Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (Prima parte)
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
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Ricostruzione e indipendenza
Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che
la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci
proponiamo non solo di “imparare” su un argomento storico-economico
tutto aperto e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender
spunto per le correzioni di tiro e gli ulteriori approfondimenti.
1. La caduta del fascismo, il patto di Roma e la CGIL unitaria
1.1 Il dopoguerra
La vittoria degli Alleati, tra le varie imposizioni nelle
determinanti dei paradigmi economico-produttivi e sociali, lascia anche una
forte impronta nei modelli delle relazioni industriali. Infatti, nell’Europa
del dopoguerra il sindacato si afferma come strumento di legittimazione delle
politiche del lavoro ponendosi come istituzione tra i modelli internazionali
in particolare di tipo anglosassone (USA, Gran Bretagna) e le politiche economiche
dei Governi nazionali. Tale processo si determinerà pesantemente in
Italia in virtù di un modello sindacale ormai maturo ed in grado di
intervenire sulle politiche dello Stato sociale, anche perché la costruzione
di tale modello era stata pesantemente influenzata dalla Resistenza al nazifascismo
e fortemente caratterizzata, sul mondo del lavoro:
- dallo spirito mutualistico che ne aveva segnato i natali;
- dai valori solidaristici;
- dal pensiero marxista che ne aveva caratterizzato lo sviluppo.
Con la formazione del Governo Badoglio (dopo il 25 luglio)
la gestione delle Confederazioni Sindacali Fasciste fu affidata a commissari
straordinari: Bruno Buozzi e Oreste Lizzadri (socialisti), Giovanni Riveda
e Giuseppe di Vittorio (comunisti), Gioacchino Quadrello, Achille Grandi e
Ezio Vanoni (cattolici), Guido de Ruggiero (Partito d’Azione). Fu questa
la prima esperienza di collaborazione che ebbe un peso rilevante per la determinazione
dei comitati di agitazione clandestini.
Fra il 3 e il 9 Giugno del ’44 Gronchi e Di Vittorio
(grande assente Buozzi che alla preparazione aveva lavorato ma che era stato
ucciso dai nazisti in fuga) firmarono il Patto di Roma, con l’intento
di ricostruire un sindacato unitario ed autonomo dai partiti (la CGIL unitaria).
Tale processo tenne conto di tre elementi fondamentali; due caratteristici
del sistema italiano, autonomia e indipendenza dai partiti ed uno di stampo
anglosassone che vedeva la necessità di un sindacato non politicizzato
ed inserito in un ambito strettamente lavorativo.
L’ingerenza di modelli anglosassoni e/o americani è giustificato
dal fatto che fino al ’46 gran parte del Paese è amministrato
dalle forze di liberazione; il “modello Americano” vedeva il sindacato
garante della collaborazione produttiva tra lavoratori e datori di lavoro e
garante della regolazione del conflitto, pratica del tutto assente nell’esperienza
italiana; il modello inglese invece attribuiva al sindacato la funzione di
redistribuzione del reddito, un ruolo di gestione che collocava il sindacato
in posizione di conciliazione tra datore di lavoro e lavoratore.
Il prevalere del sistema italiano (che fu figlio di Di Vittorio)
su quello anglo-americano, sottintese la fiducia degli alleati verso un sindacato
che, da subito, si fece garante delle rappresentanze istituzionali che nel
Paese si erano formate, consci del fatto che se la CGIL unitaria si fosse messa
di traverso sul piano di normalizzazione politico-economico, avrebbe certamente
rappresentato un forte problema per la costruzione istituzionale democratico-borghese
postfascista (visto anche il grande e riconosciuto ruolo di rappresentazione
delle masse popolari, di interpretazione delle esigenze di queste e dell’azione
di coordinamento che ne scaturiva).
L’altro elemento che destò preoccupazione tra
gli Alleati, fu rappresentato dalla forte presenza del PCI nella CGIL unitaria.
A tal proposito va ricordato che non solo gli statunitensi si fidavano poco
della Chiesa e della sua espressione partitica, la DC, ma che essi riconoscevano
ai comunisti il merito di aver interpretato coerentemente i bisogni delle masse
in venti anni di lotta contro il fascismo.
Del resto la Chiesa avrebbe certamente mitigato il ruolo del
PCI nel Paese, e se ciò non fosse bastato, la presenza di posizioni
moderate nella CGIL unitaria era talmente rappresentata che certamente si sarebbe
arrivati ad una forma di “non egemonia” del PCI [1].
Il dopoguerra in Italia è caratterizzato da un forte
spirito di collaborazione per la formazione delle regole del gioco; il sindacato
svolge in questo preciso periodo (’44 - ’47) uno straordinario
ruolo di sintesi tra componenti diverse.
Il Paese non registrava solo la divisione tra chi considerava
la guerra vinta e chi persa, c’era anche chi richiamandosi alla tradizione
marxista, giustamente riteneva ancora in atto, e mai sopita la lotta di classe
tra lavoratori e padroni e chi, all’ombra di questo storico conflitto
ne intravedeva un altro: la guerra tra poveri che si innestava sul tradizionale
contrasto tra città e campagna; “se nella prima guerra mondiale
il ruolo di imputati era toccato agli operai, imboscati nelle fabbriche mentre
i contadini morivano al fronte, ora erano i contadini ad essere aditati come
profittatori del mercato nero e affamatori degli operai, vittime dei bombardamenti...” [2]. Il movimento operaio si oppose fin da subito
a simili interpretazioni ma anche gli operai politicamente più impegnati
a sinistra sopportavano mal volentieri la scarsa propensione dei contadini
di adeguarsi alle regole solidaristiche degli operai.
Il movimento operaio e contadino del dopoguerra, nonostante
l’oggettiva debolezza sul mercato del lavoro, ottenne comunque notevoli
successi sul piano contrattuale. Tali successi non corrisposero tuttavia ad
un incremento occupazionale, anche perchè gli imprenditori si dimostrarono
poco propensi al rilancio degli investimenti.
Si consideri che anche attualmente il sistema produttivo italiano è caratterizzato
da squilibri regionali molto accentuati; queste disparità non sono causate
solo dai settori industriali e terziari ma dipendono anche dal contraddittorio
sviluppo del settore agricolo, con squilibri più accentuati proprio
in considerazione del modello di sviluppo imposto dal dopoguerra dalle grandi
famiglie del capitale italiano e internazionale. Pur trattandosi infatti di
un campo economico contraddistinto da quote occupazionali minime e decrescenti
si tratta comunque di una branca nella quale sono nati e si sono sviluppati
i divari esistenti economici e territoriali.
Già nell’Italia del secondo dopoguerra, infatti
si individuava, un sistema economico con un grado di industrializzazione molto
disomogeneo nel territorio e fortemente condizionato dal ruolo dello Stato
che, dopo la fondazione dell’IRI nel 1933 e la successiva gestione e
proprietà dei tre più importanti istituti di credito e di altre
imprese sull’orlo del fallimento, ha assunto una importanza fondamentale
nell’economia italiana.
1. 2 Le correnti nella CGIL unitaria
La corrente sindacale cristiana, guidata da Achille grandi,
era fortemente vincolata alla tradizione della Cil, ma anche influenzata dal
corporativismo religioso del codice di Malines [3].
Il programma sindacale democristiano (marzo 1944) si traduceva
nella formula delle associazioni libere nel sindacato organizzato e
prevedeva il riconoscimento giuridico del sindacato, il valore di legge ai
contratti di lavoro, la regolamentazione del diritto di sciopero (da vietare
nei servizi pubblici), la facoltà di indire uno sciopero solo previo
referendum tra i lavoratori e l’arbitrato obbligatorio come strumento
di risoluzione dei conflitti, non disdegnando, in prospettiva la partecipazione
agli utili e l’azionariato operaio. Contrario alla formula del sindacato
obbligatorio, e ancor più all’arbitrato, ma favorevole al valore
di legge dei Contratti di categoria, Di Vittorio era convinto che il fulcro
della ricostruzione sindacale dovessero essere le Camere del Lavoro e
che il diritto di firmare i contratti fosse riservato alle componenti più rappresentative.
Con questi presupposti (opportunamente tralasciati) si approdò alla
stesura dello Statuto della CGIL unitaria al Congresso di Napoli del Febbraio
1945, con l’unico risultato di veder strutturata una organizzazione rigidamente
centralizzata, al pari del passato sindacato fascista, ma anche nella più antica
tradizione delle CGIL riformista. La questione della rappresentatività fu
comunque risolta con un passo avanti di Di Vittorio verso la posizione democristiana,
fu così che si disegnò l’articolo 39 della Costituzione “...in
cui si stabilì che i sindacati registrati avevano personalità giuridica
e potevano firmare contratti con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti
alla categoria attraverso una rappresentanza unitaria costituita in proporzione
al numero degli iscritti alle varie correnti” [4].
Per la prima volta nella storia delle democrazie europee,
il mondo del lavoro nella sua più alta rappresentazione (la CGIL), si
determinava come soggetto istituzionale e costringeva le classi dirigenti a
riconoscergli una dignità costituzionale pur di continuare ad affermare
il potere [5].
2. Il dettato costituzionale
“Nella Costituzione il lavoro diventa la base stessa
della Repubblica: “L’Italia è una Repubblica democratica,
fondata sul lavoro” (art. 1).
Dare il lavoro ai cittadini e tutelarne le condizioni è il
compito fondamentale del nuovo Stato. La Costituzione lo dice esplicitamente
con l’art. 4 (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto
al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”)
o implicitamente con l’art. 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce
i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale)”.
Inoltre un intero titolo della Costituzione, il III (artt. 35-47), è dedicato
ai rapporti economici ispirati essenzialmente alla tutela dei lavoratori: in
particolare per l’art. 41, la libertà d’impresa è condizionata
alla funzione sociale.
Ma sarà soprattutto l’art. 3 della Costituzione
il grimaldello per una più completa emancipazione dei lavoratori.
Il dettato costituzionale, infatti, sancisce il principio
di eguaglianza, non limitandosi però ad un’enunciazione solo formale,
poiché attribuisce alla Repubblica il compito di “rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese”.
Sembra l’alba dell’utopia realizzata.
Ma la Costituzione rimase a lungo, e purtroppo ciò vale
anche nella realtà attuale, una bella prospettiva irrealizzata.
La Corte Costituzionale, cioè proprio l’organo
che doveva verificare la corrispondenza delle leggi ordinarie con i principi
costituzionali, entrò in funzione solo nel 1956 e il Consiglio Superiore
della Magistratura, che aveva la funzione di sottrarre la magistratura al controllo
dell’esecutivo, garantendone l’indipendenza, solo nel 1959.
Pertanto fino agli anni sessanta la magistratura fu sotto
il controllo del potere esecutivo (conservatore), che aveva il potere di nomina
degli alti gradi della magistratura e controllava quindi la Cassazione (composta
in larga parte da magistrati di “derivazione fascista”), che provvedeva
a sua volta alla selezione dei dirigenti degli uffici, provenienti necessariamente
dalle sue file, e che svolgeva la funzione di unificazione della giurisprudenza.
Il “conformismo” al potere dominante, e alle decisioni
della Suprema Corte era accentuato dall’organizzazione burocratica della
carriera, con promozioni decise sostanzialmente dai capi e dai magistrati di
Cassazione e stipendi collegati alle funzioni svolte (superiori per Appello
e Cassazione).
Ebbene la Cassazione, controllando il resto della magistratura,
riuscì a sterilizzare la Costituzione, inventando la distinzione tra
norme costituzionali programmatiche e precettive.
Passò in sostanza la tesi che molte norme costituzionali,
tra cui soprattutto il principio di eguaglianza sostanziale, non erano immediatamente
applicabili, ma si trattava di semplici “programmi” ed era poi
il legislatore ordinario che doveva emettere le norme effettivamente vincolanti.
Ciò comportò che, per decenni dopo la Costituzione,
rimasero in vita leggi “fasciste” e comunque disposizioni in contrasto
con la norma fondamentale, anche nel settore del lavoro.” [6]
[1] Di fatto non fu
così, tanto che gli USA giustificarono l’intervento della CIA,
nei decenni successivi, sulle vicende che legarono massoneria, servizi deviati,
destra eversiva e terrorismo di sinistra in una unica strategia destabilizzatrice
che rideterminasse tempi e modi per una nuova fase dell’imperialismo
USA. Ma ancora prima, tra il ’51 e il ’55, lo Stato iniziò le
schedature degli operai e degli esponenti di sinistra e gli Americani posero
limiti alle commesse italiane che non dovevano essere attribuite ad industrie
che occupavano frange comuniste o della CGIL) *(su tali argomenti vedi anche:
G. Rossi, F. Lombrassa, “In nome della Loggia”, Napoleone
editore, Roma 1981).
[2] Stefano
Musso, Storia del lavoro in Italia dalla unità ad oggi, Marsilio
editore, febbr. 2002, pag. 190.
[3] Per approfondimenti si veda
C.Vallari, Le radici del corporativismo, Bulzoni editore, Roma, 1971.
[4] Stefano Musso, Storia
dle lavoro in Italia dalla...”, op. cit. pag.186.
[5] C’è bisogno di menzionare, seppur brevemente, due importanti
esperienze che meriterebbero un approfondimento di studio e che caratterizzeranno
successivamente la storia politica e sindacale del meridione: la vicenda della
CGdL meridionale e quella della Federazione di Montesanto. Ambedue queste esperienze
nascono, come si è detto, nel meridione ed ambedue da sinistra ma soprattutto
nascono animate dallo spirito interclassista che la CGIL unitaria sarà costretta
ad assumere per mantenere “adeguato” il rapporto con la corrente
DC.
[6] Giovanni
Cannella magistrato di Corte d’Appello, l’articolo è tratto
dal numero monografico di marzo 2002 della rivista “Il Ponte” intitolato ”Quale
governo quale giustizia” L’articolo, che è pubblicato
anche su Omissis (www.omissis.too.it), riproduce la relazione introduttiva
per l’assemblea pubblica e dibattito dal titolo “No al lavoro
senza diritti”, organizzata a Roma il 14/12/01 dal Forum Diritti-Giustizia
(Social Forum Roma)-Antigone, Cred, Giuristi democratici, Progetto diritti,
Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, Rdb, Avvocati progressisti italiani,
Magistratura democratica romana.)