l Brasile di Lula: in quale parte del mondo sociale saprà collocarsi?
Ricardo Antunes
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I. Il “modello economico, che si sviluppa oggi in
Brasile, dagli anni ’50, si struttura sulla base di una crescente dipendenza
dai capitali finanziari esterni. Da questo ingranaggio è risultato un colossale
indebitamento interno ed esterno che oggi soffoca e opprime tutto il paese. E in
questo circolo vizioso, più il paese ricorre ai prestiti esterni, più si arena
nell’indebitamento. Più aumenta il tasso di interesse, come sta succedendo
col governo Lula, più aumenta lo scorrimento, facendo sì che quasi tutto ciò
che è prodotto quì sia canalizzato per pagare i capitali estero. E,
prigioniero di questa logica, i capitali transnazionali e nazionali esigono, sul
piano interno, il mantenimento di un salario minimo nazionale sfavorevole alla
forza lavoro brasiliana, sotto remunerata e super sfruttata. Se, nel 1989, Lula
e la sinistra trovarono una grande opportunità di vittoria, è stato nel 2002
che, finalmente, questa si concretizzò, dopo un periodo di enorme
desertificazione sociale, politica e economica del Brasile, conseguenza dell’instaurazione
del neoliberismo durante l’era di Fernando Henrique Cardoso. È stata, in un
certo senso, una vittoria tardiva e in un contesto che combina gli elementi più
favorevoli con altri abbastanza sfavorevoli. Cominceremo con quelli sfavorevoli.
Se, nel 1989, il Brasile si ritrovava in un ciclo di forti lotte e affermazioni
di movimenti sociali con la nascita del PT (Partido de los Trabajadores), della
CUT (Central Unica de los Trabajadores), del MST (Movimiento sin Tierra), oltre
a un significativo movimento di scioperi nell’ambito nazionale, nel complesso,
oggi, il quadro è piuttosto differente, poiché assistiamo a una retrocessione
da parte di questi movimenti, come nel caso dello stesso PT. Ed è stato in
questo contesto che, nell’elaborare la sua politica elettorale, il PT ha fatto
una serie di concessioni che non potevano essere pensate nel 1989 e che, nelle
elezioni del 2002, furono assimilate come necessarie. Vittorioso alle elezioni,
compiuto già il primo passo in questa sfida, il PT e le sinistre brasiliane,
dovrebbero tendere a ridisegnare le proprie opzioni e a cercare un nuovo cammino
per la società brasiliana, considerando come centrale la nuova morfologia del
mondo del lavoro e il suo carattere composto e sfaccettato, cercando di
recuperare il suo senso della dignità. Ma nei primi sei mesi di governo Lula
non è questo, in nessuna maniera, ciò a cui stiamo assistendo.
Contro molti di quei valori che caratterizzarono la sua
genesi, dei quali l’autonomia politica era l’asse centrale, il PT diede
origine, negli anni ’90, a una politica che crebbe all’interno dell’Ordine,
adattandosi a questa fase storica di riflusso delle lotte sociali. Tutto questo
quadro si complica se si considera che il contesto economico e politico
internazionale è di crisi accentuata, con l’ampliamento della politica
distruttiva degli Stati Uniti e la sua arroganza imperiale e imperialista, della
quale la politica di guerra nei confronti dell’Iraq è un esempio. Con un
contesto economico internazionale sfavorevole, i limiti incontrati dal PT di
Lula sono di grande importanza. Ma ci sono elementi nuovi e favorevoli in questo
nuovo ciclo che comincia. Parallelamente a questo quadro sfavorevole, le lotte
sociali anti-globalizzazione e anti-mondializzazione si sono ampliate
significativamente a partire da Seattle, con l’avanzata di manifestazioni di
scontento contro la mercificazione del mondo, la sua superflessibilità, il suo
carattere omologante e il suo senso acutamente distruttivo. Sebbene questi
movimenti abbiano avvertito il colpo dopo la reazione Nord-Americana all’attentato
dell’11 Settembre, la bandiera “un’altro mondo è possibile” si mantiene
e si amplia in varie parti. E, nello stesso tempo, acquista un nuovo
significato, che potrebbe riassumersi nella frase: un altro mondo socialista è
possibile. Nell’analisi degli avvenimenti del continente latino-americano si
può vedere che si sta uscendo dalla letargia neoliberalizzante, con le
ribellioni e le esplosioni sociali in Argentina, con la forte resistenza
popolare anti-golpista in Venezuela, con le vittorie elettorali e politiche in
Brasile e in Equador (indipendentemente dalle loro ambiguità, che sono per lo
meno preoccupanti), la lotta politica in Colombia e le esplosioni sociali in
Bolivia e Perù, tra i tanti esempi.
Gli scioperi generali dei lavoratori italiani e spagnoli, nel
primo semestre del 2002, contro la precarizzazione dei diritti del lavoro, i
recenti scioperi e azioni dei lavoratori pubblici francesi, contro la riforma
della legge della previdenza sociale, sono altri eccellenti esempi di lotta dei
lavoratori e lavoratrici dell’Unione Europea. È in questo contesto che si
combinano, contradditoriamente, situazioni estremamente contrastanti, che il
governo Lula trova sul suo cammino.
II. Passati più di sei mesi di governo non abbiamo
nessun elemento sostanziale per rispondere categoricamente alla domanda se il
Governo Lula significa la fine del nefasto neoliberismo della fase FHC in
Brasile, se significherà l’inizio di una nuova e positiva fase, o se sarà,
come è sembrato tristemente, una forma differenziata di continuità del periodo
precedente, prigioniero del pragmatismo neoliberale, sotto l’ingerenza
distruttiva del FMI. Possiamo fin quì dire che, se i primi sei mesi indicano
alcune tendenze - e di certo le indicano - queste non puntano al nuovo. Non
sarà difficile, a tempo debito, dare un giudizio ponderato e conclusivo sopra
il reale significato del governo Lula, una volta che, nei suoi punti cruciali,
le differenze o saranno profonde o avremo perso una monumentale opportunità di
trasformare il Brasile. I punti centrali che indicheranno il cambiamento o, al
contrario, che esprimeranno continuità, possono essere elencati chiaramente:
Quale sarà la nostra politica economica alternativa, rivolta alla maggioranza
della popolazione lavoratrice? Come realizzeremo lo sganciamento dalla
dipendenza strutturale dal FMI,dal capitale finanziario internazionale e affini?
Come affronteremo la brutale concentrazione della terra, una delle più ingiuste
al mondo? Come recupereremo il senso pubblico e sociale delle varie attività
statali che furono privatizzate durante gli anni ’90? Quale legislazione
sociale e sindacale sarà costituita, quella pretesa dai capitali transnazionali
o quella che interessa il mondo del lavoro, la classe-che-vive-di-lavoro? Quali
saranno i meccanismi che definiranno la politica salariale? Le necessità del
popolo che lavora, cercando di riscattare la loro dignità, o l’accettazione
dei valori del mondo finanziario internazionale, con la sua logica distruttiva,
misura per i “timori” del “rischio-Brasile”? Onoreremo tutti gli accordi
con la banche e le istituzioni internazionali o onoreremo il nostro progetto con
gli uomini e le donne lavoratrici e defraudate, che non hanno più nulla da
perdere? Avranno valore, in Brasile, solo gli accordi che riguardano gli
interessi del capitale? O arriverà il momento di convalidare i compromessi con
la totalità dei salariati nelle campagne e nelle città, con “coloro che
stanno in basso”, come amava scrivere Florestan Fernandez? sarà arrivato il
momento di alterare - o, per lo meno, cominciare ad alterare - gli ingranaggi e
i meccanismi di dominazione?
III. Dai militari a Connor, da Sarney a FHC, la politica
economica fondata sul supersfruttamento del lavoro si mantiene essenzialmente
inalterata, mantenendo salari degradanti e degradati per coloro che stanno in
basso in America Latina. Assurdo se si pensa che il Brasile è tra le grandi
economie del mondo, oltre a essere la maggiore del nostro continente.
[1] Sappiamo dell’eredità
che il governo Lula ha ricevuto dal disastro dell’era FHC. Sappiamo delle
innumerevoli pressioni che il Brasile subisce. Il popolo brasiliano è molto
saggio e, con grandi speranze, fece crollare lo schema dell’FHC e il suo
partito (il PSDB). Però aspetta segnali chiari, limpidi, che mostrino che il
Brasile cerca un cammino alternativo, contrario alla barbarie distruttiva
vigente negli anni ’90. Segnali che stanno tardando molto ad apparire. E le
misure di politica economica e sociale implementate confermano tristemente la
linea di continuità col governo precedente. I lavoratori, i sindacati, i
movimenti sociali e i partiti di sinistra cominciano a esigere dal governo Lula
l’elaborazione di programmi e di politiche che garantiscano e amplino i
diritti e le conquiste dei lavoratori contro la logica distruttiva,
anti-sociale, dei capitali globali e delle sue appendici locali. Il movimento
sindacale dei lavoratori pubblici affronta chiaramente la proposta di
(contro)riforma della Previdenza, elaborata dal governo Lula secondo chiare
imposizioni del FMI, e accettata durante il governo precedente. Se il
(dis)governo FHC seppe governare solo a favore degli interessi finanziari e
transnazionali, lo stesso non si può accettare dal governo Lula. Il suo
compromesso è con il “cambiamento”, non con la “continuità”, con la
“trasformazione” e non con la “conservazione”. C’è una nuova
congiuntura sociale e politica in Brasile e in America Latina, che può
permettere nuove conquiste sociali e politiche. Però è necessario dire che,
fino a oggi, il governo Lula si è dimostrato difensore dell’Ordine, vuole
guadagnarsi la fiducia del FMI, dei capitali finanziari volatili e distruttivi.
E gli Argentini sanno bene cosa significa quando nel paese arriva la politica
del FMI. Per questo, è necessario ripetere, solo con la forza e la spinta delle
lotte sociali provenienti dal mondo del lavoro, nel suo senso multiforme e
polisemico, solo attraverso la forza sociale di coloro che lavorano, di coloro
che si sono impoveriti e di coloro stanno impegnandosi l’America Latina potrà
cambiare. Per il governo Lula, terminata la sua fase immediatamente
post-elettorale, è iniziata la fase in cui deve confrontarsi con questioni di
fondo, dovrà decidere in quale lato del mondo sociale collocarsi: se avanzerà
nella direzione di un disegno politico alternativo, contro l’ordine dei
capitali, con elementi di chiaro confronto in relazione alla logica distruttiva
che dirige il mondo (ciò tuttavia non ha avuto inizio) o se si tratterà di
seguire una nuova forma di continuità, sottile e ammorbidita, di adesione ai
programmi del FMI e degli ingranaggi finanziari globali. È in questo che
consiste la sfida che ora ha inizio in Brasile, e, crediamo, anche in Argentina.
[1] Affinché si abbia un’idea del degrado del salario minimo, secondo i calcoli
del DIEESE, il salario minimo dovrebbe essere oggi, in Brasile, quasi sette
volte maggiore dell’attuale, tenendo conto solo delle necessità di base
della classe lavoratrice, come l’alimentazione, l’abitazione, la salute, i
vestiti, i trasporti, l’igiene, la pensione e lo svago.