so, e non rileva più molto, se quegli
autori, che confondevano appunto “classe” - ente determinato dai rapporti di
produzione, e anzi modo d’esistenza, in questi rapporti, delle forze
produttive sociali - con un certo numero di individui, p. es. quelli che
entrano in fabbrica a ore fissate - se gli autori, dico, si rendessero conto
già allora che contribuivano a isolare questa frazione, il proletariato
industriale in senso stretto, da altre frazioni della classe lavoratrice
salariata, da altri lavoratori manuali e non, e questi da quella. Oggi si vede
bene, come per questa via si sia arrivati a presentarli tutti in ordine
sparso all’attacco generalizzato alle condizioni di vita, al salario globale
(sanità, scuole, trasporti, servizi pubblici in genere), al salario differito
(l’infame, ostinato attacco alle pensioni continua anche in quest’estate
torrida, dove la morìa dei vecchi “sembra” un fatto di natura, o un
fenomeno di costume, e giù sociologismi e moralismi inutili sull’egoismo dei
giovani ecc.). - Ma proprio quelle disquisizioni sulla “centralità” o no
della “classe operaia” erano loro stesse “crisi del marxismo”!
Erano loro stesse incapacità o non-volontà di risalire alla
costituzione di classe della società, alle scelte di medio e lungo periodo che
essa comporta, ai modi in cui l’egemonia di classe determina modi di vita,
tipi di comportamento, tipi umani possibili.
Una analisi di tutto questo non si improvvisa. [6] Il non
tentarla neppure, però, apriva la strada alle mode: l’assenza di teoria crea
un vuoto, che riempiono teorizzazioni affrettate, e poi mode intellettuali. È
inevitabile, e non era tutto. L’abbandono di fatto del punto di vista di
classe dava l’avvio al disorientamento e alla subalternità politicistica:
restando attaccati a operazioni e manovre politiche del giorno, si perdeva di
vista il problema, quel che era da indagare e da portare a teoria: il moto del
capitale, la nuova fase della produzione capitalistica che si delineava con
imprese transnazionali, produzione “a filiera”, “flessibilizzazione”, outsourcing
ecc. ecc., la reazione del capitale alla crisi di valorizzazione - tutto quello,
insomma, che è poi a monte della mediazione politica e dei suoi “teoremi”
manovrieri, destinati a durare lo spazio di un mattino. (Chi ricorda mai, per
es., il “proudhonismo” di B. Craxi?)
Di questi e simili discorsi eran piene le carte, verso il
1980. Il “marxismo” - leggi: l’uso delle categorie della teoria fondata da
Marx per intendere la realtà presente - da quelle carte se ne era andato da
tempo. La coerenza di classe, intanto, non poteva certo parer vincente nei
rapporti della mediazione politica a breve o medio termine: il vento tirava
dalla parte opposta, i lavoratori erano ridotti alla difensiva su scala
mondiale! Intellettuali e politici di sinistra vedevano, chi crollare personali
certezze teoriche troppo facilmente acquisite, o superficialmente accolte, chi
dileguarsi obiettivi di potere politico troppo baldanzosamente indicati. C’era
anche chi, semplicemente, non aveva sostanza culturale e morale abbastanza per
resistere all’offensiva dell’avversario, dispiegata invero in grande stile e
a tutti i livelli [7]. A sentimenti confusi, a ritardi
culturali che era troppo tardi per recuperare, a desideri più o meno confessati
di “star nella barca buona”, bisognava dare una voce, che si presentasse
come un fenomeno obiettivo, una novità reale, cui nessuno poteva sottrarsi. In
breve volger di mesi, senza che si sapesse bene come era nata, la crisi del
marxismo fu su tutte le bocche.
5. Eppure, la cosa non si riduceva a questo - anche se i
fiutatori del vento degli anni intorno al 1980 non sembrarono mai accorgersene.
Un decennio prima, nel primi mesi del 1971, Georg Lukàcs,
dettando gli ultimi capitoli a noi rimasti della sua grande opera incompiuta,
la Ontologia dell’essere sociale, aveva offerto pagine cristalline e
senza ambagi sulla “sterilizzazione del marxismo” avvenuta nel corso di
quattro-cinque decenni tanto in occidente che in oriente. Questa sterilizzazione
poneva l’esigenza di ricominciare dai fondamenti filosofici della concezione
avviata da Marx, e sviluppata poi in parte, ma anche bloccata e sterilizzata nel
medio XX secolo. A quella sterilizzazione il filosofo intendeva
rispondere rintracciando la ontologia dell’essere sociale, imbricata su quella
dell’essere cosmico non-vivente e su quella del vivente - ontologia cui Marx,
nell’800, aveva dato un contributo decisivo sì, ma non fondante la teoria ex-novo,
né, ancor meno, esaurendola (dato che questa, come ogni teoria autentica,
non può esistere se non svolgendosi).
Il filosofo doveva ricominciare dai fondamenti filosofici
della teoria, dal loro svolgimento, dalla loro esposizione più esplicita e “ora
divenuta possibile” (come suona il sottotitolo dei Prolegomeni all’
Ontologia dell’essere sociale). In questa esposizione non possiamo entrare
qui. [8] Ma il filosofo sa, e dichiara, che i fondamenti filosofici non sono tutta l’opera
di ripresa del marxismo dopo la sua sterilizzazione, dogmatica o
genericamente “critica”. La riformulazione filosofica, anzi, non è neppure
fine a se stessa - le categorie teoriche si sviluppano e sono vere nella
consapevolezza, via via acquisita con l’indagine attenta e rigorosa, del
processo sociale complessivo in tutte le sue dimensioni. A sua volta questa
consapevolezza non può vivere solo nelle carte, ma, per la sua natura di
momento del processo sociale stesso, si svolge, articola e concresce su sé
stessa nell’ azione degli uomini - tendenzialmente: di tutti gli
uomini.
Questa dunque era stata una reale “crisi del
marxismo” - molto tempo prima che i trombettieri della “svolta” verso una
(non nuova!) conciliazione di classe ne adottassero la frase, che fece
rumore da noi per un paio d’anni: la rinuncia a usare (con fatica e
rischio, nello studio e nella lotta) le categorie teoriche, prima di tutte
quelle della teoria del Modo di produzione, sviluppandole, integrandole di
ipotesi meno generali, “vedendo” di volta in volta i processi in movimento,
ricavandone una strategia, e via dicendo. Questa rinuncia è stata “crisi del
marxismo”? È stata deficienza di marxismo, come altri preferirà dire?
Ma le diciture contano poco. C’è soprattutto un gran lavoro non fatto, e che
va ripreso.
Per motivi diversissimi (che non è possibile indagare qui),
c’è stata obiettivamente, storicamente, socialmente una rinuncia a
servirsi di una teoria che - se sai, se vuoi fare il tuo lavoro, con la
necessaria umiltà - ti aiuta a comprendere i processi sociali, la storia anche,
in cui comunque sei compreso e coinvolto - e dunque, nell’azione
solidale, ad agire su di essi, a modificarli. Questo è quel che G. Lukàcs
chiamava “sterilizzazione del marxismo” nei decenni centrali del XX secolo.
Si tratta di un fenomeno storico, che come fenomeno storicoandrà indagato.
(Per cui le motivazioni di singoli studiosi e intellettuali, le iniziative di
politici e dirigenti interessano sì, ma solo nel contesto di quel fenomeno
storico. [9])
6. Già da questi accenni emerge che, se vogliamo cercare
un primo orientamento nella ingens silva di questioni cui il titolo
rimanda (e che ovviamente non saranno neppure tutte elencate nelle
considerazioni che seguono), occorre tener distinte tre dimensioni diverse:
- quella di un moto internazionale, nell’età del “Trionfo
della borghesia” e dell’imperialismo (la I., II. e III Internazionale, con
tutte le loro manifestazioni, strutture, alleanze ecc.), che si richiama
espressamente alle “idee di Marx”: oggetto, questo, di studio storico;
- quella, invece, di concezioni di gruppi intellettuali,
loro svolgimento, commistioni, crisi. Questa altra dimensione può essere
studiata soltanto in un rapporto duplice: da un lato, rispetto alle le
tradizioni di cultura e la loro elaborazione, discussione politica, ecc.,
nei singoli Paesi; dall’altra parte, entro la combinazione-scontro di
egemonie di classe che costituisce, in ogni istante, la vita culturale dei
popoli nel senso più ampio. [10] (Per
queste nozioni di egemonia di classe, classe dirigente e classe dominante,
blocco storico, ideologia come “filosofia di ogni uomo” e suo moto insieme
individuale e collettivo, il riferimento evidente è ai Quaderni di
Gramsci); [11]
- terzo, quella dei rapporti di produzione e dello sviluppo
della Riproduzione Sociale Complessiva nel loro quadro (“progressivo” e/o
“bloccante”, da vedersi analiticamente nei singoli casi): ossia della
Riproduzione Sociale Complessiva in forma di Modo di Produzione Capitalistico,
ai giorni nostri: questa dimensione non compare fenomenicamente senz’altro,
e rende intelligibili le altre due attraverso elementi intermedi (p. es.,
rapporto tra avanzamenti scientifici e innovazione tecnica che quelli rendono
possibile, senza mai determinarla direttamente).
Quest’ultima dimensione, oggi, rende possibile tentare una
analisi della mondializzazione - ossia dell’integrazione in corso, e
dapprima economico-produttiva, del genere umano, nelle sue diversità antiche e
segmentazioni nuove (e volute!), mediante il mercato mondiale
capitalistico attuale, con produzione a filiera, società transnazionali
e multinazionali, dominio della finanza ecc.). S’intende da sé come ciò sia
cosa ben diversa dalla c.d. “globalizzazione”, comprendendo non i soli
aspetti tecnico-aziendali, imprenditoriali, monetari e finanziari, ma anche l’elemento
di tirannide contenuto nella progressiva riduzione di numero dei centri di
potere effettivo, nello svuotamento della politica, nella dislocazione delle
funzioni pubbliche ecc.; comprendendo altresì, concettualmente, lo sterminio
sistematico - non già dei soli (!) popoli del “3° mondo”, ma,
potenzialmente e attualmente, di chiunque non sia “utile” (non c’è più
infatti nulla che sia soltanto “locale”: quando le risorse ci sono, come
è in effetti, un buon ospedale a Firenze vuol dire: un altrettanto buon
ospedale a Palermo o a Nairobi potrebbe farsi, o prepararsi rispettivamente, ma non
si vuole); in terzo luogo, il concetto di “mondializzazione”
permette di cominciare a render ragione delle reazioni, resistenze e lotte dei
popoli e dei lavoratori, dovunque - in condizioni altamente diversificate
sì, ma obiettivamente unificabili alla luce dello stesso principio, che “non
c’è più nulla di soltanto locale”, cioè che comportamenti diversissimi si
riferiscono, anche se per lo più ancora inconsciamente, a
problemi in radice comuni. (Come ha scritto A. Catone, è partendo dallo
sviluppo del capitale che va inteso il neoliberismo, e non viceversa!) - La
regolazione sociale totale mediante “il mercato” è pura illusione
propagandistica, s’intende; interessa invece, nel contesto, il “Limite della
competizione” (Petrella et alii ), cioè il contrasto crescente tra uso
razionale delle risorse per scopi razionalmente determinati e la c.d. “razionalità
del mercato”. Questo, appunto, non è un puro “problema economico”, come
non è puro “folklore” p. es., l’elemento locale, tradizionale, “folkloristico”
dei Sem Terra brasiliani, ecc. ecc.
7. Ma G. Lukàcs dà, nelle pagine ricordate, anche una
indicazione di contenuto. La “sterilizzazione del marxismo” (a Est e a
Ovest) avrebbe avuto due aspetti. La dogmatizzazione, o riduzione a un canone ne
varietur di “indicazioni dei Classici”, escludente in linea di principio
problemi nuovi; e la riduzione a una generica critica dell’esistenza umana “nel”
capitalismo (di nuovo ’il’ capitalismo in generale... ). Quest’ultima
contribuì bensì in alcuni casi a suscitare opere letterarie, critiche,
filosofiche di notevole rilievo, in rapporto con le tradizioni di cultura di
Paesi determinati (basti pensare a Sartre, Camus, Merleau-Ponty in Francia, alla
letteratura e al cinema neorealista in Italia, ecc.); in altri casi, aprì la
via a interessanti combinazioni con ricerche psicologiche, antropologiche, ecc.,
sorte autonomamente tra ’800 e ’900.
Ora questo doppio processo si svolge, sottolinea Lukàcs, sia
ad Est che a Ovest (nel periodo della contrapposizione tra i due blocchi). Vuol
dire questo che si è avuto a che fare con un marxisrno, che però è
stato “sterilizzato”? O è una illusione ottica, determinata, nel “politico”
G. Lukàcs, dalla equazione “scontro del due sistemi mondiali”= “alternativa
tra capitalismo e socialismo”? Questa lettura riduce il filosofo alla sua
collocazione politica nel tempo, e lo tratta dunque come non-filosofo;
soprattutto, essa riporta l’autore della Ontologia dell’ essere sociale, come
ogni altro autore, alla dimensione delle “scelte” e diatribe di
intellettuali in gruppi, che hanno esistenza culturale di momento in momento
bensì, dominano talora le mode, ma proprio per questo non hanno rilevanza
teoretica.
Vero è che con “marxismo” si è inteso anche la forma
unificante di una intera eredità di cultura, la “cultura moderna”
(europea). (Non da Gramsci: il quale parla bensì di “tutta la cultura moderna”,
di cui però “il marxismo... è stato una parte; mentre la “filosofia della
prassi” ha come antecedente la storia moderna - in Gramsci, e già in
Labriola.). Questa accezione ha buone ragioni che possono corroborarla, una
miriade di studi spesso utili su Marx e Illuministi, economisti, filosofi
classici antichi e moderni - che talora la confortano e talora no; ed è alla
base della discussione sulle “fonti e parti integranti del marxismo”, che
pure ha dato risultati interessanti nella prospettiva dell’insorgere, tra il
’600 e l’800, di una concezione rigorosa, o anche “scientifica”, dei
processi storico-sociali. Tuttavia, essa mi sembra decisamente limitata rispetto
a quella labriolana e gramsciana di una eredità sempre di nuovo da
riconsiderare, e di uno sviluppo mai garantito, che sono contenuti nel concetto
di “filosofia della prassi”. Non è il caso di entrare qui nel particolare.
Basti dire che se antecedente della “filosofia della prassi” è lo sviluppo
della civiltà moderna (europea), la stessa “filosofia della prassi”
si trova a buon diritto oggi, e non può non trovarsi, a dover fare i conti con
la critica e autocritica dello eurocentrismo, del sociologismo colonialista, di
quel progresso dell’incivilimento che oscurava e negava i suoi prezzi di
barbarie e di sterminio negli altri continenti (per tacere delle varianti bolse
del genere: progresso = sviluppo della tecnologia - le quali, a vero dire, non
possono riguardare la filosofia della prassi). Ma c’è di più. La
mondializzazione via dominio incontrastato del capitale è - forse - forma
antagonistica della unificazione del genere umano, maniera atroce di stabilire
criteri e valori di vita comuni mediante imposizione, sterminio e ribellione. La
produzione “a filiera” e computerizzata è - forse - una tappa obbligata
dello sviluppo della produttività del lavoro sociale. Ma: questi sono problemi
aperti oggi, sotto l’assillo di un potere irrazionale che non solo
massacra in interventi militari aperti, ma stermina bloccando ogni uso razionale
delle risorse, produce e diffonde armamenti nucleari, chimici, batteriologici
come durante la “guerra fredda” e peggio; che rifiuta l’uso razionale
della ecosfera, etc. - Insomma: se davvero la “civiltà moderna” pensata
nella idealità del suo concetto può essere ricondotta (contro il nichilismo
irrazionalista) alla universalità morale d’origine cristiana filosoficamente
riformulata da Kant, alla sfera della libertà ragionevole di Hegel, al “libero
sviluppo di ciascuno condizione del libero sviluppo di tutti” del Manifesto
allora, mi sembra, quel che fa davvero problema non è la “ribellione
avventurosa” da Stirner a Nietzsche a Foucault a Deleuze, ma il fatto che l’ambito
degli scopi umani possibili, ampliati via via dalla scienza, ma mai
decisi da lei (come vide Kant) si è ampliato abbastanza, certo grazie
essenzialmente alla “civiltà moderna (europea)”, perché la gestione
razionale e ragionevole del globo e delle sue risorse sia necessaria e
urgente. Ma questa gestione razionale non può essere imposta dall’alto:
essa può realizzarsi solo entro e grazie a una umanità pacificata. In questo
consiste - a mio giudizio - la sfida posta a una “filosofia della prassi”
all’altezza del nuovo secolo: pensare, [i] con modestia e
pazienza, le modalità di un costituirsi non catastrofico della “umanità”,
del “genere umano unificato mondialmente “ (Gramsci) - “umanità” e “genere
umano” i quali tuttavia non sono politicamente costituiti. (Il giorno
in cui lo siano, è quello in cui si metterebbero anche le briglie al tiranno.)
8. Da ultimo, “marxismo” è stato inteso anche come
assunzione dell’eredità progressiva, democratica, antioscurantistica di
popoli e nazioni. Specialmente nel ’900, questo ha significato una massa
ingente di ricerche e attività, che i potenti di oggi vorrebbero dimenticate,
miranti a tener desta, a diffondere a approfondire la consapevolezza di sé, con
ciò la memoria storica e la dignità, di grandi masse di uomini.
La lotta contro la irratio è più attuale che mai - ma occorre
vedere la nuova dimensione del problema: in breve, l’inaccettabilità di ogni
forma di coscienza razionale di massa per i potenti di oggi, nel che
consiste un aspetto essenziale della tirannia (“morte della politica” ecc.).
E in secondo luogo, a differenza da quanto poté valere nel
’900, la lotta contro la irratio implica oggi il riconoscimento della
distinzione tra Weltanschauung, [visione del mondo], e filosofia. La filosofia
delle scuole - scriveva Goethe in Poesia e Verità - offrendo
ordinatamente risposte a tutte le domande, non risponde a nessuna domanda vera,
e disgusta gli intelletti più svegli. (Non molto diversa, salvo nel tono, è la
distinzione di Kant tra “nozione scolastica” e “nozione cosmica” di
filosofia.) Alle “domande vere”, cioè necessariamente nuove, la filosofia
risponde producendo nuova filosofia - nuove verità filosofiche. (Come avvenne
per esempio quando Spinoza, ponendo la questione ontologica di come
potesse pensarsi un ente infinito necessariamente verace, si lasciò alle spalle
il dio di Cartesio, definì la sostanza nel modo celeberrimo - e meritò, come
vediam meglio tre secoli dopo, l’epiteto allora infamante di “ateo perfetto”).
In altre parole: la “ideologia” pessima della “morte delle ideologie”
non si può controbattere mostrando la substitutionem terminorum, la
sofistica che essa contiene. Occorre prendere atto della vasta opera di
abbrutimento di massa in corso da decenni, sapere che la maggioranza dei giovani
e giovanissimi ignora affatto che cosa sia “ideologia”, “cittadinanza
politica, sociale, culturale, ecc.” - e che dunque se la “filosofia della
prassi” del secolo XXI saprà adeguarsi al suo concetto (quello appunto che ne
ebbero Gramsci e Labriola) le vie della sua diffusione non potranno essere che
quelle di una sua futura diffusività, ora soltanto possibile - di una
nuova presa di coscienza, in ogni individuo, della possibile libertà, del
possibile autogoverno razionale degli uomini e della loro Terra, e della
tirannide che questo vuole bloccare e soffocare. Queste vie - mi sembra - un
poco si delineano, in settori di ricerca economici, giuridici, filosofici, in
campi delle scienze “naturali”, come la biologia, che non possono più
sottrarsi al confronto con la loro stessa dimensione umana e sociale. E altrove,
nelle scienze e nelle arti. Talvolta anche in atti politici, come quello del
novembre 2002 a Firenze. Se queste vie, una volta percorse e intrecciate,
prenderanno nome e terminologia “marxista”, non so, e non mi pare molto
rilevante. L’essenziale - mi pare - è fare il lavoro, portare avanti a
tutti i livelli, dal più alto teoricamente a quello quotidiano e “popolare”,
l’opera della ragione, della libertà, della vita divenuta umanamente
possibile, contro la tirannide e lo sterminio. Questo potrà essere il “fare”,
nel XXI secolo, che seguirà al “marxismo” e ai “marxismi” storicamente
esistiti, li continuerà, supererà - e si lascerà alle spalle la “crisi del
marxismo”.
[1] Alcune parti di questo articolo compaiono anche, sotto il titolo. Che cosa significa “crisi del marxismo”? nella rivista “La Contraddizione”, 99 (2003).
[2] Cfr. in “Proteo” 1/03, e in questa stessa
rubrica, Classe lavoratrice, sindacato, storia del movimento operaio, p.
66-69.
[3] Anche se,
naturalmente, si può leggere di class consciousness, class struggle e
simili. Ma suona insolito. Indice di pensiero “Un-American”, diceva il
senatore McCarthy, e si dice di nuovo.
E si è potuto dire che queste espressioni sono “straniere”...
[4] “Popolo” in questo
senso entra nell’uso anche da noi all’epoca della Rivoluzione Francese. Cfr.
p. es. un bel canto della Repubblica Partenopea del 1799: “...Già nato uguale
e libero / ma suddito alla legge / è il popolo che regge / sovrano ei sol
sarà.” - Prima, questa accezione di “popolo” era dei dotti, letterati e
filosofi. - Ovviamente, anche in Inghilterra il consenso linguistico non è
totale, e la TUC ha pubblicato, ancora non molti anni fa, una History of the
English Working Class. Del resto, scrivendo in inglese colto (non quello del
ridicolo diplomino affibbiato,volentieri a caro prezzo, ai nostri studenti), è
perfettamente possibile render chiaro se si sta parlando di “storia del popolo
inglese”, delle sue lotte democratiche ecc., o di “english people”
nel senso banale, o in quello, che il senso banale non esclude, dell’appartenenza
etnico-razzistica (cfr. oggi, da noi, l’espressione “ lumbard”...)
[5] Cfr. gli studi di Chritopher HILL, W. H.
CALDWELL, E. WILSON e altri più recenti.
[6] Ce ne era
stata una, alle origini del PCI, nei Quaderni del carcere dintonio
Gramsci. Si disse (ma invano) in quegli anni, che il solo modo di rifarsi
degnamente a Gramsci era rifare la sua puntigliosa, minuziosasplendida
analisi di tutti gli aspetti dell società italiana - 50 anni dopo.
[7] I meno giovani ricorderanno come in quegli anni i tavoli
delle librerie di mezza Europa cambiarono faccia da un trimestre all’altro,
mentre avanzava la monopolizzazione e finanziarizzione dell’editoria - per non
parlare dei “mezzi di comunicazione di massa”. E per non parlare,
naturalmente, del “fascino discreto della borghesia”, che si esercita col
potere economico in tutte le sue forme...
[8] Solo va accennato che la Ontologia proposta da Lukàcs offre tra l’altro
una concezione di grande portata della unità di scienza e filosofia nel
riferimento di entrambe a un tertium, la prassi effettiva degli uomini.
La prassi effettiva lukàcsiana ha un analogon nei pensieri
obiettivi della Scienza della logica di Hegel, cioè pensieri
effettivamente prodotti e praticati dagli uomini associati, e quindi storici.
[9] Per quanto tragica e spaventosa, neppure la repressione staliniana
può esser presa, storicamente, come “causa prima”!
[10] Per chi non sia schiavo di pregiudizi
corporativi è evidente che le egemonie di classe sono a monte delle
attività di gruppi intellettuali, e non viceversa: esse possono,
sussidiariamente, passare anche attraverso queste attività. Per fare
un esempio: il consenso di massa a trasferire il 30% (o più) del
reddito aggregato delle famiglie a proprietà immobiliare, banche ecc., in
affitti, mutui fondiari ecc., è stato determinato primariamente, in tempi
lunghi, da scelte di classe sul modo di costruire le città, il sistema dei
trasporti ecc.: la forma mentis del “casa mia casa mia, per piccina
che tu sia” e simili può, secondariamente, esser stata
cantata e decantata da letterati, canzonieri, favolisti, illustratori.
[11] V. ora anche lo studio di Fabio FROSINI, Gramsci e la
filosofia. Saggio sui Quaderni del carcere. Carocci, Roma 2003.
[i] Pensare concettualmente
non certo escogitare, o immaginare. Questo, si dirà, è “solo” compito
specificamente filosofico. Infatti. Per converso, gli effettivi filosofi della irratio,
come Nietzsche, non fanno (solo) polemiche contro la democrazia e il socialismo,
ma argomentano che essi sono impensabili. Si intende poi da sé che la
confutazione di queste filosofie (la elaborazione delle “armi più raffinate e
decisive” in sede di lotta egemonica, secondo Gramsci) può essere premessa
alla costruzione culturale- politica di un “senso comune” democratico, ecc.
Di nuovo per converso: è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere l’opera
sistematica di distruzione di un senso comune democratico, e delle
corrispondenti forme di cultura e di vita soggettiva, condotta dalla controparte
ormai da decenni, con grande ricchezza e varietà di mezzi.