Le ragioni profonde e lontane dei disastri della Parmalat e della Cirio
Nerio Nesi
L’etica del capitalismo borghese, che ha caratterizzato gli ultimi due secoli, è finita
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1. Nel suo recente libro Roaring Nineties. Seeds of
Destruction, appena uscito in Inghilterra, Joseph Stiglitz, Premio Nobel,
già capo dei consulenti economici della Banca Mondiale, definisce in questo
modo la gestione di molte imprese nord americane negli anni ’90. “Tutti
mentivano a tutti: gli amministratori delegati davano informazioni drogate sulle
compagnie che gestivano, gli analisti facevano finta di crederci rivendendo
quelle descrizioni entusiastiche agli investitori, le società di revisione
certificavano queste manfrine e anche la Federal Reserve, pur denunciando per
bocca dello stesso Alan Greenspan l’“esuberanza irrazionale” di quel
periodo non faceva niente per domarla. Aggiungete che la politica fiscale, con
la detassazione dei guadagni di Borsa, incoraggiava la spregiudicatezza e
premiava i forti speculatori.
E precisa, “i manager erano come impazziti: con il
meccanismo delle stock option avevano moltiplicato all’inverosimile i loro
stipendi, di fatto rubando valore agli azionisti. Negli anni ’80 il rapporto
tra la paga di un executive di vertice e un impiegato era di 40 a 1, oggi
di 400 a 1. E se durante il boom questi dirigenti potevano difendersi dicendo
“produciamo ricchezza”, quando la bolla è scoppiata nessuno ha ridotto i
propri emolumenti, anzi.”
Aggiungo io, per una più precisa comprensione del problema,
che le stock option costituiscono un incentivo perverso a “abbellire” i
bilanci. Se dai bilanci dipende la valutazione di Borsa e se da questa dipendono
le remunerazioni dei managers, è facile trarre la conclusione che, avendone il
potere, i managers non disdegneranno una via di arricchimento piuttosto facile
che è, appunto, quella di “abbellire” i bilanci delle proprie imprese.
Forse gli scandali ai quali abbiamo recentemente assistito si spiegano anche con
questo. Per fare in modo che il management trovi soluzioni adeguate per gli
azionisti, questo è il costo che la società deve pagare.
Ma al di là dei comportamenti personali più o meno
corrotti, è dilagata la pericolosa, arrogante e stupida sicurezza che non vi
sia problema di organizzazione o di produzione che non si possa affrontare e
risolvere con strumenti finanziari, progettando mirabolanti architetture
geopolitiche di gruppi d’aziende contenuti entro gruppi che contengono gruppi
terzi e quarti distribuiti in vari continenti, sino al punto in cui nemmeno il
progettista architetto arriva più a comprendere come si reggano in piedi. Tanto
che, all’improvviso, crollano.
Ricorda giustamente Luciano Gallino - il più documentato
esperto di questa materia - che il caso Parmalat è di ieri, ma dieci anni fa il
Gruppo Ferruzzi - Montedison abbandonò la grande chimica, sommerso dai debiti
che - costruendo anch’essa castelli finanziari - aveva contratto con ben
trecentoundici banche italiane ed estere.
Conclude Joseph Stiglitz: “Ma l’ingordigia è stata anche
degli investitori che volevano credere alle favole che tutti potessero diventare
miliardari da un giorno all’altro, comprando un lotto fortunato di azioni.
A metà del decennio scorso, come a volte accade nella
storia, si erano accumulati troppi capitali, troppi soldi da piazzare che hanno
funzionato da incentivo alla disonestà per tutti i protagonisti. I conflitti di
interessi degli analisti che, invece di ben consigliare i piccoli risparmiatori
pensavano agli affari dei loro datori di lavoro, ne sono una riprova. Gli
scandali Enron, Tyco e WorldCom confermano il malcostume in maniera eclatante.
Adesso ci accorgiamo che le regole ci vogliono e vanno fatte
rispettare in maniera stringente, e che il capitalismo selvaggio,
iperindividualista, all’americana, può provocare disastri”.
Questa analisi, impietosa, del capitalismo nord americano
potrebbe essere inserita puramente e semplicemente nella storia economica del
nostro Paese, se l’Italia non vivesse una stagione che vede peggiorare la sua
posizione nel contesto mondiale: una serie di disastri aziendali hanno
cancellato dall’economia italiana molti grandi gruppi e ci hanno espulsi da
interi settori produttivi: la chimica, la farmacia, l’informatica e altri
ancora. Nessun Paese europeo ha subito una decadenza industriale così brutale.
La crisi della grande industria italiana è al tempo stesso
causa e conseguenza di un impoverimento di classe dirigente. È causa: perché
un paese privo di grandi imprese, non ha più i luoghi dove si forma quella
élite manageriale che è un pezzo essenziale della classe dirigente nel mondo
contemporaneo. È conseguenza: perché il tramonto di alcune tra le maggiori
aziende rivela, a sua volta, una debolezza dei gruppi dirigenti, che hanno
spesso identificato la alleanza con la politica come garanzia di sopravvivenza.
Sicché, la selezione della classe dirigente ha privilegiato la capacità nei
rapporti istituzionali più del talento industriale. Perciò il sistema delle
grandi imprese italiane ha espresso complessivamente, (peraltro con numerose e
importanti eccezioni), un establishment inadeguato alle sfide della
globalizzazione. È mancato, cioè, quello sforzo corale che solo i grandi
dirigenti sanno creare, perché danno l’idea che l’impresa è davvero un’opera
collettiva e un bene di tutti.
2. Ma sono esistiti in Italia grandi dirigenti e grandi
imprenditori?
Certamente sì. E bisogna subito aggiungere che dirigenti di
alto livello sono stati creati dalle aziende pubbliche: il primissimo nome che
balza davanti ai nostri occhi è quello di Enrico Mattei, fondatore dell’Ente
Nazionale Idrocarburi (l’E.N.I.), al quale si deve la presenza italiana nel
mondo del petrolio e del gas.
Ma non sono stati da meno Oscar Sinigaglia, fondatore della
nuova siderurgia italiana, Pasquale Saraceno, precursore di una politica
industriale per il Mezzogiorno, e poi Guglielmo Reiss Romoli, Felice Ballo,
Giuseppe Glisenti, Salvino Sernesi, Attilio Pacces, Raffaele Mattioli, Imbriani
Longo, e tanti, come loro, che teorizzarono e misero in pratica l’idea che le
aziende statali dovevano essere motori dello sviluppo in zone e comparti
produttivi dove i privati non avevano alcun interesse ad intervenire.
La distruzione delle imprese a partecipazione statale ha
avuto come presupposto una denigrazione sistematica e generalizzata della loro
attività e dei loro dirigenti: una ondata denigratoria organizzata da interessi
che dovrebbero essere evidenti.
3. Ancora una osservazione sul capitalismo privato: le
grandi famiglie, - gli Agnelli, i Pirelli, i Pesenti, gli Olivetti, i Donegani,
i Marzotto, i Crespi, i Cini, i Costa, i Ferruzzi, i Ravano, i Falk per
ricordare solo alcuni tra i grandi nomi del capitalismo italiano - hanno
rinunciato, via via, ad un ruolo che ne ha fatto per decenni i protagonisti
della vita italiana: quella classe generale che, a partire dalla unità d’Italia,
aveva fatto coincidere i suoi interessi con quelli generali del Paese; quella
stessa classe che aveva fatto del Piemonte il motore dell’unità nazionale: i
D’Azeglio, i Sella, i Ricasoli, i Rattazzi, e, sopra tutti gli altri, Cavour.
È inutile ricordare qui le ragioni di questa rinuncia: in
parte voluta, in parte obbligata. È utile invece aggiungere che altri nomi,
altre dinastie sono comparse nel mondo dell’industria e vi stanno prosperando:
i Benetton, i Del Vecchio, i Ferrero, i Barilla, i Valetto, i Miroglio, tra gli
altri: in molti casi, imprenditori di alto livello, ma raramente interessati a
problemi di ordine generale, che vadano al di là degli interessi aziendali.
Poche sono state le eccezioni a questo modo di essere: Adriano Olivetti ha
rappresentato quella più significativa, anche per questo motivo isolata e
combattuta.
In linea generale gli imprenditori italiani stentano ad
assumere la responsabilità politica e culturale (oltre che morale) di un gruppo
dirigente impegnato nello sviluppo democratico ed economico della società.
Non a caso, al momento della unificazione nazionale, gli
industriali del Nord lasciarono la rappresentanza politica e gli affari dello
Stato in gran parte alla borghesia meridionale. Era preferibile ciò che
consentiva di attendere ai propri affari nel quadro di una struttura statale
funzionante, anche se creata e amministrata da altri. Una borghesia che ha alle
proprie spalle questo destino storico stenta a proporsi come classe dirigente.
Al massimo costituisce una categoria di imprenditori, che possono anche
realizzare imprese strepitose, ma che non sanno (o forse non vogliono) imprimere
un significato generale alla propria attività.
A ciò aggiungasi quella che forse è una conseguenza diretta
della concezione attuale che la borghesia imprenditoriale italiana ha di sé
stessa: l’etica del capitalismo borghese, che ha caratterizzato gli ultimi due
secoli, è finita.
Le virtù tipiche di quella borghesia: frugalità, parsimonia
e laboriosità, sono state sostituite dal valore della accumulazione del
capitale in sé e per sé, quindi, dell’arricchimento.
Quella parte della nuova borghesia, che è più legata alla
intermediazione finanziaria che alla produzione industriale, è soggetto attivo
di valori e di comportamenti che la portano oggettivamente a convergere con
quella categoria di speculatori professionali che è sempre più numerosa e
agguerrita, perché capisce che su di essa non grava il disprezzo di una
opinione pubblica distratta e forse condiscendente. Dai Paesi industrializzati a
quelli poveri e marginali, dai Paesi ex sovietici fino ai Paesi di più antica
civiltà democratica, assume un peso crescente il sempre più inestricabile
intreccio tra attività legali e illegali.
I processi di deregolamentazione e di unificazione dei
circuiti finanziari hanno offerto importanti spazi di crescita ad una vasta
gamma di organizzazioni criminali.
Assistiamo, cioè, a una sorta di deriva della
finanziarizzazione della economia che è, a un tempo, frutto e portatrice di una
pericolosa disgregazione sociale.
Ma bisogna infine aggiungere che una delle cause della crisi
dell’industria italiana consiste nel rifiuto dei governi che si sono succeduti
nell’ultimo decennio a concepire e attuare una politica industriale,
abbracciando così la teoria per cui giova al bene comune che lo Stato non
prenda in tale campo la minima iniziativa.
In questo impegno i governi italiani sono stati e sono unici
al mondo. Tutti gli altri Paesi avanzati perseguono con abilità e
determinazione articolate politiche industriali, aventi come primo obiettivo la
salvaguardia dei propri interessi nazionali, della propria capacità competitiva
e delle proprie forze di lavoro. È per mezzo di una politica industriale
orientata, incentivata e regolata dallo Stato e dalle sue varie agenzie, che
negli anni ’90 gli Usa hanno conquistato il dominio assoluto nel campo delle
tecnologie informatiche; il Giappone è diventato il maggiore produttore
mondiale di elettronica di consumo; la Germania si è confermata più che mai un
gigante della meccanica e della chimica; la Francia sta mettendo insieme il
secondo o terzo polo aerospaziale del mondo, mentre la Svizzera - la piccola
Svizzera - ha creato veri colossi nell’industria farmaceutica, in quella
alimentare e nel settore bancario.
I governi italiani, (cito ancora Luciano Gallino) sono stati
e sono i soli sul pianeta a credere che l’espressione “meno Stato” voglia
dire che lo Stato non deve immischiarsi in cose tanto terrene come la politica
industriale. Così evitavano di vedere la scomparsa dell’industria aeronautica
(nemmeno nel consorzio Airbus vollero a suo tempo entrare), il decesso dell’informatica
nazionale, l’estinzione della chimica delle materie plastiche, il passaggio di
quasi tutta l’industria alimentare in mani straniere. Meno che mai li toccava
il fatto che la cessione per poche lire a privati d’oltralpe e d’oltremare
di veri gioielli delle partecipazioni statali (per dirne uno, la Nuovo Pignone)
dopo pochissimi anni stia già portando all’avverarsi della più facile delle
previsioni: se intende tagliare posti di lavoro, il proprietario d’oltralpe o
d’oltremare li taglia prima di tutto qui da noi, non a casa sua.