1. Quali incertezze
Incerto ci sembra il futuro: come se scivolassimo lentamente
ma inesorabilmente lungo un piano inclinato, senza appigli e senza presa sulle
cose, indipendentemente da ogni nostro sforzo. Peccato che un solo autore si sia
appropriato per una sua opera di un titolo efficace: “L’età dell’incertezza”;
era un economista e parlava di tempi a noi vicini. In un mondo senza copyright
tutti in egual modo potremmo rilasciare la nostra dichiarazione sullo stato
delle cose, così come ci sembra, e a nessuno sarebbe vietato di intitolarla
così.
Non tutti a questo mondo si pongono il problema di cambiare
il sistema sociale, di avere un progetto politico, di sapere (o di non sapere)
quindi “che fare”. Per molti, diciamo per tutta quella parte di società che
definiamo conservatrice, le cose nel complesso vanno bene abbastanza così come
sono. Chi è ricco e potente non ha nessun interesse a cambiare profondamente
questo tipo di società. Al massimo ci sono problemi di “aggiustamenti” o di
frizioni tra le diverse “frazioni” della classe dominante. Ma nel complesso
essa è letteralmente conservatrice.
Cambiano invece le cose per chi nasce “meno abbiente”. Il
problema dell’incertezza sul modo per vivere un futuro diverso dall’oggi,
possibilmente migliore, riguarderebbe dunque tutti quegli altri, i molti che a
questo mondo ci stanno scomodi e con poche risorse.
Ma se ci sono persone che a questo mondo ci stanno male
veramente, è credibile che abbiano dubbi sulla loro fame o sulla loro povertà?
A chi sta veramente male non si addice la riflessione. Gli ultimi di questo
mondo vanno, o muoiono. Infatti, nonostante tutti i pattugliamenti e le tempeste
possibili, un numero eccezionale di poveri è sempre disposto a rischiare la
vita pur di scappare dalle coste del nord Africa verso l’Europa, attraverso il
mare. Cosa può spingerli, in tanti e a tanto, se non una disperazione certa?
In altre parole: le incertezze - le nostre incertezze - sono
le stesse comuni a tutti i poveri di questo mondo o sono piuttosto una
caratteristica tipica di quella parte del mondo ricco che della ricchezza
raccatta le briciole, alle quali non vuole comunque rinunciare? Detto
crudamente: i “girotondi”, i “forum” e le “reti”, nonché un certo
tipo di impegno politico o sindacale che assomiglia molto all’abitudine, che
cosa sono se non l’eterno tentativo di trovare la formula per conciliare la
nostra parte di benessere con il desiderio, tipico dell’individuo medio “moderno”,
di tranquillizzare la propria inquieta e disoccupata coscienza?
La formula non si trova perché la contraddizione è nei
termini stessi della questione: il nostro odierno benessere di minoranza “sviluppata”,
vivente nella parte “occidentale” del mondo, si fonda - in misura minore, ma
allo stesso modo del benessere vero e proprio dei più ricchi - sullo
sfruttamento del mondo restante. I bambini nigeriani fanno buchi negli oleodotti
che attraversano i loro villaggi per sottrarre un secchio di petrolio (che
sarebbe più loro che nostro), per sottrarlo a chi? A chi se non a quelli che
hanno a disposizione tanta benzina ed energia, ad un costo che neanche
conoscono? A chi fa comodo che il petrolio dei nigeriani sia loro sottratto
(costringendoli poi a rubare ai ladri) se non a noi, anche a noi?
Se riuscissimo a superare questa intima, profonda
contraddizione e ci decidessimo a riformare la struttura sociale, non ci
mancherebbero i progetti. Progetti realistici: al di là delle accezioni che il
termine “riformismo” è andato assumendo nel corso della storia, si può
senz’altro dire che delle vere riforme economiche e sociali avrebbero sul
nostro sistema un impatto rivoluzionario.
La società moderna è una costruzione composita,
aggrovigliata, ardita (non mancano, i “crolli”) e per di più “vivente”.
Volendo trasformarla prima che diventi un cumulo di macerie, non si tratterebbe
semplicemente di spostare dei “mattoni sociali” da qui a lì; neanche di
eliminare soltanto le “pietre” che il tempo ha già dimostrato essere
superflue, inutilmente decorative o solo di peso all’“edificio sociale”.
Non ci sarebbero tante incertezze, in questi casi. Si tratterebbe di conservare
certi equilibri (non gli stessi che salverebbero i “conservatori”,
naturalmente) ricollocando grosse masse di “benessere” adesso inutili, o a
disposizione di pochi. Una cosa complicata ma possibile.
Sono diffuse le analisi e gli studi sociali, economici e
politici. E se non bastassero i ragionamenti, l’attualità ci sbatte ogni
giorno in faccia fatti che dimostrano come questa nostra società non è l’ultima
e neanche la perfetta. Per quali motivi allora (oltre che, ovviamente, per l’indiscutibile
benessere tra noi diffuso, anche se mal distribuito) tanta inerzia al
cambiamento vero? L’incertezza e la conseguente inconcludenza sono da
attribuire al timore inconfessato che, se si cominciasse veramente a
redistribuire la ricchezza globale, dovremmo preventivare una conseguenza
essenziale per noi: “rinunciare”. Quanti seguirebbero il primo che desse un
esempio su questa strada? Cavour, a proposito delle velleità rivoluzionarie che
nel 1848 infiammarono mezza Europa, disse: “Se l’ordine sociale fosse
davvero minacciato, se i grandi principi sui quali riposa, corressero un
pericolo reale, si vedrebbero - ne siamo persuasi - molti fra gli oppositori
più determinati, fra i repubblicani più esaltati, presentarsi per primi nelle
file del partito conservatore”.
Nessuna questione è più vecchia di quella futura.
2. Errori di prospettiva
Siamo immersi nelle cose e il rischio che quelle più vicine
ci sembrino anche le più grandi è reale. Chi scrive vive in una parte di mondo
che - come e più del resto del mondo - è molto cambiata, negli ultimi decenni.
Se non ci inganna la prospettiva, quindi, nel meridione d’Italia
è più evidente che mai l’impotenza tipica dell’uomo moderno occidentale
medio, quasi schizofrenico, combattuto e indeciso tra un livello di consumi
inaudito e gradito (anche se sempre più accompagnato dalla consapevolezza della
scarsa qualità di molti prodotti consumati) e la inevitabile e insopportabile
visione della propria recente povertà “scaricata” oggi su altri uomini,
più o meno vicini. Il meridione d’Italia, pur compreso nel più vasto sistema
economico politico “occidentale”, ne è rimasto a lungo ai margini e
continua a mostrane vivissime le contraddizioni.
Nel giro di una sola generazione dalle campagne pugliesi sono
scomparsi gli animali da soma. La meccanizzazione è arrivata improvvisamente:
dalla potatura alla raccolta, passando naturalmente per l’aratura, non ci sono
più fasi in cui l’agricoltore non si avvalga dell’ausilio di energia
artificiale. E anche di sostanze chimiche e della consulenza di periti agrari,
sempre più spesso pianificando gli investimenti e i tipi di colture in base
agli orientamenti del “mercato”. Non cambiano solo le campagne: si aprono
fabbriche, alcune hanno già concluso un ciclo e chiudono, dilagano vasti
ipermercati intorno alle città, il “terziario” diventa settore dominante.
Eppure ci sono cose - meno appariscenti di un ipermercato ma
molto più “pesanti” - che non sembrano affatto essere cambiate, nell’Italia
meridionale di oggi.
Negli anni ’50 del secolo scorso uno studioso americano,
Banfield, venne ad analizzare la struttura economica e sociale di un tipico
paesino della Basilicata. Egli pubblicò i risultati del suo lavoro in un libro
intitolato “Le basi morali di una società arretrata”. La sua tesi era che l’arretratezza
economica di quello come di altri paesi meridionale aveva come spiegazione di
fondo la scarsa propensione dei suoi cittadini alla cooperazione. Essi, scriveva
lo studioso americano, badano solo all’utile privato, individuale o al massimo
familiare, essendo incapaci di sviluppare quelle forme di cooperazioni
indispensabili per dare maggiori dimensioni alla loro economia e quindi poi
produrre e disporre di maggiore ricchezza. Quel libro fu definito una sorta di
continuazione ideale (con l’accento sui fatti economici) del “Cristo si è
fermato a Eboli” di Levi. Ne veniva fuori un quadro simile, naturalmente
negativo, sotto forma di saggio invece che di romanzo.
Tanto per non dimenticare, poco più di una decina di anni fa
un altro studioso universitario americano, Putnam, è venuto a cercare conferma
di quella teoria. L’ha trovata, ne ha individuato per giunta i fondamenti “storici”
(la mancanza nella storia del sud Italia della fase dei “comuni”, che per il
centro e il nord Italia rappresentò un periodo di grande sviluppo economico e
politico), e ha avuto grande risonanza.
Personalmente, ho il sospetto che la diffusione (a quanto
pare, grande) di tali testi nelle università americane sia dovuta, più che
altro, al fatto di essere esemplari dimostrazioni di come ogni modello diverso
dall’“american way of life” e diverso dal capitalismo risulti storicamente
perdente.
Torniamo ai possibili errori di prospettiva: quella che agli
osservatori stranieri è parsa scarsa tendenza alla cooperazione per molti
meridionali potrebbe invece apparire un modo normale di essere. Così come ci
sembra naturale - anche se ingiustificabile secondo i moderni criteri
costruttivi - che quel paesino oggetto dell’osservazione di Banfield
(Chiaromonte, in Lucania) sorga in cima ad una collina, nella posizione peggiore
per lo sviluppo delle comunicazioni, dei trasporti e della cooperazione. Al
limite verrebbe da considerare che, evidentemente, il mondo non è stato
plasmato in funzione del capitalismo.
D’altra parte i difensori delle “tesi americane”
potrebbero controbattere che costruire paesi in cima a colline è altrettanto
superato che “non cooperare”. Inevitabilmente, se volessimo portare avanti
la discussione, dovremmo accordarci su un fatto: il metro di paragone, per dire
che un sistema sociale ed economico (e urbanistico, a questo punto) è più o
meno giusto o sbagliato, qual è? È la società nord americana di oggi il metro
universale a cui tutti si devono accordare? Allora hanno ragione Banfield e
Putnam. Ma non ci pare essere unanime accordo, su questo. Soprattutto perché
nella maggior parte del mondo si confonde la società americana con l’immagine
(edulcorata?) che di essa ci viene dalla televisione. Non coincidono, le due
cose.
Fermiamoci. Gli studi citati ci servano solo per portare
esempi di come le regioni meridionali italiane partecipino allo “sviluppo” e
anche, nello stesso tempo, al “sottosviluppo”. Per quanto possiamo formulare
giudizi secondo criteri non assoluti, validi oggi, indubbiamente notiamo delle
contraddizioni.
Nel sud di un paese industrializzato come l’Italia l’“incertezza”
di tutti i soggetti politici “non conservatori” immersi in ambiente sociale
affollato di povera gente, dotata di lettore “dvd” di ultima generazione ma
non di un lavoro sicuro, è più evidente che altrove. Conseguentemente, Puglia
e Sicilia sono state le regioni in cui, nel 2001, il partito conservatore del
signor Berlusconi ha preso più voti, anche da contadini e operai: forse perché
era il più rassicurante.
3. Il Sud nella protesta
Aver messo nel dimenticatoio larghi tratti della memoria
collettiva della gente meridionale potrebbe essere stato un modo per tagliarne
le radici e aumentarne le incertezze. Una operazione funzionale al mantenimento
di un potere politico, che in pochi altri posti come la Puglia o la Sicilia è
da tanto tempo sempre uguale a sé stesso.
In alcuni casi, come nei tragici fatti di Andria, la
rimozione è giustificata anche da un senso collettivo di colpa: in quel grosso
paese agricolo a nord di Bari, subito dopo la seconda guerra mondiale, durante
una manifestazione la folla dei braccianti senza lavoro perse la testa e furono
ammazzate due innocenti anziane “signorine”, colpevoli solo di essere
benestanti e di abitare da sole in un palazzo signorile che dava sulla piazza,
da dove tutti pensarono avessero sparato all’oratore, il sindacalista Di
Vittorio. Come fu poi accertato, lo sparo era stato più lontano e non
indirizzato al sindacalista.
Ma in Puglia anche il ricordo di tante altre proteste
bracciantili, a volte purtroppo finite tragicamente nella più solita maniera,
con i morti dalla parte dei dimostranti, è scomparso. Anche Bari ha avuto le
sue insurrezioni sindacali, anche altri paesi della provincia. Tutto pressoché
dimenticato.
Che si tratti di un passato povero o che si tratti dell’ultima
volta che si è “caduti malati”, l’uomo meridionale - è stato detto - ha
una forte e istintiva tendenza a rinchiudersi, a non mostrare. Ammesso che sia
vero, rimane il dubbio di una vera e propria cancellazione pianificata del
ricordo, di una specie di “damnatio memoriae” nei confronti di quegli
avvenimenti, non del tutto secondari, di cui si evitano accuratamente le
citazioni.
Sembra proprio che - a fronte della inconcludenza di tutta
una parte politica che non sa o non vuole trovare gli argomenti giusti per
scalzare il sistema di potere - il ceto politico dominante abbia affinato a tal
punto i suoi metodi da eliminare ogni turbamento possibile, trattando gli uomini
come bambini, ai quali si fa credere che certi passati sgradevoli siano stati
solo brutti sogni, svaniti.
Reso più facile dalla recente e facile “abbondanza”, l’inganno
sta nel far apparire le cose civili come cominciate “oggi”. Si lascia poi ad
ognuno automaticamente pensare che non potrebbero continuare diversamente, “domani”.
Che i poveri si siano ribellati, un giorno non tanto lontano e per giunta qui,
in casa nostra, è una cosa che è meglio non far sapere.
Liberi di laurearsi, molti giovani meridionali d’oggi
ammettono candidamente di “non capire niente di politica”; meno che meno di
quella locale, monopolio di gruppi e famiglie che si tramandano di padre in
figlio la “passione per la politica” e per le cariche. Assunti col diploma,
i giovani operai che entrano in fabbrica al posto dei loro padri non fanno
distinzione neanche tra sindacati di “destra” e sindacati di “sinistra”.
Se si prende una tessera sindacale è quasi sempre per fare, o per chiedere, un
piacere. Per le giovani generazioni di operai il passato è indefinito,
trascurabile. Troppo impegnati a mostrarsi adeguati ai modelli dello schermo
almeno nel fine settimana, confessano pudicamente di capire poco di quello che
si dice nelle assemblee sui posti di lavoro, quando partecipano.
Istintivamente hanno capito anche troppo: quello che dicono i
“sindacalisti” che predicano “concertazione” è uguale a quello che
dicono i politici e i rappresentanti aziendali, è uguale a quello che sentono
in televisione. Non è reale, non coincide con lo sporco morale e materiale
sconosciuto al mondo di fuori e che trovano ogni giorno in mezzo alle macchine e
tra capi, capetti e mafie “sindacali”. La loro incertezza è spiegabile.
4. Relazioni meridionali
Gran parte delle fabbriche della zona industriale di Bari
furono impiantate negli anni ’70, trasferendo sotto i capannoni tanti giovani
uomini che fino allora avevano conosciuto solo il lavoro nei campi. Per molti di
loro ci fu un periodo di addestramento al nord, nelle sedi-madre delle aziende;
per molti ex contadini fu l’emancipazione dalla figura del padre, capo e
padrone-datore di lavoro allo stesso tempo. Per la maggior parte di loro
sembrava decisamente un passo in avanti.
Alla inevitabile sindacalizzazione di quella nuova leva di
operai la classe dirigente rispose facendo diverse concessioni: a livello
nazionale furono fatti ponti d’oro (“distacchi” e permessi a volontà,
come minimo) alle dirigenze sindacali che abbandonavano le posizioni più
estreme verso un sempre più blando “riformismo”. Al sud, dove tanti operai
conservavano il pezzo di terra da lavorare la domenica, si arrivò a pianificare
i periodi di cassa integrazione in base ai periodi agricoli: agli operai che
venivano da zone dove si coltivava uva si faceva fare cassa integrazione nel
periodo della vendemmia; per quelli che venivano da zone dove si producono olive
i sindacalisti ottenevano che le “crisi” e la relativa cassa integrazione
coincidessero con il periodo della raccolta di quel frutto. Tutto accadeva con
circa un secolo di ritardo rispetto ai paesi di prima industrializzazione: “Fin
dopo il 1900, i minatori belgi dedicavano un ritaglio di tempo nella stagione
giusta (se necessario, con un annuale “sciopero delle patate”) alla cura dei
loro orticelli”. (E.J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia, p.
258).
Normalmente le famiglie meridionali conservarono il legame
con la campagna: ancora oggi molti operai usano il tempo libero della domenica
per fare i lavori nel pezzo di terra ereditato dai padri. Anche qui non è
mancato l’intervento del potere centrale, a spargere collante sociale sotto
forma di sovvenzioni e “integrazioni” ad un tipo di conduzione delle
campagne fatto di poderi piccoli e sparsi che, altrimenti, sarebbe stato
anti-economico. Si integra così il bilancio familiare, che è ancora
prevalentemente “monoreddito”, con i proventi della campagna.
Ancora oggi funziona nel meridione (a parziale smentita delle
tesi di Banfield) una rete di relazioni familiari allargate, che rende possibile
per molti nuclei familiari il sostentamento con una sola fonte ufficiale di
reddito, quella del capo-famiglia. Molte giovani coppie vivono in una sorta di
“simbiosi” economica con le famiglie di origine, che vede il genero andare
ad aiutare il suocero nei lavori di campagna la domenica, e tre generazioni poi
insieme a tavola a spese dei “nonni”. È molto diffuso il “comparizio”:
una sorta di “creazione” di nuova parentela, frequente tra vicini e
conoscenti o utile a rinsaldare vincoli parentali preesistenti, che prevede
tutta una serie di scambi economici e sociali.
Gli scenari stanno mutando: anche in agricoltura ci si va
sempre più specializzando e meccanizzando, come abbiamo detto, rendendo sempre
più improbabile il lavoro del contadino della domenica. E, anche, numerose
famiglie vivono grazie al reddito del marito e anche a quello della moglie,
sempre più frequentemente divisa tra il ruolo di casalinga e quello di
infermiera professionale, o commessa, o insegnante.