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Eurobang: il capitalismo italiano

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Federico Merola
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Esperto di finanza strutturata internazionale e docente di Statistica Economica alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università delle Tuscia di Viterbo

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I casi Parmalat e Cirio come esemplificazione dell’attuale crisi dei mercati finanziari

Federico Merola

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1. Parmalat: l’ennesimo caso di dissesto industriale

Nel corso degli ultimi anni si sono verificati clamorosi casi di dissesto aziendale, in Italia come in altri paesi occidentali. Episodi che hanno variegate e complesse chiavi di lettura. Una di queste fa sicuramente riferimento al funzionamento del sistema finanziario e creditizio. Abbiamo già espresso nel precedente numero di Proteo la nostra convinzione che la crisi dei mercati finanziari degli ultimi anni derivi solo in parte dal negativo andamento dell’economia reale, dipendendo in realtà anche da criticità interne al settore connesse alle regole che governano i mercati, il comportamento degli operatori e i meccanismi di sollecitazione e tutela del pubblico risparmio.

Questa valutazione era consequenziale all’osservazione empirica di casi concreti, tanto incresciosi quanto indicativi di un potenziale negativo forse non ancora pienamente esploso. Su queste basi era stata poi elaborata un’ampia analisi dei principali nodi del settore, che toccava aspetti come i conflitti di interesse nel sistema finanziario, la scarsa evoluzione della Corporate Governance, le lacune della vigilanza e così via.

Poi è scoppiato anche il caso Parmalat. Per molti versi non si tratta di un caso come gli altri. Quantomeno per le dimensioni. Dalle informazioni attualmente disponibili, il buco della Parmalat si aggirerebbe intorno ai 14 mld di Euro. Un valore pari a circa l’1% del PIL Italiano. E le obbligazioni emesse dovrebbero attestarsi, stando all’audizione parlamentare del Governatore della Banca d’Italia, intorno ai 7 mld di Euro. Due dei quali sottoscritti da piccoli risparmiatori italiani. Tanto per avere un termine di paragone, il caso Enron - considerato il più grande fallimento di tutti i tempi in termini assoluti - è stato pari allo 0,5% del PIL degli Stati Uniti, se consideriamo i valori di Borsa del gigante energetico prima del fallimento.

Ma il caso Parmalat ha un’ulteriore aggravante: arriva subito dopo quello Cirio, che aveva già profondamente minato la fiducia nei confronti del sistema finanziario e creditizio del nostro paese.

2. Capitalismo familiare sotto accusa e contributo “aggiuntivo” del sistema finanziario

I casi Parmalat e Cirio possono essere esaminati sotto diverse prospettive. C’è il capitalismo familiare italiano, più incline a comandare che a governare le aziende. C’è la crescente dimensione globale dei gruppi, industriale e finanziaria, che favorisce la “distrazione” di fondi dal processo produttivo e la realizzazione di falsa contabilità. C’è la struttura collusiva e marcatamente domestica del nostro sistema economico e creditizio, che mantiene il paese confinato nel proprio provincialismo senza ambizione. C’è l’inafferrabile rete dei conflitti di interesse: tra banche e imprese, imprese e società di revisione, banche e piccoli risparmiatori e persino tra autorità di vigilanza. C’è la commistione più deteriore tra affari e politica. C’è una struttura di vigilanza “sacralizzata” nel tempo, e quindi rimasta indietro rispetto alle nuove sfide poste dai cambiamenti degli anni ’90. C’è, infine, un sistema di regole inadeguato, che non ha ancora fatto i conti con l’innovazione tecnologica e la globalizzazione dei mercati.

Semplificando al massimo, si tratta comunque di episodi a doppia trazione: industriale e finanziaria. È su questo secondo aspetto, però, che intendiamo soffermare l’attenzione. Per chiederci se accanto alle cause primarie di queste gravi crisi aziendali, che indubbiamente risiedono nella sfera industriale, non ci sia stato anche un contributo “aggiuntivo” da parte della finanza. Un contributo, cioè, che lungi dall’arginare i limiti del capitalismo italiano, li abbia in qualche modo assecondati o amplificati.

In quest’ottica, dopo un breve riepilogo dei fatti riguardanti Parmalat e Cirio, concentreremo l’attenzione su due particolari aspetti che hanno giocato un ruolo determinante in entrambe le circostanze: quello delle obbligazioni societarie (“Corporate Bond” o “Bond”), come esemplificazione della “crisi delle regole che governano i mercati finanziari, il comportamento degli operatori e i meccanismi di sollecitazione e tutela del pubblico risparmio”, e il nodo della vigilanza.

3. Il caso Parmalat: cronistoria di un default annunciato

Prima del crollo, la Parmalat era l’ottavo gruppo industriale italiano per fatturato e il primo gruppo non finanziario tra i primi non finanziari del MIB 30 della nostra Borsa. Presente in 30 paesi diversi e in tutti e 5 i continenti, vantava - e vanta tuttora - circa 36 mila dipendenti. Queste dimensioni sono il frutto di una strategia di crescita in parte abbastanza recente. Tra il 1997 e il 2000, infatti, la Parmalat ha raddoppiato il fatturato attraverso una serie di acquisizioni, soprattutto in Sud America. Probabilmente è in questo passaggio che l’azienda ha superato definitivamente il punto di non ritorno nell’equilibrio economico-finanziario tra costi e ricavi, debiti e patrimonio, utili e interessi.

Nonostante la sua struttura globale e la crescita degli ultimi anni, la Parmalat è sempre rimasta un gruppo a conduzione strettamente familiare. La Coloniale, società della famiglia Tanzi, possiede il 51,16% circa di Parmalat Finanziaria che, a sua volta, controlla Parmalat SpA. Il gruppo, inoltre, conta su circa 30 mila azionisti che possiedono 400 milioni di azioni, oggi completamente prive di valore. Mancano, invece, altri rilevanti soci industriali, che avrebbero garantito una maggiore dialettica imprenditoriale nell’elaborazione di strategie d’impresa votate all’internazionalizzazione.

In buona sostanza, “la famiglia” non è mai voluta scendere sotto il 51%, nonostante il fatto che, notoriamente, società ad ampio flottante sono controllabili anche con percentuali inferiori alla metà del capitale sociale. Inoltre, la stessa Corporate Governance del gruppo - ovvero la struttura di governo dell’azienda - ha sempre mantenuto una forma piramidale chiusa sulla famiglia.

Benché l’epilogo sia stato apparentemente improvviso, la crisi del gruppo parte da lontano. Alla rapida crescita per vie esterne non è mai corrisposto un parallelo aumento della redditività che, anzi, si è progressivamente ridotta. Il rapporto della Parmalat con i mercati si è progressivamente deteriorato, pur essendo già da tempo molto negativo in termini di chiarezza e trasparenza. Proprio in ragione di questa scarsa trasparenza sui conti, peraltro, gli analisti finanziari hanno spesso applicato un sostanziale sconto al valore della società calcolato con gli apparenti fondamentali del gruppo.

Il tira e molla con i mercati andava ormai avanti da almeno un anno quando, a seguito dell’ennesima richiesta di chiarimento da parte della Consob, è crollato il castello. La contraddizione nota da tempo ai mercati finanziari si è rivelata essere proprio quello che si poteva temere che fosse: un buco. Anzi, una voragine. La contraddizione era tanto semplice quanto evidente: la società dichiarava una liquidità esorbitante, superiore ai 4 mld di Euro, eppure allo stesso tempo chiedeva continuamente finanziamenti al mercato, soprattutto sotto forma di emissioni obbligazionarie. Palesemente necessarie a rimborsare i debiti in essere, come dimostra una certa contestualità tra le scadenze di questi debiti e le nuove emissioni.

Eppure, l’indebitamento iscritto in bilancio era sempre cresciuto, fino a raggiungere livelli di guardia. Nel 2002, a fronte di un fatturato apparente di 7,5 mld di Euro, i debiti ufficiali della Parmalat erano di 6 mld di Euro. Il Rapporto debito finanziario / capitale netto era passato in pochi anni da 2,5 a 3,8, cioè sei volte superiore alla media del settore. Una situazione già molto critica, eppure rivelatasi estremamente più grave, alla luce della ricostruzione degli effettivi dati di bilancio attualmente in corso da parte della Pricewaterhouse. In totale i Bond emessi tra il 1997 e il 2002 sono risultati 32, per un controvalore complessivo di 7 mld di Euro (circa 7 volte di più di quelli Cirio). Le emissioni sono avvenute prevalentemente su mercati finanziari esteri, anche se circa 2 mld di Euro sono stati sottoscritti in Italia (il doppio di quelli Cirio), a fronte di un indebitamento di Parmalat verso banche italiane pari a circa 3 mld di Euro.

Oltre alla liquidità esorbitante, che poi è risultata inesistente, c’erano altre palesi criticità: operazioni finanziarie in derivati altamente sospette; inspiegabili impieghi finanziari in fantomatici fondi di investimento costituiti in paradisi fiscali; consistenti crediti commerciali sui quali il gruppo non dava sufficienti informazioni, ma che sicuramente stentavano a rientrare; depositi incomprensibilmente mantenuti liquidi (come quello presso la Bank of America, poi risultato un falso).

A completare il quadro, possiamo aggiungere i seguenti aspetti: la complicità dei revisori, sulla quale si sta ancora indagando; il ruolo ambiguo di alcune banche nazionali e internazionali; l’incredibile ritardo con il quale l’agenzia di rating, Standard & Poor’s, ha declassato la Parmalat, praticamente quando il dissesto era ormai già ampiamente manifesto; e infine le interconnessioni con l’altro grave epilogo in corso sul palcoscenico italiano: quello della Cirio.

4. Il caso Cirio: un’altra crisi partita da lontano

Il caso Cirio, che ha preceduto di qualche mese quello Parmalat, è decisamente più piccolo, anche se per alcuni versi potrebbe essere considerato persino più grave. Innanzitutto perché è un caso totalmente italiano. Poi perché presenta una dinamica che con maggiore evidenza lascia trasparire le responsabilità del sistema bancario. Esaminiamo brevemente i fatti.

Anche il caso Cirio parte da lontano. La storia è estremamente semplice e lineare. All’inizio degli anni ’90, Sergio Cragnotti costituisce una banca d’affari con sede operativa in Lussemburgo e holding di controllo a Dublino, denominata Cragnotti & Partners.

I soci di Cragnotti sono una serie di primarie banche nazionali e internazionali. Secondo le ricostruzioni di stampa, tuttavia, si tratta di soci solo “apparenti”. Le banche, infatti, chiedono e ottengono un’opzione “put”, cioè il diritto di rivendere in qualsiasi momento la propria quota di partecipazione a Cragnotti che, evidentemente, si è parallelamente impegnato a riacquistarla a semplice richiesta.

Con il passare degli anni, però, la redditività industriale del gruppo stenta a decollare. Forse anche per questa ragione, tra il 1994 e il 1999 tutte le banche associate alla C&P chiedono il rimborso delle rispettive quote (solo il gruppo Capitalia lo ha fatto più tardi, nel 2001).

Contestualmente, il gruppo Cirio ha intrapreso una strada di espansione, raddoppiando il fatturato in 4 anni attraverso successive acquisizioni di imprese. Mentre, quindi, diminuiscono le partecipazioni delle banche nella holding di controllo e la redditività non migliora significativamente, la crescita del fatturato viene finanziata con il ricorso al debito. Tra il 1998 e il 2002, l’indebitamento di Cirio Holding (controllata dalla C&P) passa dal 60 ad oltre il 160% del fatturato. Nel 1994 era appena il 20%.

Rimborsato il capitale alle banche, il gruppo Cirio deve ora rimborsare i debiti. Dato che la redditività non è sufficiente, serve un’altra soluzione. Nel 1999 ha luogo la prima emissione obbligazionaria. Poi, a ruota, tra il 1999 e il 2002 il gruppo Cirio effettua 7 emissioni di Bond per un ammontare complessivo di circa 1.125 milioni di Euro. Sei di queste emissioni sono realizzate da banche italiane su mercati esteri (Olanda e Lussemburgo) e sono riservate ad investitori istituzionali (le banche stesse). A seguito di queste emissioni obbligazionarie, il rapporto tra debiti verso banche e Bond si inverte completamente. I finanziamenti bancari passano dal 94% dei debiti verso terzi del 1999 (di cui i 3/4 a breve termine) al 28% circa del 2002, mentre le obbligazioni avanzano dal 6 al 72%. I Bond, in sostanza, nel 2002 hanno sostituito il debito bancario, finendo nel portafoglio di circa 35 mila piccoli risparmiatori (per un controvalore di circa 900 mln di Euro).

Già così i fatti sarebbero abbastanza gravi. Ma c’è anche dell’altro. Questi Bond erano stati originariamente emessi in Lussemburgo come titoli riservati ad investitori istituzionali (ovvero le stesse banche). Di conseguenza erano privi di rating e senza alcun prospetto informativo. Il che sostanzialmente significa che non avrebbero potuto essere venduti allo sportello attraverso una sollecitazione al pubblico risparmio, ma solo su eventuale esplicita richiesta dei clienti. A quanto pare, la spontanea richiesta dei clienti è stata molto sostenuta, dato che questi titoli sono passati quasi totalmente dalle banche ai piccoli risparmiatori. Peraltro, molto spesso già in fase di emissione. La magistratura dovrà accertare se questa cessione sia avvenuta dolosamente da parte delle banche - cioè con la consapevolezza che il gruppo Cirio era sostanzialmente sulla strada del fallimento - e se, in ogni caso, c’è stata un’illecita attività di promozione finanziaria.

Non vi è dubbio, tuttavia, che qualcosa di importante non ha funzionato. I bilanci del gruppo Cirio avevano problemi da tempo: redditività contenuta; debiti crescenti rispetto al fatturato e una serie di singolari finanziamenti concessi al socio Cragnotti, sulla cui sorte si sta ancora cercando di fare luce. Quello che non ha funzionato va cercato in direzioni diverse. Ma in qualche modo confluisce sul mercato dei Bond, denunciando una clamorosa inefficienza macroeconomica. È questo mercato, in altre parole, il “luogo del delitto”.

5. Il mercato dei Bond nell’occhio del ciclone

I casi Argentina, Cirio e Parmalat [1] - pur essendo profondamente diversi tra loro - hanno portato sul banco degli imputati uno dei principali strumenti di indebitamento delle imprese: le obbligazioni societarie. Tanto per dare un ordine di grandezza, solo per questi tre casi stiamo parlando di oltre 500.000 risparmiatori italiani coinvolti e circa 15 miliardi di Euro di prestiti obbligazionari a rischio [2]. La seguente tabella fornisce i termini di paragone per inquadrare quantitativamente il fenomeno:

Solitamente i Bond sono considerati uno strumento a basso rischio. In sostanza questo è vero nella misura in cui è vero che gli obbligazionisti sono privilegiati rispetto agli azionisti nel rimborso del capitale. Anche i Bond, dunque, hanno un loro rischio e questo rischio, benché inferiore a quello delle azioni della stessa società, è comunque legato alle possibilità di fallimento dell’emittente.

In termini più generali, l’accusa principale emersa in questi mesi nei confronti dei Bond è che consentirebbero alle banche di trasferire il rischio dai loro bilanci al portafoglio dei risparmiatori. In una certa misura questo è un fatto reale ed è anche un fatto positivo, perché moltiplica e valorizza lo strumento del debito all’interno di un sistema, andandosi a sovrapporre ai finanziamenti bancari. Per questo non va criminalizzato lo strumento. Anzi, proprio lo sviluppo dei “Corporate Bond” negli anni ’90 ha consentito di moltiplicare enormemente le potenzialità di credito dei sistemi finanziari, a beneficio degli investimenti. Tanto per dare un’idea del fenomeno, nel mondo ci sono attualmente circa 6 mila mld di dollari di Corporate Bond” in circolazione, di cui 1/6 circa in Europa e 4/6 negli Stati Uniti. Nel 2003 si sono avute nuove emissioni per 170 mld di Euro, il 24% in più rispetto al 2002. In Italia, nei primi 11 mesi del 2003 ci sono state emissioni per circa 16 mld di Euro. I Bond in circolazione nel nostro paese ammontano a quasi 80 mld di Euro, di cui il 21% circa senza rating. E nel 2004 saranno in scadenza ben 21 mld di Euro [3].

Naturalmente gli effetti positivi dei Bond vengono meno se il trasferimento di rischio avviene senza alcuna responsabilizzazione delle banche o, addirittura, per scaricare sui piccoli risparmiatori probabili insolvenze degli emittenti. Quello che si può criticare, allora, non è lo strumento in sè, bensì l’uso che ne è stato eventualmente fatto in queste circostanze e il ricorso ai piccoli risparmiatori anche in situazioni che lo avrebbero sconsigliato.

Con riferimento ai casi Cirio e Parmalat, si possono individuare due termini del problema: uno di carattere generale, che ha a che fare con l’efficienza dei mercati in presenza di conclamati conflitti di interesse da parte delle banche, e uno più strettamente di cronaca, che ha a che fare con la correttezza dei comportamenti in questi specifici episodi.

Sul primo fronte, i recenti eventi dimostrano che lo sviluppo iperbolico dei mercati obbligazionari presenta indubbiamente un rischio sistemico. Quello, cioè, di avere un’enorme massa di risparmio non intermediata in base al criterio del merito di credito. È stata messa in discussione, in altre parole, la capacità delle banche di svolgere correttamente la loro funzione di intermediazione finanziaria, intesa come capacità di selezione dei migliori investimenti per il risparmio e per il sistema. Soprattutto in ragione del conflitto di interesse che esiste tra la banca che colloca obbligazioni per il proprio cliente-impresa, con il quale negozia le commissioni di collocamento, e il proprio cliente-risparmiatore, che le sottoscrive. Se la banca non assume in proprio almeno una porzione del finanziamento, e per tutta la sua durata, può essere più interessata a proporre i prodotti che fruttano le maggiori commissioni anziché quelli meritevoli di fiducia da parte del mercato.

Diversa e, per evidenti ragioni, più grave, è la prospettiva strettamente legata alla cronaca. Ciò che la magistratura dovrà accertare, caso per caso, è se le banche hanno venduto obbligazioni Argentina, Cirio e Parmalat quando i rischi d’insolvenza degli emittenti erano diventati più probabili o addirittura conclamati. Le denuncie, al riguardo, sono numerose e in alcuni casi sembrano ben circostanziate. Da questo punto di vista il caso più imbarazzante è sicuramente il caso Cirio, perché tra il 2000 e il 2002 la struttura dell’indebitamento del gruppo si è completamente ribaltata a sfavore dei Bond e a vantaggio dei finanziamenti bancari, quasi totalmente rimborsati. Peraltro in un contesto di redditività compromessa, scarsi investimenti aggiuntivi e modesta riduzione del debito complessivo. Il che significa che le emissioni obbligazionarie sono state utilizzate per ripagare le banche.


[1] Ai quali si potrebbero aggiungere altri casi minori, come quello Giacomelli o, più recentemente, Finmatica

[2] Difficile dire, inoltre, quanto è stato eventualmente acquistato da fondi comuni e, per questa via, sottoscritto dai risparmiatori senza neanche saperlo.

[3] Una curiosità: il primo “EuroBond” è stato emesso nel lontano 1963 proprio da una società italiana, Autostrade. Per un importo a quel tempo di tutto rispetto: 15 mln di dollari