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Cooperative sociali e precarietà: una risposta nel reddito sociale. Miti e degenerazioni del lavoro in cooperativa

Luigi Marinelli

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1. Il mito dell’autogestione

In questi ultimi mesi le iniziative di lotta dei lavoratori delle cooperative sociali sono riuscite a svelare alcuni aspetti nascosti di un settore più ampio, il cosiddetto no-profit, che erroneamente è considerato marginale rispetto a settori tradizionalmente più forti e sindacalizzati. Nelle cooperative sociali sono 170.000 gli operatori che, in gran parte su commesse pubbliche, si occupano dell’assistenza ad anziani e disabili, di disagio sociale, di integrazione scolastica e di molto altro ancora.

Lo sviluppo delle cooperative sociali e del no-profit in generale è sostenuto da molti come la soluzione per conservare, se non addirittura per migliorare, i livelli di assistenza socio-sanitaria in un contesto caratterizzato da continui e reiterati tagli alla spesa sociale a fronte di un aumento della richiesta di assistenza; addirittura lo sviluppo del settore è promosso come alternativa ad ulteriori processi di smantellamento e di privatizzazione pura e semplice. Siamo di fronte ad una mistificazione della realtà, ad un capovolgimento dei meccanismi e delle scelte che hanno determinato il successo della cooperazione sociale. Considerazioni che non appartengono solo alla dirigenza delle associazioni cooperative (Legacoop, Confcooperative e AGCI) ma che pervadono anche ampi pezzi della sinistra radicale e di movimento: nella cooperazione sociale si vorrebbe trovare un orizzonte di sviluppo “altro” rispetto al normale sistema imprenditoriale. Un vero mito autogestionario che non trova nessun riscontro nella realtà e che non può, specie nell’attuale contesto di crescente competitività e precarizzazione, trovare spazi materiali per proporsi.

Non si tratta solo del fenomeno diffuso delle c.d. “finte cooperative” (per definizione nate con l’esclusivo scopo di utilizzare le agevolazioni normative, contrattuali, previdenziali e fiscali); il fenomeno è più profondo e ampio. Le origini delle coop sociale sono legate ad una parte della sinistra fine anni ‘70 che ha trovato nell’impresa sociale una risposta alla crescente disoccupazione intellettuale: medici, assistenti sociali, psicologhe trovarono nella costituzione di cooperative rivolte all’assistenza socio-sanitaria-educativa una prospettiva di lavoro e anche di impegno politico-culturale.

Le storiche caratteristiche di flessibilità e disponibilità tipiche della formula cooperativistica vennero esaltate tramite l’argomento dell’alta finalità sociale dei servizi gestiti e di una presunta migliore qualità intrinseca rispetto ai servizi gestiti direttamente dall’amministrazione pubblica, per definizione statalista e burocratica. Dal ruolo iniziale, in alcuni casi sperimentale e di nicchia, le cooperative sociali si sono trasformate, senza troppi incidenti o crisi di coscienza, in ottimi strumenti del processo di privatizzazione ed esternalizzazione della sanità e dei servizi sociali pubblici, divenendone anche promotrici attive. Il tutto è accompagnato dall’argomentazione di aver creato, dal nulla, decine di migliaia di posti di lavoro (che in realtà sono solo i posti di lavoro pubblici non più coperti ma esternalizzati). Per i sindacati confederali vi è sempre stato un pieno riconoscimento della specificità delle cooperative sociali; infatti nel 1992 arriva un contratto collettivo nazionale ad hoc del settore a garanzia della diversità della categoria e del ruolo nel sistema dei servizi alla persona. Le forze politiche, in maniera più che trasversale, hanno dato il loro contributo con la produzione di leggi e normative di sostegno allo sviluppo del settore e di regolamentazione dei contratti di servizio tra coop e enti pubblici (L. 381/91 e L. 328/2000); alla quale si aggiunge la riforma della figura del socio lavoratore (L.142/01) e la cancellazione del diritto all’equo trattamento negli appalti. Questo forte sostegno al sistema cooperativo, da parte dei sindacati concertativi e dei partiti, è motivato anche da interessi diretti: dalla gestione di pezzi del settore cooperativo, alla vera e propria spartizione delle commesse pubbliche.

L’affidamento dei servizi pubblici alle cooperative sociali, oltre ad essere incentivato dalle leggi, rappresenta una scelta dettata non solo da elementi immediati, come il minore costo del personale, ma anche da ragioni legale alla maggior flessibilità nella gestione dell’organizzazione del lavoro e soprattutto nella possibilità, al bisogno, di dequalificare, ridurre o chiudere servizi e interventi con minori resistenze e difficoltà. A questi elementi di “razionalità” aziendalista da parte degli enti pubblici si aggiungono ragioni legate alle varie clientele e alla spartizioni degli appalti tra aree politiche.

Questi elementi hanno portato alla situazione attuale: sono tante le cooperative sociali che fatturano annualmente decine di milioni di euro, hanno centinaia di soci-lavoratori e operano su tutto il territorio nazionale. Questo non significa che le piccole e medie cooperative rappresentino una alternativa; anche queste ultime sono inserite nello stesso meccanismo: singolarmente o associate in consorzi riproducono le stesse dinamiche aziendali delle più grandi, pena l’esclusione dal mercato degli appalti e la conseguente chiusura. Che non siano le dimensioni a contare lo dimostra ampiamente la realtà delle cooperative sociali di tipo B (ai sensi della L. 381/91), dedicate al reinserimento di persone svantaggiate (dal settore delle dipendenze, al carcerario e alla psichiatria). Nel lavorare nelle cooperative di tipo B, sia come operatore “normale” che come “reinserito”, si arriva a limiti inimmaginabili: orari, salari e norme legalmente, contrattualmente e completamente derogabili. Le coop sociali di tipo B si sono riservate un ruolo importante nella elusione delle assunzioni obbligatorie anche con la gestione di appalti interni alle aziende private.

In questo contesto, il modello democratico della partecipazione cooperativa è da molti anni in crisi: le assemblee dei soci vengono convocate solo per la ratifica delle decisioni prese dai consigli di amministrazione, per le formalità previste dal codice civile e per l’approvazioni annuali dei bilanci.

Le assemblee sociali sono esautorate di ogni potere effettivo, la gestione è in mano ad una casta di presidenti “politicamente inseriti” e a tecnici specializzati negli appalti. L’emergere della parte oscura del lavoro nelle cooperative sociali, il livello di precarietà e di sfruttamento, la diminuzione dei salari e l’aumento della flessibilità sono spacciati come marginali degenerazioni di un sistema che per definizione è comunque solidale, le responsabilità vengono spostate sulla committenza pubblica (enti locali e aziende sanitarie in gran parte) che viene accusata di avere un rapporto “arretrato” con il settore (da semplici fornitori), mentre la cooperazione rivendicherebbe, anche per sanare le già dette distorsioni, un rapporto di autentica “sussidiarietà”.

2. Laboratori di iperprecarietà

Predominanza del rapporto associativo su quello lavorativo; non applicabilità delle norme sui diritti sindacali e di tutela dai licenziamenti; contributi previdenziali ridotti e differenziati provincia per provincia (c.d. Salario Medio Convenzionale); contratto collettivo nazionale di lavoro quadriennalizzato e legalmente derogabile; istituti di flessibilità oraria e salariale elevatissimi, predominanza del lavoro in appalto, elevata frammentazione territoriale dei lavoratori. La legge 30/2003 trova nel settore una prateria nella quale dispiegarsi pienamente: la somministrazione, il lavoro a chiamata e tutte le altre tipologie contrattuali, già erano di fatto presenti nelle cooperative sociali e troveranno nella incalzante applicazione della riforma Biagi la loro piena legittimità. Possiamo prospettare che, senza una adeguata resistenza a questi processi, verranno prodotti effetti devastanti che si rifletteranno non solo sulle condizioni dei lavoratori ma anche sulla qualità/quantità dei servizi sociali e sanitari affidati alle coop sociali e al no-profit.

La ricattabilità e il ferreo comando sull’organizzazione del lavoro, slegata da ogni reale controllo di qualità (appalti e privatizzazioni sono un contesto di deresponsabilizzazione dell’amministrazione pubblica) accompagneranno l’aumento dei carichi di lavoro e la diminuzione dei livelli di sicurezza, che nei servizi alla persona sono, ovviamente, fattori importantissimi. L’ulteriore peggioramento del rapporto tra tempi di vita e di lavoro (e già oggi rileviamo fluttuazioni di impiego da zero a più di 200 ore mensili), con la riduzione dei salari diretti e indiretti, renderanno il lavoro assistenziale-educativo-riabilitativo ancora più dequalificato e demotivato. Ancora un elemento di analisi: il limite basso dei livelli di regolarità dei rapporti di lavoro in questo settore non è il classico lavoro in nero ma il rapporto di “volontariato” che non è da considerarsi come un’attività libera e gratuita; nei servizi, con il consenso formale ed informale degli stessi enti committenti, la presenza dei volontari (pagati a rimborso con pochi euro l’ora) rappresenta l’esercito industriale di riserva del no-profit, la risorsa pronta all’utilizzo per affiancare e sostituire il lavoratore, con l’apparente mantenimento dei livelli di assistenza e di qualità dichiarati. Le considerazioni finora esposte hanno come riferimento situazioni che potremo definire “medie”, basti pensare che, avendo come riferimento la semplice applicazione del contratto collettivo nazionale, in diverse zone del nord del paese e in quasi tutto il sud (a partire da Roma) le condizioni di regolarità di impiego sono rare. Il lavoro nella cooperazione sociale nel meridione assume contorni ancora più precari e clientelari, le coop sociali (nella loro veste di creatrici e promotrici di posti di lavoro) si innervano con le schiere di marginalità, esclusione giovanile, immigrazione, pronte a essere impiegate a qualsiasi condizione e costo: essere impiegati in una cooperativa sociale significa non avere un vero e proprio lavoro, significa essere impegnati saltuariamente e ricevere salari ancora più intermittenti. Le cooperative si riducono ad essere strumento di smistamento di incarichi temporanei su commissione di comuni, provincie, aziende USL e ministeri.

3. L’emergere del conflitto: le lotte e la proposta del reddito sociale

Nonostante le difficili condizione per un intervento nel settore il sindacalismo di base è stato in grado di fornire una resistenza, limitata territorialmente ma non simbolica, alla desertificazione dei diritti nelle cooperative sociali. Una resistenza che negli ultimi mesi si è espressa nella convocazione il primo vero sciopero nazionale del settore. In occasione della fase finale del rinnovo del contratto nazionale del settore, la CUB insieme ad altre realtà del sindacalismo di base ed autorganizzato è riuscita a dar vita e forza ad un coordinamento nazionale di lotta degli operatori delle cooperative sociali. Rifiuto delle posizioni e delle pratiche concertative dei sindacati CGIL-CISL-UIL; svelamento delle condizioni del lavoro “sociale” e della reale natura della “sussidiarietà” del no-profit; azione di contrasto dell’introduzione di ulteriori istituti di flessibilità (L. 30/2003); Le questioni poste non potevano riguardare semplicemente il contratto nazionale: al centro della riflessione e dell’azione sono state poste le condizioni generali di precarietà del lavoro e il ruolo nei processi di privatizzazione e dequalificazione dei servizi pubblici e dello stato sociale in genere. Le iniziative di lotta e lo sciopero nazionale indetto dai sindacati di base hanno dato un ulteriore scossone alle mitologie persistenti riguardo le caratteristiche del settore, ma oggi si pone il compito individuare i limiti e le prospettive di queste lotte. È da evidenziare la caratteristica di “precarietà sociale” del lavoratore delle cooperative a prescindere dal particolare tipologia del contratto individuale di lavoro che potrà anche essere “formalmente” stabile, ma assolutamente precario nella sostanza; condizione dovuta all’intrecciarsi dei diversi e potenti fattori parzialmente descritti.

Il lavoro nelle cooperative sociali rappresenta una delle punte più avanzate sia dei processi di precarietà regolata e “concertata” sia di quella irregolare e “sommersa”. Una condizione di precarietà e di ricattabilità che impone al lavoratore un condizione di oppressione e di ordinaria omertà, se non di complicità, di fronte al manifestarsi di casi malasanità e di abusi nei confronti di utenti e soggetti svantaggiati, prime vittime dei processi di smantellamento dei servizi e dell’aziendalizzazione del socio-sanitario. La condizione di precarietà diffusa e articolata nel forme e nel territorio, l’importante funzione pubblica dei lavoratori del settore, li pone nella potenziale condizione di essere protagonisti non solo di iniziative a difesa e rilancio dello stato sociale ma soprattutto di essere parte integrante del sempre più ampio movimento di lotta per l’introduzione del reddito sociale.

Le caratteristiche stesse del settore, lo stesso meccanismo su cui si basa il suo sviluppo rende estremamente parziale una classica vertenzialità sindacale di tipo aziendale e categoriale, ed ecco che si pone la necessità di scardinare quello che appare un circolo vizioso tra riduzione della spesa sociale, privatizzazione tramite cooperative e precarizzazione. Questo percorso di resistenza per i lavoratori del settore, e in generale del no-profit, è marcato dalla necessità di dover affrontare in maniera diretta il nodo delle scelte generali di politica sociale: l’inversione di marcia dei processi contrazione della spesa sociale e l’introduzione del reddito sociale. Nella proposta del reddito sociale è necessario evidenziare dei punti fondamentali che caratterizzano la rivendicazione distinguendola dai vari redditi di “inserimento” sostenuti anche dallo stesso mondo cooperativo come ulteriore terreno di co-gestione solidaristica. La rivendicazione alla quale ci riferiamo è il diritto ad un reddito diretto che si rifiuta di ridursi a sussidio di povertà, un reddito per precari, disoccupati e pensionati al minimo, italiani e migranti (sempre più presenti nel sociale a comunciare dal fenomeno delle badanti), un reddito per non accettare il ricatto del dover scegliere tra lavori saltuari e malpagati, diventando spesso complici di situazioni contenitive e repressive nei confronti di soggetti deboli e svantaggiati; il diritto ad un reddito “indiretto” per tutti rilanciando lo stato sociale: dall’accesso gratuito ai servizi socio-sanitari pubblici, al diritto all’abitazione, all’accesso ad una vera formazione professionale e alle culture. Per i lavoratori delle cooperative sociali la valenza conflittuale della proposta del reddito sociale risulta quindi amplificata proprio dal ruolo interno a quello che è stato definito come “welfare dei miserabili”. Un orizzonte rivendicativo apertamente in contrasto con le attuali tendenze, una ipotesi di intervento che contiene un potenziale unificante adatto a superare l’attuale condizione di frammentazione, di individualizzazione dei rapporti di lavoro, di iperprecarietà e ricattabilità dei lavoratori delle cooperative sociali; e a collegarli attivamente con il resto del precariato per un percorso di trasformazione collettiva del lavoro e della vita.