La lotta per l’egemonia agro-alimentare mondiale e il suo impatto sui produttori rurali latinoamericani
Bianca Rubio
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Introduzione
Con l’avanzare del secolo XXI, le mobilitazioni contadine
contro il neoliberalismo crescono di tono. I cocaleros della Bolivia non
hanno smesso di mobilitarsi, e hanno convocato la formazione di una Nuova
Costituente; i senza terra del MST del Brasile hanno promosso la rivoluzione
agraria, pacifica o violenta, i contadini paraguayani hanno preteso la
destituzione del Presidente Luis Gonzalez Macchi, mentre in Messico si è
formato, alla fine del 2002, il Fronte denominato “La campagna non sopporta
più” che, insieme ad altre organizzazioni, ha intrapreso una campagna
nazionale per la rinegoziazione del Trattato del Libero Commercio con gli Stati
Uniti e il Canada, a favore di una politica di recupero della campagna
messicana.
Il fatto è che, dopo dieci anni di apertura commerciale
indiscriminata e di impulso depredatore del Modello Neoliberale, le
contraddizioni economiche e sociali nel campo latinoamericano stanno arrivando a
un punto critico. L’esacerbazione del conflitto esprime la devastazione rurale
che impera nel continente, come risultato del dominio che impongono le imprese
multinazionali coperte dalla politica espansionista degli Stati Uniti, la quale
ha generato un’acuta esclusione dei produttori rurali. Essi, tuttavia, non
sono disposti ad essere cancellati dalla carta e hanno avviato una lotta che,
nel suo disperato affanno di sopravvivenza, simbolizza la battaglia dell’umanità
per resistere all’ondata ecologica e militare che il capitale spinge contro il
pianeta.
Questa contesa, tuttavia, è appena incominciata, dato che i
produttori dell’America Latina affrontano una forma di subordinazione
destrutturante ed esclusiva che, nello stesso momento in cui li rovina e li
priva delle proprie radici, concentra la produzione alimentare mondiale in pochi
paesi e in poche imprese, il che, in tempi di guerra, rende molto fragile la
capacità alimentare del pianeta.
L’obiettivo della presente relazione consiste nel
dimostrare che le condizioni della rovina produttiva che affrontano i produttori
rurali della regione, rispondono all’uso degli alimenti basilari come
meccanismo di lotta per il potere tra le grandi potenze e pertanto l’esclusione
produttiva che subiscono proviene da meccanismi politici, e non economici, di
subordinazione.
Nella prima parte si analizza la formazione della fase agro
alimentare globale e con essa la geopolitica alimentare, sostenuta dai paesi
sviluppati, essenzialmente dagli Stati Uniti. In un secondo articolo si affronta
il dominio destrutturante sostenuto dalle imprese multinazionali in America
Latina, fatto che ha generato nuove forme di sfruttamento dei produttori rurali.
Nel terzo punto si analizza l’impatto di queste forme di dominio sull’agricoltura
latinoamericana, mentre nel quarto punto si analizzano alcune forme di
resistenza messe in atto dai contadini latinoamericani, per concludere con una
breve riflessione finale.
1. La fase agro-alimentare globale
Alla fine degli anni ottanta, e al principio dei novanta,
emerge a livello mondiale una nuova fase alimentare, la cui caratteristica
essenziale è la conversione degli alimenti basilari in un meccanismo di lotta
per l’egemonia economica mondiale delle grandi potenze.
Mentre nella fase agro alimentare del dopoguerra gli alimenti
costituivano in ogni paese l’elemento essenziale per abbassare i salari e in
questa forma incrementare il plusvalore ottenuto dal capitale industriale, nella
globalizzazione gli alimenti basilari sono divenuti un elemento di controllo e
di espansione economica da parte delle grandi potenze mondiali.
Da questa prospettiva il cambiamento fondamentale della fase
agro alimentare consiste nel fatto che gli alimenti smettono di essere un
pilastro economico del processo di accumulazione interno, per convertirsi in un
fattore politico di dominio mondiale.
Nell’essenza di questa nuova funzione degli alimenti a
livello internazionale, si trova la chiave dell’esclusione dei produttori
rurali latinoamericani.
Gli alimenti si convertirono in un fattore di dominio
mondiale dovuto al declino dell’egemonia economica degli Stati Uniti in
relazione alla Germania e al Giappone negli anni settanta. La caduta relativa
della produttività industriale nel gigante del nord, in relazione alle nuove
potenze, così come il fatto che si convertì in un debitore netto del Giappone
nel 1985, cambiò le condizioni di competenza mondiale che erano prevalse fino
ad allora. La supremazia della fertilità del suolo negli Stati Uniti e lo
sviluppo tecnologico in questo terreno, in relazione ai paesi europei e
asiatici, fece in modo di renderlo un elemento privilegiato (Peter Rosset 2002).
La strategia della competenza si incentrò in sei processi:
1) L’espansione della superficie coltivata; 2) L’impulso di una produzione
di eccedenti basata su sussidi elevati; 3) Lo stabilimento di prezzi “dumping”,
altamente competitivi a livello internazionale; 4) La pressione internazionale
per ridurre i sussidi nei paesi rivali e 5) l’impulso di accordi commerciali
nei paesi latinoamericani e la pressione per aprire le frontiere e ridurre i
dazi.
Sotto questi meccanismi, gli Stati Uniti incrementarono la
superficie coltivata in 24 milioni di ettari negli anni settanta e spinsero in
alto i rendimenti al 25% nel corso di quella decade (Fritscher Magda 1993, 144).
Allo stesso modo, incrementarono fortemente i sussidi alla produzione agricola.
Nell’ultima legge agraria del 2002, si aumentò di un 80% gli aiuti diretti in
relazione alla legge del 1996, con un pacchetto di 190 mila milioni di dollari
per i prossimi dieci anni (Mittal, Anuradha 2002).
Con questo meccanismo gli Stati Uniti si sono convertiti nel
principale esportatore mondiale di cereali, concentrando il 37,1% delle
esportazioni mondiali, il 23% delle esportazioni di grano, il 58,62% di quelle
di mais, il 59,7% di quelle di soia e l’11,81% di quelle di riso [1].
La supremazia produttiva permette di influire fortemente sui
prezzi internazionali dei cereali. Questi sono fissati internamente al di sotto
del loro costo di produzione. Secondo uno studio di Peter Rosset il prezzo del
grano interno degli Stati Uniti è di un 40% al di sotto del costo di produzione
e quello del mais di un 20%. Questi prezzi “dumping” si impongono a livello
internazionale e permettono la collocazione degli eccedenti esportabili del
paese del nord. Con ciò, bruciano la capacità di competenza dei paesi
compratori e impongono una crisi strutturale con essi, nello stesso tempo in cui
il prezzo si mantiene artificialmente basso per periodi prolungati.
Questa strategia si rafforza con la spinta di accordi
commerciali come il NAFTA, l’ALCA, etc., che obbligano i paesi latinoamericani
ad aprire le proprie frontiere, nello stesso momento in cui si promuovono i
Round Economici, per far pressione sui paesi sviluppati in modo tale che
riducano i sussidi alle esportazioni.
Nonostante ciò, detta strategia ha avuto poco successo, come
dimostra il fatto che i sussidi alle esportazioni si sono incrementati a livello
mondiale e in controcorrente rispetto agli accordi firmati nell’Uruguay
Round [2]. In cambio, l’espansione alimentare e la frattura
delle condizioni produttive sono aumentate nei paesi latinoamericani, come si
vedrà più avanti.
L’enorme produzione di eccedenti a basso costo, sostenuta
dagli Stati Uniti, significa produrre a prezzi più alti, in balia degli enormi
sussidi, e vendere a basso costo. Non c’è pertanto una logica economica ma
politica, che consiste nell’espandere il proprio potere alimentare ai paesi
dipendenti e fare pressione su quelli sviluppati.
Gli alimenti, come abbiamo segnalato al principio, si sono
convertiti in un’arma di competenza per l’egemonia mondiale e hanno,
pertanto, una connotazione politica. Generano una sovrapproduzione fittizia,
prezzi artificialmente bassi che provocano crisi indotte nei paesi
sottosviluppati. Si tratta pertanto di meccanismi extra economici, sostenuti da
decisioni che hanno a che fare con il potere e che si trovano al margine di una
competenza economica sostentata nelle condizioni produttive. Per questo la
disuguaglianza fondamentale che generano tra i produttori dei paesi sviluppati e
quelli dipendenti non è produttiva ma di base, ubicata nel terreno del potere.
Gli Stati Uniti possono collocare i loro eccedenti alimentari nei nostri paesi
non perché raggiungono rendimenti più alti, anche se di fatto ce l’hanno, ma
perché ciò costituisce una forma di dominio e di espansione sulle nostre
economie.
2. Il dominio delle imprese multinazionali
Anche quando la strategia alimentare degli Stati Uniti, dalla
prospettiva della lotta per l’egemonia, ha una logica politica e non
economica, beneficia ampiamente le grandi imprese multinazionali agro
alimentari, tanto quelle per la commercializzazione di cereali e grani a livello
mondiale, quanto quelle per la trasformazione di alimenti elaborati.
I primi beneficiati sono i commercianti di grani, dato che i
prezzi “dumping” degli Stati Uniti, permettono loro di affievolire la
competenza dei produttori nei paesi compratori, nei quali dispongono di un
mercato illimitato. La commercializzazione dei grani è altamente concentrata
dato che solamente due imprese nordamericane controllano la metà del commercio
mondiale, Cargill e ADM, mentre altre quattro imprese mondiali concentrano l’85%
di detto commercio: Mitsui (Giappone), Louis Dreyfus (Francia), Andre/Garnac
(Svizzera) e Bunge and Born (Brasile) (Teubal 2002, 44).
Oltre alle imprese per la commercializzazione, che traggono
beneficio dalla strategia espansionistica degli Stati Uniti, ci sono le imprese
multinazionali produttrici di alimenti industriali, dato che ottengono prodotti
a prezzi bassi, con i quali abbassano i loro costi e incrementano i guadagni: le
produttrici di oli vegetali, farine, latticini, carni, alimenti bilanciati per
animali, frutti, bibite, birre, etc.
Questo processo ha generato un “boom” dell’impulso
delle multinazionali agro alimentari in America Latina durante gli anni novanta.
Per questo la vendita delle multinazionali specializzate in alimenti che
appartengono alle 500 maggiori dell’America latina, sono cresciute all’elevato
tasso del 14,37% dal 1993 al 1995 e del 6,5% dal 1993 al 1998 [3].
Le multinazionali agro alimentari incentivano una forma di
subordinazione destrutturante sui produttori rurali dell’America Latina,
sostenuta nella strategia espansionistica degli Stati Uniti. Importano prodotti
a bassi prezzi dall’estero e fanno pressione sul prezzo interno al ribasso,
con il quale si riforniscono di prodotti interni a prezzi depressi. Ottengono
crediti dagli Stati Uniti per comprare i raccolti importati, pagabili in tre
mesi o in un anno, con tassi di interesse più bassi, nel tempo stesso in cui
beneficiano di sussidi per la commercializzazione, come succede nel caso del
Messico (Rubio Bianca, 2001).
Comprando i prodotti sottocosto, le industrie agrarie non
retribuiscono il produttore dell’eccedente prodotto, incluse le spese di
ripresa. Stabiliscono pertanto uno scambio disuguale che impedisce ai produttori
di ricominciare il nuovo ciclo produttivo e pertanto essi rimangono esclusi
dalla produzione.
Il fatto che l’agro-industria possa comprare il prodotto
importato e sostituirlo con quello nazionale non implica che, quando lo compra
il produttore latinoamericano, smetta di esercitare un atto di sfruttamento.
Questo è dovuto al fatto che il prezzo internazionale è un prezzo fittizio,
come abbiamo visto, che non remunera i costi né tantomeno i produttori più
tecnici negli Stati Uniti. È pertanto un prezzo extra economico, fissato in
condizioni che emanano da decisioni politiche. Un prezzo imposto a livello
coercitivo, senza sostentamento economico, che pertanto genera un impoverimento.
Il produttore rurale è obbligato a vendere in condizioni di rovina, nelle quali
non vengono remunerati la sua forza lavoro e i costi investiti. Per questo si
vede costretto ad entrare in uno scambio disuguale e in un processo di
sfruttamento che non sono diretti da leggi economiche ma politiche.
Allo stesso modo, quando il produttore ricorre al mercato per
vendere il suo prodotto e questo non viene comprato perché è stato sostituito
dalla produzione importata, il contadino si ritrova sopraffatto in una
competizione disuguale impostagli in maniera coercitiva. Non si tratta di un
produttore che va al mercato e non riesce a valorizzare la sua produzione data
la sua arretratezza produttiva in relazione al suo competitore, fatto che lo
porta a sprecare il suo prodotto e il suo eccedente; si tratta di un produttore
al quale si strappa la possibilità di vendere il suo prodotto, dato che deve
affrontare una competizione sostenuta da meccanismi extra economici. In questo
caso gli si impone la esclusione coercitiva dal mercato. Tanto quando viene
spogliato del suo eccedente, come quando è escluso dal mercato, il produttore
subisce una violenza. Il suo prodotto è reso privo di valore attraverso
meccanismi extra economici che non hanno a che vedere con le leggi del mercato e
pertanto implicano un soggiogamento.
La subordinazione imposta dalle agro-industrie sui produttori
rurali è sostenuta dalla strategia dell’espansione egemonica degli Stati
Uniti e pertanto non si regge su meccanismi economici di dominio. È parte di un
soggiogamento, una disuguaglianza di potere, una violenza delle condizioni
produttive. Per questo, anche se è implicito un atto di sfruttamento, si tratta
essenzialmente di un’imposizione politica. Questa forma di subordinazione
tende a destrutturare la forma produttiva dei contadini e rovina i piccoli e
medi imprenditori agricoli, mentre non rigenera l’entrata sufficiente per
riprodurre il nuovo ciclo produttivo.
L’essenza dell’esclusione dei contadini risulta da
decisioni di espansione e di lotta per il potere tra paesi, che implicano forme
di soggezione delle agro-industrie multinazionali all’imposizione politica.
Per questo, come vedremo alla fine, la soluzione può solo venire da misure
politiche.
3. La devastazione della campagna latinoamericana
La produzione di alimenti basici in America Latina è
devastata. Le condizioni produttive, la redditività, lo sviluppo tecnologico e
l’investimento sono declinate a tal punto che si tratta di una produzione
decadente.
Il detonatore di questo processo è costituito dal declino
dei prezzi. In Messico tra il 1993 e il 1999 il prezzo del mais è sceso di un
58,32% in termini reali. Quello del grano è caduto del 24%, quello dei fagioli
del 47% e quello della soia del 53,3% [4]. In Argentina il prezzo
del grano è diminuito del 57,4% e quello della soia del 53,3% in termini reali
negli anni novanta rispetto agli anni ottanta (Teubal Miguel 2001, 11), mentre
in Brasile il prezzo reale del riso è caduto a - 2,63% dal 1990 al 1997, quello
del miglio a -4,38% annuale, quello del fagiolo a -3,98%, quello del grano a
2,76% quello del latte a -4,19% e quello della carne di bovino a -4,58% (Balik
Walter 2000, 70).
La caduta dei prezzi non è stata compensata da una politica
di stimoli e incremento dei sussidi. Al contrario, ciò che è sopraggiunto nel
continente è una riduzione della spesa pubblica e del credito verso la
campagna.
Nel caso dell’Argentina i crediti verso la campagna sono
caduti di un 10% tra il 1994 e il 1996 (Teubal Miguel 2202, 119), mentre in
Messico le risorse creditizie salite nell’anno 2002 a 53,55 milioni di pesos,
equivalevano alla metà delle risorse creditizie del 1990 in termini reali
(SAGARPA 2202).
La subordinazione destrutturante implica che mentre il
settore agropecuario declina, si incrementa la produzione agro-industriale, dato
che, come abbiamo segnalato, si tratta di una subordinazione agro industriale a
spesa dell’esclusione agricola.
Per questo, per il caso del Messico, mentre il PIL
agropecuario è cresciuto all’ 1,6%, il PIL agro industriale ha registrato un
incremento del 3,4% dal 1990 all’anno 2000 (SAGARPA 2002).
La decadenza produttiva del continente si esprime nell’andamento
della superficie coltivata. A livello dei cereali, in generale, si osserva un
ristagno, dato che dal 1999 al 2000 la superficie coltivata è cresciuta di uno
0,25% annuale. Ciò nonostante sia diminuita di - 0,73% quella dedicata al riso,
e di - 0,75% quella orientata al grano. Dal 1990 al 2002, 10 paesi hanno visto
ridurre la superficie dedicata al riso, 9 quella del mais, 7 quella del grano e
6 quella della soia [5].
Da parte sua, la partecipazione dell’agricoltura al PIL
della regione è scesa dal 20% al 10% dal 1960 al 1997. In quanto alla
partecipazione dell’agricoltura nelle esportazioni latinoamericane è scesa
dal 50% al 20% (Cristobal Kay 2002).
In quanto alla produzione, coltivazioni come quella del grano
presentano virtuali ristagni dato che sono cresciuti allo 0,61%, e allo 0,26%
durante il periodo dal 1990 al 2002 [6]. Questo riflette il
deterioramento agricolo nazionale che ha portato ad una forte crescita delle
importazioni alimentarie.
Le importazione di cerali in volume sono cresciute durante il
periodo dal 1990 al 2002 di un 610% annuale. Nel caso del grano la crescita è
stata del 7,48% annuale, della soia del 12,60% e del mais del 5,71%.
Come si può vedere nella tabella, i paesi che presentano gli
incrementi più alti sono Paraguay, Cile, El Salvador, Colombia, Argentina,
Honduras, Panama e Brasile, con tassi superiori alla media regionale. Ciò
nonostante, in termini di volume, Messico, Brasile e Colombia importano più
della metà degli alimenti che entrano nella regione.
Anche i paesi esportatori come l’Argentina, o quelli che
avevano un certo grado di autosufficienza alimentare come il Cile, sono rimasti
incastrati nel ciclo della dipendenza alimentare.
La politica alimentare degli Stati Uniti che abbiamo
menzionato anteriormente, sottomette i paesi latinoamericani a una situazione di
crisi ricorrente, che non sorge da meccanismi economici, ma risulta bensì da un
declino strutturale dei prezzi.
In una crisi economica, la caduta dei pezzi è temporale,
dato che rovina i produttori più inefficienti e tende a ridurre la produzione,
fatto attraverso il quale si recupera il prezzo a livello di rendita; nella
situazione attuale il prezzo si mantiene artificialmente basso, alla mercé
della politica espansionistica degli Stati Uniti. Con ciò, si perpetua il
processo di rovina produttiva. Questo genera una crisi artificiale e permanente
che è indotta da fuori e risulta altamente vulnerabile per la produzione
rurale.
In Messico, la superficie coltivata è caduta da 13,3 milioni
di ettari nel 1990 a 11,9 nel 2000, mentre il PIL della produzione agropecuaria
è cresciuto all’1,6%, inferiore alla crescita della popolazione che è stata
dell’1,8% dal 1990 al 2000 (SAGARPA 2002).
L’impatto della crisi ha fatto sì che i 4 milioni di
produttori con un certo grado di redditività che esistevano nel 1993, si
riducessero a 300 mila nel 2000.
In Argentina è sopravvenuto un indebitamento del 44% per i
produttori di frutti, del 37,3% per i produttori di ortaggi, del 55,7% per i
produttori di canna da zucchero, del 23,7% per le viti, del 27,6% per i
produttori di tabacco negli anni novanta (Teubal Miguel 2002, 120).
Allo stesso modo, dovuto alla caduta della redditività, il
numero d’impianti si è ridotto di un 31% dal 1992 al 1997 (Teubal Miguel
2002, 124).
La forte crisi che ha frustrato questo paese nel 2002, ha
peggiorato questa situazione, dato che sono stati abbandonati 114 mila impianti
in un’area che può arrivare a 10 milioni di ettari (Quintana Victor 2002).
Nel caso del Brasile, dal 1985 al 1996, sono sparite 942 mila
unità agricole, il 96% di esse con un’area inferiore a cento ettari [7], mentre in Cile circa la metà dei proprietari di lotti, hanno dovuto
vendere le loro terre a causa dei forti debiti contratti (Kay Cristobal 2002,
15).
In alcuni paesi la caduta della redditività delle
coltivazioni basiche, si è espressa nell’incremento degli stupefacenti.
Questo è il caso della Colombia dove le coltivazioni illecite di coca
rappresentavano nel 1991 il 18% del totale della regione, mentre nell’anno
2000 era salito a 77%9.
La crisi indotta che affronta il continente ha generato un
incremento senza precedenti della migrazione rurale, a tal punto che le rimesse
ottenute dai migranti si sono convertite in un’entrata essenziale per i paesi.
Secondo il Fondo Multilaterale degli Investimenti del BID la regione riceve
annualmente sui 20 milioni di dollari dai suoi emigrati all’estero. In alcuni
paesi, come El Salvador, le rimesse significano all’incirca il 10% del suo PIL
(CEPAL 2001).
4. La resistenza dei produttori rurali
L’imposizione che ha generato la politica espansionistica
nordamericana, appoggiata in molti casi dai governi latinoamericani, ha generato
una profonda problematica sociale nella regione che si esprime tramite
molteplici movimenti rurali.
Identifichiamo tre tendenze principali in questo processo. 1)
L’impulso di movimenti indigeni o contadini che pongono la questione del
neoliberalismo da un punto di vista nazionale; 2) la formazione di movimenti che
mettono in discussione il modello di sviluppo da una prospettiva settoriale e 3)
la formazione di organizzazioni regionali che tentano di dare una risposta
collettiva al processo di globalizzazione.
Sul primo versante del movimento, durante gli anni novanta
emersero movimenti di base indigena e contadina che si convertirono in
avanguardia nazionale. Tale è il caso dell’Esercito Zapatista di Liberazione
Nazionale in Messico, il movimento della Confederazione Nazionale Indigena dell’Ecuador,
il Movimento dei Senza Terra che deriva dalla decade passata in Brasile e il
movimento dei cocaleros in Bolivia.
Il comune denominatore di detti movimenti è stato la
proposta di trasformazione del modello di sviluppo da distinte prospettive. La
CONAIE sorse nel giugno del 1990 con una mobilitazione nella quale si
rivendicava lo Stato plurinazionale. Questo movimento raggiunse il suo picco
più alto nell’anno 2000 quando riuscirono a destituire il Presidente Jamil
Mahuad. Anche quando il movimento venne tradito e non riuscirono a frenare la
politica neoliberale del nuovo governante, la presenza degli indigeni rimase
manifesta come un pilastro essenziale nella trasformazione del paese.
L’EZLN sorse nel 1994 come movimento che sollevava le
rivendicazioni degli esclusi del Messico. Il movimento riuscì a stabilire un
dialogo con i governi di Salinas de Gortari e di Ernesto Zedillo così come a
formulare congiuntamente una proposta sui diritti degli indigeni. Ciò
nonostante, il governo di Zedillo disconobbe detto accordo. Durante il governo
di Vicente Fox fu nuovamente discussa la proposta di Legge Indigena dell’EZLN,
che venne portata davanti al Senato della Repubblica. Detto organo realizzò una
serie di modifiche alla denominata Legge Cocopa che svigorirono il suo contenuto
e che pertanto venne rifiutata dal movimento. Da allora esiste una guerra a
bassa intensità che ha mantenuto il conflitto latente.
L’MST sorse nel 1985 come un movimento di contadini che
esigevano la distribuzione della terra. Ha sostenuto una serie di occupazione di
terre, che hanno permesso di generare stabilimenti nei quali si organizzano
progetti produttivi, scuole e organizzazioni culturali. L’MST ha un progetto
di trasformazione nazionale, il Progetto Brasile, referente essenziale nel
programma dell’attuale Presidente Inacio Lula Da Silva.
In quanto ai cocaleros, costituiscono all’incirca 90 mila
famiglie che vivono nella zona produttrice di coca del Chaparè e appartengono
alla potente Confederazione Operaia Boliviana. Lottano per conservare la
coltivazione della coca di fronte alla mancanza di alternative economiche e
riuscirono a contendere la presidenza della Repubblica attraverso il loro leader
Ebo Morales nell’anno 2002. Hanno sostenuto la formazione di una Nuova
Costituente e hanno mantenuto una mobilitazione costante negli ultimi anni,
fortemente repressa dall’attuale governo.
I movimenti menzionati costituiscono un ciclo differente
rispetto a quelli che hanno prevalso anteriormente, nella misura in cui sono
riusciti a superare il piano settoriale per installarsi come movimenti di
trasformazione nazionale. Insieme ad essi, esiste anche un versante del
movimento che mette apertamente in discussione l’espansione degli Stati Uniti
attraverso gli accordi commerciali. In questo secondo versante spiccano il
movimento del Messico contro il NAFTA e il movimento dell’Ecuador contro l’ALCA.
Nel 1993 emerse un’organizzazione conosciuta come El
Barzon, che rivendicava il condono dei debiti contratti dai produttori rurali in
balia delle politiche neoliberali. Nel 2001 hanno promosso una marcia per la
dignità, percorrendo 200 km a cavallo, da Città Juarez al Distretto Federale
per esigere un cambiamento nella politica governativa nei confronti della
campagna. Nel 2001 sono sorte un insieme di mobilitazioni di produttori rurali a
livello nazionale che risentivano della competenza sleale degli Stati Uniti con
la messa in moto del NAFTA, così come con l’entrata indiscriminata di
prodotti provenienti da altri paesi. Queste mobilitazioni hanno visto partecipi
i coltivatori di mais di Sinaloa, i coltivatori di ananas del Tabasco, i
viticultori di Zacatecas, i coltivatori di canna da zucchero di tutto il paese,
i coltivatori di riso di Campeche etc., che dovevano affrontare una serie di
problemi per commercializzare i propri prodotti e i bassi prezzi agricoli dovuti
alle importazione indiscriminate. Nell’agosto di detto anno si formò il
Fronte Nazionale per la Difesa della Campagna formato da organizzazioni
indipendenti e dalla CNC, antica organizzazione corporativa del PRI che era
passata all’opposizione anteriormente all’ascesa del governo Foxista.
Nel novembre del 2002 è emerso nuovamente il movimento
nazionale con la formazione del Fronte “La campagna non sopporta più”,
costituito da 12 organizzazioni regionali, di fronte all’imminente apertura
commerciale per prodotti come il riso, il grano, l’orzo, la mela, la patata, i
prodotti avicoli, uova, etc., al compiersi di 10 anni dalla firma del Trattato
del Libero Commercio con gli Stati Uniti e il Canada.
Insieme a “La campagna non sopporta più”, i membri del
Consiglio Agrario Permanente, e quelli di El Barzon, hanno supportato un insieme
di mobilitazioni per esigere la rinegoziazione del Trattato del Libero
Commercio. Hanno il ponte Internazionale che comunica Città Juarez con il Paso
Texas, hanno bloccato il porto di Veracruz, realizzato uno sciopero della fame
nell’Angelo dell’Indipendenza di Città del Messico, convocato una grande
marcia nazionale il 31 gennaio 2003, che congregò 100 mila persone nello Zocalo
capitolino, col proposito di obbligare il governo a convocare, insieme ai
contadini, 8 mesi di discussioni e accordi sui temi rilevanti della campagna.
Un terzo nucleo di mobilitazioni in questo campo è quello
contro l’Accordo del Libero Commercio per le Americhe.
La Coordinatrice Latinoamericana delle Organizzazioni
Contadine (CLOC), nel suo terzo congresso, celebrato nell’agosto del 2001, con
la partecipazione di più di 50 organizzazioni latinoamericane, si è proposto
di sostenere giornate latinoamericane contro l’ALCA, così come una
consultazione popolare per controfirmare il rifiuto di questo accordo.
Nell’aprile del 2002 è stato portato a compimento il foro
andino “Le organizzazioni della campagna di fronte all’Area del Libero
Commercio delle Americhe” nel quale hanno partecipato organizzazioni come il
CONAIE e il Fronte Nazionale delle Organizzazioni Contadine e Indigene e Negre
dell’Ecuador, Fensuagro della Colombia, il CCP del Perù e il CIOEC della
Bolivia, per manifestare il loro rifiuto dell’accordo (Quintana Victor 2002).
Nel novembre 2002, nel marco della riunione ministeriale a
sostegno dell’ALCA, con la presenza di 34 ministri appartenenti ai paesi che
formano detto accordo commerciale, si è levata una massiccia protesta a Quito,
Ecuador, nella quale migliaia di indigeni e contadini di questo paese hanno
manifestato contro l’accordo con un totale di 10 feriti causati dalla
repressione governativa [8].
5. Riflessioni finali
La fase agro-alimentare globale che emerge negli anni novanta
ha accentuato fortemente le tensioni rurali del continente. L’utilizzo degli
alimenti come arma di dominio da parte degli Stati Uniti ha generato la
devastazione rurale così come un profondo scontento sociale. Questa nuova forma
di dominio da parte degli Stati Uniti e delle corporazioni multinazionali ha un
impatto su più livelli. Il primo e più visibile è l’esclusione e l’impoverimento
dei produttori rurali. Il secondo è il deterioramento della qualità degli
alimenti che si importano e che toccano da vicino la popolazione dei paesi
latinoamericani, e il terzo incide sulla sovranità politica dei paesi. Fino ad
ora, l’effetto più visibile è quello che riguarda i produttori rurali e per
questo sono quelli che stanno dando il volto a questa espansione conosciuta come
“colonialismo alimentare”.
Questa lotta si unisce ai movimenti contro la globalizzazione
e inizia ad avere un contenuto che va al di là di quello rurale. Le
mobilitazioni hanno iniziato a sensibilizzare la popolazione circa quegli
alimenti che riguardano tutti, e il controllo su di essi riguarda il pianeta nel
suo insieme.
Per questo, se i contadini resistono, sopravviveremo tutti,
perché essi sono i depositari della sovranità e della sicurezza alimentare dei
paesi del Terzo Mondo e conservano pertanto la possibilità di alimentare in
maniera sana la popolazione e di preservare le risorse naturali, e anche perché
essi potranno perseverare se l’insieme delle forze progressiste del mondo
riusciranno a frenare la corsa genocida del Modello Neoliberale. Questa è la
sfida.
Bibliografia
Belik Walter (2000), “Abastecimento e seguranca
alimentar: os limites da liberaçao”, Brasil, Unicamp. Instituto de
Economia.
CEPAL (2001), El estrado de la inseguridad alimentaria
en el mundo.
Citado por La Jornada. 26 de noviembre del 2001, Mexico.
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[1] Dati
elaborati in base a: FAO: FAOSTAT P.C Roma Italia 2002.
[2] Secondo uno studio della Banca Mondiale il costo delle sovvenzioni
agricole per 24 paesi industrializzati era alla fine degli anni ottanta intorno
a 200 mila milioni di dollari, mentre per l’anno 2002, i sussidi
corrispondenti ai paesi membri della OCDE raggiungevano i 311 mila milioni di
dollari (FAO 1991,9).
[3] Fonte: America
Economia. “Le 500 dell’America Latina”. Stati Uniti 1991, 1995, 1996, 1997
e 1999.
[4] Dati elaborati in base all’informazione
di CECAM. (Ana de Ita 2000, 68, 102, 128, 155 e 166).
[5] Dati elaborati in base a: FAO; FAOSTAT. P. C. Version Roma,
Italai, 2003.
[6] Ibidem.
[7] CLOC,
“ La ofensiva del gobierno contra el MST”, Boletin. n.17, Brasil, mayo
2000.
[8] Diario La Jornada. 15 gennaio 2002 e successivi.