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Continente rebelde

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Ricardo Antunes
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Professore Titolare di Sociologia, UNICAMP/Brasil. “Visiting Research Fellow”, Università del Sussex (Inghilterra) e autore di Os Sentidos do Trabalho (Boitempo Editorial) e Addio al Lavoro? (Biblioteca Franco Serrantini e pubblicato anche in Brasile, Spagna, Argentina, Venezuela e Colombia). È membro di redazione delle riviste Margem Esquerda (Brasil), Herramienta (Argentina), Latin American Perspectives (EUA) e Asian Journal of Latin American Studies (Korea)

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l Brasile di Lula: in quale parte del mondo sociale saprà collocarsi?

Ricardo Antunes

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I. Il “modello economico, che si sviluppa oggi in Brasile, dagli anni ’50, si struttura sulla base di una crescente dipendenza dai capitali finanziari esterni. Da questo ingranaggio è risultato un colossale indebitamento interno ed esterno che oggi soffoca e opprime tutto il paese. E in questo circolo vizioso, più il paese ricorre ai prestiti esterni, più si arena nell’indebitamento. Più aumenta il tasso di interesse, come sta succedendo col governo Lula, più aumenta lo scorrimento, facendo sì che quasi tutto ciò che è prodotto quì sia canalizzato per pagare i capitali estero. E, prigioniero di questa logica, i capitali transnazionali e nazionali esigono, sul piano interno, il mantenimento di un salario minimo nazionale sfavorevole alla forza lavoro brasiliana, sotto remunerata e super sfruttata. Se, nel 1989, Lula e la sinistra trovarono una grande opportunità di vittoria, è stato nel 2002 che, finalmente, questa si concretizzò, dopo un periodo di enorme desertificazione sociale, politica e economica del Brasile, conseguenza dell’instaurazione del neoliberismo durante l’era di Fernando Henrique Cardoso. È stata, in un certo senso, una vittoria tardiva e in un contesto che combina gli elementi più favorevoli con altri abbastanza sfavorevoli. Cominceremo con quelli sfavorevoli. Se, nel 1989, il Brasile si ritrovava in un ciclo di forti lotte e affermazioni di movimenti sociali con la nascita del PT (Partido de los Trabajadores), della CUT (Central Unica de los Trabajadores), del MST (Movimiento sin Tierra), oltre a un significativo movimento di scioperi nell’ambito nazionale, nel complesso, oggi, il quadro è piuttosto differente, poiché assistiamo a una retrocessione da parte di questi movimenti, come nel caso dello stesso PT. Ed è stato in questo contesto che, nell’elaborare la sua politica elettorale, il PT ha fatto una serie di concessioni che non potevano essere pensate nel 1989 e che, nelle elezioni del 2002, furono assimilate come necessarie. Vittorioso alle elezioni, compiuto già il primo passo in questa sfida, il PT e le sinistre brasiliane, dovrebbero tendere a ridisegnare le proprie opzioni e a cercare un nuovo cammino per la società brasiliana, considerando come centrale la nuova morfologia del mondo del lavoro e il suo carattere composto e sfaccettato, cercando di recuperare il suo senso della dignità. Ma nei primi sei mesi di governo Lula non è questo, in nessuna maniera, ciò a cui stiamo assistendo.

Contro molti di quei valori che caratterizzarono la sua genesi, dei quali l’autonomia politica era l’asse centrale, il PT diede origine, negli anni ’90, a una politica che crebbe all’interno dell’Ordine, adattandosi a questa fase storica di riflusso delle lotte sociali. Tutto questo quadro si complica se si considera che il contesto economico e politico internazionale è di crisi accentuata, con l’ampliamento della politica distruttiva degli Stati Uniti e la sua arroganza imperiale e imperialista, della quale la politica di guerra nei confronti dell’Iraq è un esempio. Con un contesto economico internazionale sfavorevole, i limiti incontrati dal PT di Lula sono di grande importanza. Ma ci sono elementi nuovi e favorevoli in questo nuovo ciclo che comincia. Parallelamente a questo quadro sfavorevole, le lotte sociali anti-globalizzazione e anti-mondializzazione si sono ampliate significativamente a partire da Seattle, con l’avanzata di manifestazioni di scontento contro la mercificazione del mondo, la sua superflessibilità, il suo carattere omologante e il suo senso acutamente distruttivo. Sebbene questi movimenti abbiano avvertito il colpo dopo la reazione Nord-Americana all’attentato dell’11 Settembre, la bandiera “un’altro mondo è possibile” si mantiene e si amplia in varie parti. E, nello stesso tempo, acquista un nuovo significato, che potrebbe riassumersi nella frase: un altro mondo socialista è possibile. Nell’analisi degli avvenimenti del continente latino-americano si può vedere che si sta uscendo dalla letargia neoliberalizzante, con le ribellioni e le esplosioni sociali in Argentina, con la forte resistenza popolare anti-golpista in Venezuela, con le vittorie elettorali e politiche in Brasile e in Equador (indipendentemente dalle loro ambiguità, che sono per lo meno preoccupanti), la lotta politica in Colombia e le esplosioni sociali in Bolivia e Perù, tra i tanti esempi.

Gli scioperi generali dei lavoratori italiani e spagnoli, nel primo semestre del 2002, contro la precarizzazione dei diritti del lavoro, i recenti scioperi e azioni dei lavoratori pubblici francesi, contro la riforma della legge della previdenza sociale, sono altri eccellenti esempi di lotta dei lavoratori e lavoratrici dell’Unione Europea. È in questo contesto che si combinano, contradditoriamente, situazioni estremamente contrastanti, che il governo Lula trova sul suo cammino.

II. Passati più di sei mesi di governo non abbiamo nessun elemento sostanziale per rispondere categoricamente alla domanda se il Governo Lula significa la fine del nefasto neoliberismo della fase FHC in Brasile, se significherà l’inizio di una nuova e positiva fase, o se sarà, come è sembrato tristemente, una forma differenziata di continuità del periodo precedente, prigioniero del pragmatismo neoliberale, sotto l’ingerenza distruttiva del FMI. Possiamo fin quì dire che, se i primi sei mesi indicano alcune tendenze - e di certo le indicano - queste non puntano al nuovo. Non sarà difficile, a tempo debito, dare un giudizio ponderato e conclusivo sopra il reale significato del governo Lula, una volta che, nei suoi punti cruciali, le differenze o saranno profonde o avremo perso una monumentale opportunità di trasformare il Brasile. I punti centrali che indicheranno il cambiamento o, al contrario, che esprimeranno continuità, possono essere elencati chiaramente: Quale sarà la nostra politica economica alternativa, rivolta alla maggioranza della popolazione lavoratrice? Come realizzeremo lo sganciamento dalla dipendenza strutturale dal FMI,dal capitale finanziario internazionale e affini? Come affronteremo la brutale concentrazione della terra, una delle più ingiuste al mondo? Come recupereremo il senso pubblico e sociale delle varie attività statali che furono privatizzate durante gli anni ’90? Quale legislazione sociale e sindacale sarà costituita, quella pretesa dai capitali transnazionali o quella che interessa il mondo del lavoro, la classe-che-vive-di-lavoro? Quali saranno i meccanismi che definiranno la politica salariale? Le necessità del popolo che lavora, cercando di riscattare la loro dignità, o l’accettazione dei valori del mondo finanziario internazionale, con la sua logica distruttiva, misura per i “timori” del “rischio-Brasile”? Onoreremo tutti gli accordi con la banche e le istituzioni internazionali o onoreremo il nostro progetto con gli uomini e le donne lavoratrici e defraudate, che non hanno più nulla da perdere? Avranno valore, in Brasile, solo gli accordi che riguardano gli interessi del capitale? O arriverà il momento di convalidare i compromessi con la totalità dei salariati nelle campagne e nelle città, con “coloro che stanno in basso”, come amava scrivere Florestan Fernandez? sarà arrivato il momento di alterare - o, per lo meno, cominciare ad alterare - gli ingranaggi e i meccanismi di dominazione?

III. Dai militari a Connor, da Sarney a FHC, la politica economica fondata sul supersfruttamento del lavoro si mantiene essenzialmente inalterata, mantenendo salari degradanti e degradati per coloro che stanno in basso in America Latina. Assurdo se si pensa che il Brasile è tra le grandi economie del mondo, oltre a essere la maggiore del nostro continente.  [1] Sappiamo dell’eredità che il governo Lula ha ricevuto dal disastro dell’era FHC. Sappiamo delle innumerevoli pressioni che il Brasile subisce. Il popolo brasiliano è molto saggio e, con grandi speranze, fece crollare lo schema dell’FHC e il suo partito (il PSDB). Però aspetta segnali chiari, limpidi, che mostrino che il Brasile cerca un cammino alternativo, contrario alla barbarie distruttiva vigente negli anni ’90. Segnali che stanno tardando molto ad apparire. E le misure di politica economica e sociale implementate confermano tristemente la linea di continuità col governo precedente. I lavoratori, i sindacati, i movimenti sociali e i partiti di sinistra cominciano a esigere dal governo Lula l’elaborazione di programmi e di politiche che garantiscano e amplino i diritti e le conquiste dei lavoratori contro la logica distruttiva, anti-sociale, dei capitali globali e delle sue appendici locali. Il movimento sindacale dei lavoratori pubblici affronta chiaramente la proposta di (contro)riforma della Previdenza, elaborata dal governo Lula secondo chiare imposizioni del FMI, e accettata durante il governo precedente. Se il (dis)governo FHC seppe governare solo a favore degli interessi finanziari e transnazionali, lo stesso non si può accettare dal governo Lula. Il suo compromesso è con il “cambiamento”, non con la “continuità”, con la “trasformazione” e non con la “conservazione”. C’è una nuova congiuntura sociale e politica in Brasile e in America Latina, che può permettere nuove conquiste sociali e politiche. Però è necessario dire che, fino a oggi, il governo Lula si è dimostrato difensore dell’Ordine, vuole guadagnarsi la fiducia del FMI, dei capitali finanziari volatili e distruttivi. E gli Argentini sanno bene cosa significa quando nel paese arriva la politica del FMI. Per questo, è necessario ripetere, solo con la forza e la spinta delle lotte sociali provenienti dal mondo del lavoro, nel suo senso multiforme e polisemico, solo attraverso la forza sociale di coloro che lavorano, di coloro che si sono impoveriti e di coloro stanno impegnandosi l’America Latina potrà cambiare. Per il governo Lula, terminata la sua fase immediatamente post-elettorale, è iniziata la fase in cui deve confrontarsi con questioni di fondo, dovrà decidere in quale lato del mondo sociale collocarsi: se avanzerà nella direzione di un disegno politico alternativo, contro l’ordine dei capitali, con elementi di chiaro confronto in relazione alla logica distruttiva che dirige il mondo (ciò tuttavia non ha avuto inizio) o se si tratterà di seguire una nuova forma di continuità, sottile e ammorbidita, di adesione ai programmi del FMI e degli ingranaggi finanziari globali. È in questo che consiste la sfida che ora ha inizio in Brasile, e, crediamo, anche in Argentina.


[1] Affinché si abbia un’idea del degrado del salario minimo, secondo i calcoli del DIEESE, il salario minimo dovrebbe essere oggi, in Brasile, quasi sette volte maggiore dell’attuale, tenendo conto solo delle necessità di base della classe lavoratrice, come l’alimentazione, l’abitazione, la salute, i vestiti, i trasporti, l’igiene, la pensione e lo svago.