La fabbrica della produzione snella; ovvero come snellire e svilire il lavoro
Pecorella Vincenzo
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Introduzione: potere e ignoranza
Mentre si vanno spegnendo gli echi dell’ultima guerra che
ha sostituito in Iraq il disordine illegale del dittatore Saddam con il
disordine “legale” degli stranieri occupanti, l’attenzione degli italiani
e degli occidentali in genere sembra ritornare agli argomenti usuali: quale il
governo migliore per far girare più soldi e i campionati sportivi. Sembra che
tutto stia lentamente tornando alla routine del nostro sistema di vita un po’
turbinoso, dall’apparenza luccicante e dalla sostanza che si consuma e si
riproduce continuamente.
Come la maggior parte di noi si mette alla guida conoscendone
a memoria i comandi, ma ignorando l’esatto funzionamento dei meccanismi di una
automobile, avendo quindi di una cosa tanto familiare una cognizione
superficiale, così - ragionando su scala più vasta - abbiamo la stessa
conoscenza vaga dell’ambiente in cui abitualmente viviamo nel quale, eppure,
sembriamo muoverci tanto disinvoltamente. E come capita all’automobilista
rimasto in panne di sentirsi smarrito e sfortunato, non sapendo che fare fino a
che qualcun altro non risolva la sua disavventura, il quale automobilista poi
apprezza con infinito sollievo di poter ritornare alla sua “normalità”
(guidare con il minimo sforzo di comprensione una macchina tanto complessa),
così sembra ora succedere - sempre su scala più vasta - a noi occidentali: di
apprezzare con grande sollievo la rapida fine di questo fastidio alle nostre
abitudini, di questa guerra, di questa distrazione dai nostri consumi. Perché
per un attimo il mondo si stesse sconvolgendo, cosa c’è dietro gli
avvenimenti, come funzionano l’economia, la società e la guerra: troppo
fastidioso cercare di capirlo, per l’italiano e per l’occidentale medio.
È giusto indicare i motivi di questa perdurante ignoranza
nella volontà del vertice del sistema, che così previene l’erosione della
propria base di potere. Mantenere il popolo nell’ignoranza è l’essenza
dello spirito “conservatore”: dato che al mondo ogni posizione è relativa e
ogni differenza casuale, il modo migliore per chi capita al vertice di un
sistema per rimanerci è di evitare il più possibile movimenti, evitare il più
possibile che circolino informazioni, idee, progetti diversi da quelli
funzionali al mero mantenimento dell’esistente. Ma il fatto che l’ignoranza
della gran parte degli uomini sia indotta non esclude che un’altra gran parte
di essi pecchino di pigrizia morale o che altri ancora, dotati di antenne più
sensibili degli altri, le usino solo per attirare invece che per prestare
attenzione. E infine - attenuante generale - non bisogna dimenticare che il
nostro punto di vista rimarrà necessariamente relativo e limitato, per quanti
sforzi un uomo possa fare di allargare i propri orizzonti. Già, perché le cose
umane soggiacciono alle stesse leggi fisiche delle stelle e di ogni cosa: ogni
messaggio, ogni informazione, ogni segnale non può superare una certa
velocità, finita. Per di più siamo in un angolo dello spazio e del tempo e non
abbiamo orecchie e occhi grandi abbastanza; e così mai nessuno potrà avere,
mai, non diciamo una visione simultanea e globale della totalità delle cose ma
neanche una visione grande a sufficienza.
A dispetto di tutto ciò noi partiamo dall’indimostrabile
assunto che la somma totale della consapevolezza che abbiamo, come specie, di
noi stessi e del mondo, è di molto inferiore a quella che potrebbe normalmente
essere. Perché sapere, il più delle volte, è questione di immaginazione. E io
immagino, quindi so, che ognuno di noi potrebbe sapere, quindi immaginare, di
più.
Non è sbagliato, logicamente, prevedere che, a partire da
una più ampia cognizione della società e del mondo, si aprirebbe la
possibilità di cambiare la società e anche il mondo. Tenere questo obiettivo
di fondo dà all’approfondimento della conoscenza, allo sviluppo dell’intelligenza
un’importanza che non potrebbe essere maggiore. Se non abbiamo fretta, non
avremo bisogno della logica per prevedere che si può cambiare: l’esperienza
delle cose e l’evidenza della loro provvisorietà ci convincerà che le cose,
semplicemente, devono cambiare. Per forza.
Procedendo per ideali cerchi concentrici, dal più grande al
più piccolo, restringiamo adesso il campo della nostra attenzione, tralasciando
le considerazioni più generali e focalizzandola su un tipo di fenomeni che sono
relativamente poco noti alla maggior parte di noi, esattamente come i meccanismi
interni di un’automobile, e che pure sono alla base del nostro sistema
economico e sociale. Cronologicamente si potrebbe cominciare da tante parti:
nulla è più aleatorio dei periodi storici, tanto più se parliamo di
avvenimenti vicini, e nulla è più discutibile dell’individuazione di un
certo concerto di avvenimenti come cruciale. Comunque: poniamo un “paletto”
e di lì dipaniamo un filo logico di avvenimenti. A partire all’incirca da una
ventina d’anni fa commenteremo brevemente cosa è avvenuto a livello mondiale
nell’industria, cosa ci sembra avvenire nell’industria di una sola nazione e
poi cosa accade in un’azienda particolare, più o meno ai nostri giorni. In un
percorso che va dai principi più generali ai casi particolari concluderemo,
paradossalmente, lì dove chi scrive ha iniziato: all’esperienza e alle
testimonianze dirette della fabbrica dei giorni nostri.
1. Capitalisti che non sanno copiare
Negli anni settanta e ottanta del secolo appena passato all’interno
del sistema economico mondiale si fece evidente il fenomeno della crescita
eccezionale dell’industria giapponese. Dalle automobili all’elettronica i
prodotti dell’estremo oriente invasero i mercati mostrando la fortissima
capacità economica del paese asiatico e mettendo in grande difficoltà i
produttori europei e americani. Essi fino ad allora erano stati più forti,
oltre che per il tradizionale primato tecnologico, perché inventori della
divisione del lavoro e dei sistemi di produzione di serie: catena di montaggio,
taylorismo, ecc. Ma tutto questo, di fronte all’offensiva industriale
giapponese, non bastava più.
Spaventati dalle perdite di quote di mercato i grandi
industriali americani ed europei commissionarono ai loro consulenti costosi
studi per indagare a fondo il fenomeno, per capire qual’era il segreto della
produzione di merci giapponese, tanto concorrenziale rispetto a quello che si
riusciva a fare in Europa e nel nord America. Intellettuali di rango viaggiarono
da un capo all’altro del mondo, parteciparono a convegni, ebbero spesso il
permesso di visitare fabbriche e talvolta intervistare i lavoratori. Scoprirono
così il “just in time”, la fabbrica senza magazzini, la “lean production”,
la produzione snella, e individuarono il segreto degli asiatici in una più
razionale organizzazione del lavoro che permetteva di ridurre i costi, le
inefficienze e i tempi morti a livelli mai prima sperimentati.
Da quelle ricerche venne anche fuori - ma questo forse passò
un po’ in secondo piano - che le aziende giapponesi raggiungevano certi
risultati soprattutto perché inserite in un contesto che vedeva, se così si
può dire semplificando, tutta l’organizzazione sociale come una fabbrica,
come un’azienda. In un ambiente permeato di tradizionalismo gerarchico e
disciplinato, le aziende giapponesi avevano innestato benissimo e “armonicamente”
un sistema di relazioni industriali secondo il quale il rapporto tra azienda e
dipendente durava una vita intera, basato sulla fedeltà e sulla fiducia
reciproche. Così era relativamente facile chiedere ai dipendenti - tutti: dal
primo all’ultimo - di partecipare attivamente al processo produttivo, di
metterci quella “buona volontà” che faceva funzionare una fabbrica
giapponese senza scorte di magazzino, “just in time”. Se le fabbriche
giapponesi potevano permettersi di essere snelle e di smobilitare grossi
capitali prima impegnati in scorte di magazzino teoricamente inutili, era
perché veramente riuscivano a coinvolgere anche l’ultimo impiegato e l’ultimo
operaio, facendogli comprendere l’importanza della segnalazione in tempo utile
(né troppo in anticipo, né troppo i ritardo) dell’esaurimento di una scorta,
facendo insomma sentire tutti i dipendenti parte di una squadra se non
addirittura di una grande famiglia allargata. In ogni filiera produttiva il
numero di magazzini intermedi, di semilavorati o di componenti, è elevato:
eliminandoli o riducendoli al minimo, il risparmio è così moltiplicato per il
numero stesso di magazzini. Se però con il sistema del “just in time” si
risparmia tantissimo si rende anche tutto il sistema particolarmente delicato e
sensibile: ogni fermata in un punto qualsiasi della catena può significare la
fermata dell’intero ciclo, se non ci sono scorte a fare da ammortizzatori.
Questo i giapponesi lo sapevano bene: il rimedio è avere sempre degli addetti
pronti ad accorrere, a concentrare le energie e a risolvere i problemi lì dove
si presentano; la soluzione è avere gente motivata. E le aziende giapponesi
infatti - conclusero gli studiosi - rinunciavano a delle quote di profitti per
mantenere relativamente alte le retribuzioni reali dei dipendenti, sia pure in
forme diverse.
2. Produzione snella... salario snello
La prima, istintiva reazione a quelle ricerche fu dire:
imitiamoli. Ma quando si cominciarono a mettere in pratica, anche nelle
fabbriche europee, i principi della “lean production”, lo si fece tardi e in
maniera svogliata, senza convinzione. Soprattutto, lo si fece dopo che i grandi
padroni, italiani in particolare, avevano scelto altre strategie per
contrapporsi allo strapotere industriale giapponese e orientale: avevano già
deciso che l’unico modo era tenere basso il costo del fattore produttivo
lavoro. Fu per questo che, a partire dagli ultimi anni ottanta e i primi
novanta, il credo della “lean production”si diffuse nel nostro paese solo
come una moda o poco più. Si videro nelle fabbriche europee (questo avvenne,
per esempio, nella SKF italiana tra il 1994 e il 1995) dirigenti scendere in
officina e rimboccarsi le maniche delle camicie, prendere in mano stracci e
secchi e dare l’esempio agli operai dell’applicazione sul campo delle parole
d’ordine “pulire - ispezionare - riparare”. Questo perché la scuola
giapponese, stando agli studiosi, aveva mostrato che la forza del metodo nuovo
stava nel coinvolgimento diretto anche dell’ultimo operaio, al quale bisognava
spiegare la filosofia aziendale e convincerlo che pulendo ogni giorno la propria
macchina e il proprio posto di lavoro si sarebbero eliminati i mille invisibili
sprechi e i tanti motivi di inceppamento che, messi insieme, rendevano l’insieme
della impresa occidentale un colabrodo e zoppicante, rispetto a quella
giapponese. I dirigenti, nella SKF come altrove, diedero l’esempio per un paio
di giorni, poi scesero a controllare per un paio di settimane, poi continuarono
a tenere riunioni sull’argomento per qualche mese ancora ma, alla fine, l’esperimento
della “lean production”, del “pulire-ispezionare-riparare” passò nel
novero delle idee belle e impossibili, travolta come tante altre dalla
passività degli operai, dalla loro indolenza, dalla loro incomprensione di un
carico di responsabilità richiesto a fronte di niente, solo parole... Non
funzionò, in Europa e neanche in America, il modello giapponese. Forse perché
mancava il contesto culturale fatto di tradizionale senso della gerarchia e
della disciplina, più probabilmente perché gli imprenditori occidentali non
vollero accettare quella parte essenziale del meccanismo fatta del trasferimento
di una più consistente parte degli utili ai dipendenti.
Non ci fu bisogno di attendere la fine dell’esperimento: la
risposta era stata la compressione del costo del lavoro: esattamente l’opposto
di quello che praticavano i giapponesi. Già a partire dalla fine degli anni
ottanta e all’inizio degli anni novanta, nei loro convegni, gli industriali
italiani molto concretamente misero l’accento sulla riduzione del costo del
lavoro come unico modo per arginare la concorrenza degli orientali in termini di
profitti e quindi di “sviluppo”. Tutto un clima culturale fu pesantemente
condizionato per arrivare al coinvolgimento dei grossi e ingombranti sindacati
italiani nella “concertazione”, nel fare accettare loro nero su bianco “la
politica dei redditi” come “strumento indispensabile della politica
economica, finalizzato a conseguire... una maggiore competitività del sistema
delle imprese”. Questo avvenne in Italia nel 1993, non a caso con l’impegno
del governo in carica.
3. Il caso Melfi: un processo produttivo fuori controllo
Insomma invece di confrontarsi con gli orientali sul terreno
dell’efficienza, gli industriali italiani scelsero la strategia di ridurre il
costo del lavoro, coinvolgendo e spesso letteralmente corrompendo il sindacato;
percorrendo una strada che ha portato il potere d’acquisto dei lavoratori
dipendenti italiani, negli ultimi dieci anni, sempre più in basso. Una scelta
“tattica”, più che “strategica”. Con quali conseguenze?
Stringiamo il cerchio della nostra attenzione e vediamo cosa
accadde in una azienda italiana, la più rappresentativa. Nella regione intorno
a Melfi, dove fu fondata la SATA (una nuova ragione sociale servita alla FIAT
anche per azzerare i diritti pregressi che dagli operai del nord si sarebbero
dovuti allargare ai nuovi assunti del sud?), la fabbrica “fiore all’occhiello”
della FIAT, all’epoca i manager industriali individuarono un tale bacino di
potenziale mano d’opera che avrebbe permesso di imporre condizioni per loro
ideali: ritmi di lavoro più serrati e paghe minori. Nella fabbrica di Melfi si
applicò infatti appieno la ricetta italiana per arginare l’ondata giapponese.
In aggiunta, ma solo in aggiunta, a qualche dirigente non fu negato lo sfizio di
applicare, superficialmente, i canoni della “lean production” tanto
affascinanti e di moda. All’inizio il taglio dei costi portò naturalmente
grandi e immediati risultati; poi però lavoratori mal pagati cominciarono a
lavorare sempre peggio. Svogliatamente, tralasciando di stringere oggi un
bullone lì, domani una vite da un’altra parte, gli operai della FIAT
costruivano automobili che arrivavano dai clienti sempre peggio montate, sempre
meno affidabili. Certo è sbagliato fare di ogni erba un fascio, ecc. Ma, fuori
di retorica, la sostanza fu questa: nella fabbrica di Melfi come altrove il
processo produttivo è andato sempre più fuori controllo, sempre meno aderente
alle procedure previste. Un caso concreto, oggetto di una testimonianza di prima
mano: se si stava costruendo, per esempio la “Punto” e in magazzino finivano
le ruote di quel modello, pur di non fermare la produzione si montavano le ruote
della “Panda” (usiamo nomi di modelli a caso), in modo da far arrivare
comunque le vetture a fine linea, sul piazzale del prodotto finito, e lì
parcheggiarle e contarle come “produzione”. Poi gli operai erano contenti di
venire a lavorare di sabato a straordinario (inevitabile, con delle misere paghe
base), per riprendere quelle vetture, inserirle di nuovo in linea e fare due
volte il lavoro di montaggio delle ruote o di altri componenti, raddoppiando i
rischi di montaggi frettolosi o imperfetti. Tutto il sistema di controllo
qualità interno che assorbe gran parte delle energie di una qualsiasi impresa
moderna non poteva, naturalmente, che adeguarsi, adottando criteri e margini di
tolleranza sempre più larghi.
Il management non aveva fatto i conti esatti con la grande
capacità di adattamento della specie umana e operaia in particolare: pensava di
essere a capo di un sistema produttivo in cui certe direttive erano più o meno
esattamente eseguite, come teoricamente dovrebbe essere. Invece gli operai, mal
pagati, male lavoravano. Un direttore o un capo voleva tanti pezzi? E loro
glieli davano, senza sprecarsi più di tanto, risparmiando sui componenti che
non trovavano immediatamente in magazzino o sulle viti più scomode da montare.
I capitani d’industria nostrani si illudevano di aver trovato finalmente il
modo per sfatare il proverbio e avere contemporaneamente la botte piena e la
moglie ubriaca: operai a basso costo e produttivi.
La conseguenza fu che dell’errore madornale, prima che se
ne accorgessero i manager, si accorse “il cliente”. Le automobili FIAT
rimasero sempre più invendute, tanto da far persino ricorrere i dirigenti
disperati a quella bugia con le gambe corte di tenere nascosti i dati reali
delle vendite, fatturando migliaia di automobili letteralmente imposte ai
concessionari con formule capestro. Avvenne poco prima che il caso scoppiasse
sulle prime pagine dei giornali. Ricordate? Furono i clienti ad accorgersi che
le automobili FIAT non corrispondevano a quel rapporto qualità/prezzo che i
manager avevano pianificato, convinti com’erano che in officina le cose
andassero come loro le avevano progettato. Furono i clienti a non comprarle
più.
La catastrofe industriale fu conseguente alla pochezza e alla
miopia di una intera classe dirigente, avvertita del fatto quando era ormai
troppo tardi. Fu l’inevitabile conseguenza della sua rozzezza intellettuale,
si potrebbe dire. Un risultato che forse si sarebbe potuto evitare, con una
maggiore cognizione o una maggiore coscienza diffusa. O forse no, se si è
convinti che l’egoismo e la miopia di quei manager e di quegli imprenditori
non fossero solo casi individuali ma caratteristici della loro classe sociale,
che è classe dirigente.