Reddito Sociale Minimo: una riflessione sulla prospettiva
Vincenzo Bellini
Questo secondo articolo dedicato al Reddito sociale minimo (Rsm), è la continuazione di quello pubblicato sul precedente numero di Proteo. Nell’articolo in questione si sono evidenziate le condizioni concrete: internazionali, economiche, politiche e sociali, entro cui la proposta del Reddito Sociale è nata ed è andata avanti.
Si è fatto altresì il punto delle iniziative promosse e dei passaggi individuati per chiarire il tipo di percorso adottato.
Dopo di ciò diventa utile passare a ragionare sulle prospettive. |
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1. La ripresa economica
Lo stato di salute in cui versa l’economia internazionale
ad occidente non è cambiato. Il suo tasso di crescita è basso e non si vede
la fuoriuscita dalla stagnazione, nonostante i ripetuti annunci dell’avvio
di un nuovo e virtuoso ciclo economico. Gli Stati Uniti d’America non
riescono a risollevare la loro economia come vorrebbero (c’è un eccesso di
capitale). Non bastano la rivoluzione tecnologica e il signoraggio del
dollaro, gli Usa cercano pertanto di avvalersi della loro supremazia militare.
I cosiddetti deficit gemelli (deficit pubblico e debito
delle partite correnti) sono un problema considerato le dimensioni assunte -
sono però utili alla politica economica perseguita: il debito dello Stato,
delle famiglie e delle imprese servono a sostenere l’economia. Il costo
della divisa statunitense è destinato a crescere a sentire lo stesso
responsabile della Federal Reserve, Greenspan.
Gli elementi considerati ed altri indicatori sembrano
confermare che la ripresa americana non sarà forte come necessario.
L’Ue non è in grado di fare le veci degli Usa per la
ripresa internazionale. Il suo processo d’integrazione economica e di
divisione del lavoro richiede ancora passaggi considerevoli.
La crescita economica si prefigura timida e le tasche di
milioni di lavoratori e pensionati europei non ne trarranno vantaggio.
Il processo dell’accumulazione deve proseguire e, a
giudizio delle borghesie europee, per sostenerlo servono grandi risorse.
Pertanto, una vera re-distribuzione di reddito non verrà
dai governi attuali, né da quelli che si propongono di sostituirli (di
proposte politiche veramente alternative non se ne vedono da nessuna parte).
Questo ragionamento vale per tutta l’Unione e, a maggior
ragione, per quei paesi che se la passano male anche in termini di
competitività come l’Italia.
2. La politica economica
Il Neoliberismo alla Reagan e alla Tatcher, aveva un
compito fondamentale: abbattere le linee difensive ed organizzative del
movimento dei lavoratori.
L’altro scopo, quello strettamente economico, mirante a
costituire nuove condizioni per la ripresa dell’accumulazione del capitale,
ha assestato colpi poderosi contro il mondo del lavoro e portato vantaggio
enorme al capitale, ma mostra la corda. Lo sviluppo non arriva.
La borghesia europea, vuole tener testa alla concorrente
borghesia americana.
Per questo non vuole derogare al liberismo sfrenato, che fa
perno sul controllo e l’uso delle risorse di Stato, sul taglio dei salari e
delle prestazioni sociali, sulla domanda per gli armamenti e sulla guerra.
Tale volontà si scontra però con numerose difficoltà.
Entrando nel merito delle politiche economiche dell’Ue,
La ricetta di ridurre le tasse per far crescere la domanda di consumi privati,
trova ostacoli nel livello dei vari debiti pubblici e deficit di bilancio
considerando che l’economia è senza slancio.
Va considerato poi che questa strada porta per conseguenza,
tagli al sistema di protezione sociale cosa non facile da fare senza
compromettere una quota di consenso pubblico. A complicare le cose (è questa
la novità più importante), c’è che la politica dei sacrifici trova da
qualche tempo una contestazione più forte.
Per dare un impulso alla ripresa dell’accumulazione
(attraverso più produttività) si sta puntando sul rilancio degli
investimenti produttivi e delle infrastrutture.
L’obiettivo è di attrarre ancora più capitali con la
prospettiva di maggiori occasioni di profitto. Lo Stato deve farsene carico
finanziando la costruzione d’infrastrutture e la spesa nella ricerca
(nonché le spese militari).
I margini per ridurre ancora salari e redditi sono
limitati, anche perché si contrarrebbe la voce dei consumi già fiacca. Il
costo del lavoro non è solo una spesa.
La scelta congiunturalmente più appropriata e socialmente
più giustificabile per spese che portano ad un peggioramento dei deficit
pubblici o a modifiche nelle priorità delle spese statali, è quella di forti
investimenti.
A fronte di questo si considerino, i vantaggi offerti dall’ampia
disponibilità di manodopera dei nuovi paesi più periferici dell’Europa,
mentre al centro del continente la precarietà del lavoro dà nuove
opportunità.
La politica degli investimenti però non mette tutte le
cose a posto. Si tratta di aggiungervi l’aumento delle ore lavorate,
ovverosia estendere la giornata lavorativa. All’interno dell’Ue si punta
anche su questa vecchia ma sempre valida soluzione.
La strada seguita alla Siemens in Germania, alla Bosch in
Francia e via discorrendo, con più ore allo stesso salario, è emblematica.
Si tratta di un aumento dello sfruttamento, ma è chiamata
politica dei redditi.
Della re-distribuzione della ricchezza neanche a parlarne
ovviamente.
3. Il quadro politico
I vincoli di spesa e di bilancio imposti dal patto europeo
firmato a Maastricht, sono una pietra al collo dei governi, però possono
diventare meno rigidi, giacché perfino Germania e Francia si concedono delle
deroghe.
Siamo in una fase in cui la spesa pubblica deve svolgere un
ruolo più forte, deve avere dei margini anche di crescita. Il debito e il
deficit non si possono ridurre a colpi di tagli e basta, occorre perciò
favorire la ripresa dei profitti.
La Confindustria ha cambiato i suoi vertici per misurarsi
con quest’esigenza di politica industriale. La scelta è mantenere ferme le
retribuzioni (l’adozione dell’euro costringe a scaricare all’interno del
paese i costi, svalorizzando la forza lavoro e deflazionando i salari),
tagliare le spese e cercare sponda nelle associazioni sindacali.
Con la nomina di Montezemolo si riapre ai sindacati
confederali Cgil-Cisl-Uil e si propone una versione, adeguata alla fase, della
concertazione messa da parte da Berlusconi.
Le divisioni nate nel Governo guidato dal Centro-destra
hanno quest’origine. La compagine di governo è andata in crisi, sia perché
inadeguata alla nuova fase sia perché si è dimostrata incapace di dare
risposte alla crisi industriale dell’Italia.
Le colpe non sono però tutte di Berlusconi. Le principali
responsabilità le porta il padronato che, non potendo più scaricare i
problemi strutturali del suo nanismo industriale con le svalutazioni
competitive, ha affrontato la competizione internazionale e l’arrivo dell’euro
rifacendosi sui salari dei lavoratori. Le portano i governi di centro-sinistra
che hanno sposato una politica delle privatizzazioni e della svendita delle
migliori e grandi aziende pubbliche.
Il rilancio della concertazione chiama in scena un terzo
attore, lo Stato. La Confindustria, per superare la crisi strutturale e i
limiti del capitalismo nostrano, conta sulla spesa pubblica oltre che sul
coinvolgimento dei sindacati confederali. D’altro canto l’Italia non ha
avuto la sua migliore performance proprio con questo tipo d’intervento di
politica economica?
A loro volta Cgil-Cisl-Uil, sanno che possono giocarsi
questa carta per rafforzare la loro posizione e per dare più credito al
rilancio di una nuova concertazione con gli industriali, che alla richiesta di
miglioramenti salariali. Questi ultimi però possono arrivare solo come
risultato di una crescita dell’economia in termini di profittabilità.
Qualche concessione può venire se a pagare sarà lo Stato
(sempre i cittadini) con la riduzione immediata della spesa pubblica per
pensioni e sanità, a favore delle risorse destinate a sostenere gli
investimenti pubblici e delle imprese private.
In questo caso il reddito reale dei lavoratori non è che
cresca.
Forse, sarà possibile aumentare il peso delle buste paghe
ritoccando le tasse sul lavoro. Ciò però non equivale ad un aumento.
La salute economica dell’Italia è preoccupante e margini
ce ne sono pochi.
Sconfiggere la destra al governo, non risolve le cose
perché s’avanzano altre posizioni che occorre valutare.
Messo da parte uno sconvolgimento politico istituzionale
che possa far nascere un governo di forze di centro, il centro-sinistra
guidato da Prodi si propone come interlocutore più naturale della politica
economica che in Italia sta avanzando.
Approva e può rafforzare il dialogo sociale, parla di
riforme (quali?), può garantire meglio i sacrifici per il risanamento dei
conti pubblici.
Alcuni temi non compromettenti socialmente sono dichiarati:
prezzi, tariffe, produttività, inflazione, politica industriale.
Qualunque sarà la combinazione di questi obiettivi, di
sicuro è che un governo di centro-sinistra proporrà una politica dei redditi
in salsa più edulcorata e apparentemente più equa per tutti.
La coalizione guidata da Prodi, punta di nuovo a farsi
interprete dell’interesse nazionale, e per far questo trova obbligato
togliere ancora una volta le castagne dal fuoco agli industriali lavorando al
rilancio del paese.
Una strada diversa dalla concertazione non è auspicata
dalla Confindustria e sarà perseguita fino in fondo.
Il rischio che si corre difatti, è che monti ulteriormente
la conflittualità sociale.
4. La fase sociale
Sui limiti della crescita economica si è innestato il
movimento no-global e la protesta sociale che sembra capace di crescere e
incidere ulteriormente. Si è venuto costituendo così un humus al quale
occorre rivolger molta attenzione.
Può allora bastare la ripresa, aggiornata, della politica
dei redditi per rispondere alla fase sociale che stiamo attraversando?
Questo dato è molto interessante e va preso in esame.
In Italia il quadro istituzionale si è messo in movimento
perché c’è un cambiamento nella società che ha bisogno di nuove risposte.
Il conflitto sociale è cresciuto (anche in Europa). Il dato nuovo è che esso
è innervato da un grado di politicizzazione che può, con il passar del
tempo, ripercuotersi sulle posizioni e i programmi della sinistra e sulle
inique politiche dei redditi.
Le elezioni europee, se facciamo riferimento a quell’area
del 15 per cento a sinistra della lista Prodi come hanno visto in molti,
sembrano indicare la richiesta di una politica più radicale per la sinistra.
Un segnale simile viene dalla stessa Germania, dove la
critica alla politica della Spd, cerca uno sbocco con la nascita di una nuova
formazione politica di sinistra; ma ne esistono anche per altri paesi europei.
Va puntualizzato una volta di più, che la crisi
neoliberista non deve essere scambiata per una crisi già consumata dei
governi improntati alle politiche economiche di destra.
Si riconferma l’esigenza, come abbiamo detto nella prima
parte di quest’intervento sul reddito, della messa in campo di una risposta
all’altezza delle ricette liberiste e conservatrici, altrimenti la difesa e
il rilancio del Welfare sono difficili.
5. Il diritto al reddito: elemento costitutivo dell’identità della
sinistra
In Germania il sussidio di disoccupazione ha avuto una
decurtazione: ciò testimonia del rigore economico che le borghesie Ue devono
seguire.
Il diritto al reddito, che non sia un miserevole sussidio
di povertà, deve perciò essere conquistato con la messa in campo di un
movimento profondo e durevole.
È una lotta che è parte della questione più complessiva
dei diritti e del salario.
È una battaglia di non poco conto, perché si scontra con
una resistenza della classe borghese che non accetta l’idea di
re-distribuire la ricchezza prodotta, va ricordato, dai lavoratori.
Solo un’adeguata conflittualità di classe può portare
avanti questa vertenza.
Il mondo del precariato ha dato segni di vitalità, manifestato voglia di
resistenza e qualcosa di più. Nel complesso il mondo del lavoro ha dato
conferme di ripresa di lotte per il salario e per i diritti.
Vengono emergendo comportamenti soprattutto dalla classe
media, colpita e preoccupata anch’essa dell’instabilità delle proprie
condizioni attuali e future
Nei prossimi mesi, le prospettive della lotta per il
reddito non possono che rafforzarsi, intanto guadagnando spazio e consenso all’interno
della stessa sinistra più radicale. Ciò aggiungerebbe un nuovo elemento di
contrasto con i partiti dell’Ulivo.
Le contraddizioni si fanno strada anche nel raggruppamento
che si pone come alternativo al Centro-destra.
Con una debole crescita economica e conti da risanare, di
quali soluzioni può disporre un governo, sostenuto dai partiti che fanno
riferimento al Centro-sinistra, per difendere il Welfare statale o apportarvi
miglioramenti?
La politica del passato: risanamento e poi benefici sono
difficili da giocare senza rischiare questa volta pesanti effetti sociali.
Ciò può trovare conferma nel fatto che la concertazione
tra Governo, Confindustria e Cgil-Cisl-Uil, sia meno solida e forte di quanto
ci si aspetti.
La situazione non è la stessa del ’93. Non si tratta,
come allora, di risanare solo i conti pubblici. La competitività delle
aziende presenti nel paese non può avvantaggiarsi della svalutazione che la
Lira allora permetteva.
Dai lavoratori, non arrivano indicazioni di beneplacito
alle politiche dei sacrifici (per evitare che arretrino, non si deve lasciarli
soli o far passare accordi contrattuali indigeribili: qui purtroppo si
riverberano i problemi dello stato in cui versa la sinistra, ma c’è anche
il problema sindacale).
Difficoltà impreviste possono venire dalla stessa base del
sindacato confederale (oltre che da resistenze interne alla Cgil).
A sinistra dei riformisti c’è una sinistra articolata in
alcune formazioni politiche, nei sindacati di base, un movimento critico e
variegato che può condizionare la politica economica dei primi.
Un centro-sinistra che arrivasse alla guida del paese in un
clima d’accresciute contraddizioni interne ed esterne, e alla presenza di un
forte stato di conflitto, sarebbe costretto a misurarsi con la questione della
rivendicazione di una legge per il reddito.
In questo scenario, può rivelarsi importante la
concretezza del percorso tracciato dalla Rete per il reddito (vedi anche le
proposte di legge), a differenza di quello virtuale del reddito di
cittadinanza.
Esso tornerebbe utile altresì, per contrastare l’elargizione
d’assegni di povertà, che i riformisti sono pronti a mettere in campo per
lustrare la loro politica (il massimo della protezione delle fasce deboli) sia
a livello nazionale che locale dall’altra.
L’iniziativa della Rete ha messo in campo alcune proposte
di leggi regionali improntate al Rsm indiretto, che possono rafforzare il
movimento per il reddito nel territorio. La mobilitazione nazionale dell’autunno
e le altre che si preparano saranno altrettanti momenti di consolidamento
organizzativo.
Fondamentale resta l’impegno di saldare il corpo sociale
del lavoro diffuso, flessibile, delle mille precarietà, falsamente
indipendente con l’iniziativa della Rete.
Il reddito per tutti può diventare nei prossimi mesi un
elemento costitutivo dell’identità per una sinistra radicale, un punto
discriminante verso qualsiasi governo che parli di difesa dello Stato sociale
e di diritti.